martedì 10 settembre 2013

LA CONTESTAZIONE DELL'ARTE - La pratica artistica verso la vita in area campana

Da S. Taccone, La contestazione dell'arte, Phoebus, Casalnuovo di Napoli, 2013, pp. 7-14.

Se un tale uomo viene da noi per mostrarci la sua arte, ci metteremo in ginocchio davanti a lui, come davanti a un essere raro e santo e dilettevole… L'ungeremo con la mirra e gli porremo un serto di lana sulla testa, e lo manderemo via, in un'altra città. 
PLATONE

Il presente studio mira a ricostruire e mettere a fuoco una serie di esperienze artistiche che, svolgendosi lungo un arco cronologico grosso modo compreso tra la metà del decennio sessanta e i primi anni del decennio settanta in un’area che ha senz’altro nella città di Napoli il principale focolaio, ma che interessa costantemente anche centri limitrofi – Caserta e Scafati su tutti -, a differenza di quanto avverrà dopo la metà degli anni settanta - allorché sarà la provincia ad essere il teatro d’azione preponderante –, tendono, sia pure dimostrando modalità ed accezioni talvolta anche molto differenti, ad eccedere lo spazio separato tradizionalmente deputato al fenomeno artistico - ove l’arte, come afferma Mario Perniola nel suo L’alienazione artistica, che esce proprio in quegli anni (’71), è “significato senza realtà” [1] – affinché esso invada la vita e si identifichi il più possibile con essa, riprendendo – è chiaro – quello che è il progetto delle avanguardie di inizio secolo – almeno secondo una certa interpretazione e classificazione delle avanguardie[2] -, ma soprattutto in conformità con quella che è una temperie assolutamente internazionale – europea, americana e non solo -, nonché con notevoli episodi che interessano anche altri contesti italiani.

        

Tale compito storico-critico si rivela oggi più che mai costellato di difficoltà ed inside e ciò non solo e non tanto per l’esiguità – e non di rado la totale mancanza - di letteratura sull’argomento e di documenti chiaramente comprovanti le dinamiche secondo cui si sono svolti i fatti - circostanza che investe necessariamente di una responsabilità maggiore rispetto al solito le testimonianze basate su ricordi diretti, le quali spesso, un po’ a causa del numero dei decenni intercorsi, un po’ a causa della più o meno conscia tendenziosità dei testimoni, ancora fortemente coinvolti emotivamente, risultano assai divergenti e persino contrastanti -, facendo sì che essi risultino talvolta non pienamente carpibili. I problemi preliminari nascono bensì a fronte di una vulgata che – non senza contraddizioni interne al suo discorso - vorrebbe tali vicende – ed anche altre di cui qui non mi occupo, ma che sono comunque riconducibili nell’alveo delle sperimentazioni d’avanguardia nel secondo dopoguerra in area campana – scarsamente originali, irrilevanti, ritardatarie, vernacolari e/o semplicemente inesistenti. La narrazione nettamente dominante, consolidatasi probabilmente proprio nell’ultimo ventennio – quello delle installazioni di Piazza Plebiscito, delle stazioni metropolitane dell’arte e dell’apertura di due musei come il Madre ed il Pan – e assai spesso ripetuta in assoluta buona fede, vuole infatti che se vi è stata una storia dell’arte contemporanea a Napoli – sul fatto che si faccia riferimento sempre e solo al capoluogo e quasi mai ad un circuito regionale pure ci sarebbe da riflettere – ciò è avvenuto esclusivamente in virtù di pochi ed illuminati galleristi, che avrebbero condotto la loro coraggiosa e pionieristica attività nella sostanziale indifferenza delle istituzioni pubbliche e nell’iniziale estraneità di buona parte della borghesia intellettuale, permettendo il frequente approdo in città di alcuni tra i più prestigiosi esponenti delle avanguardie internazionali e quindi, attraverso un paziente lavoro di decenni, riuscendo finalmente – o almeno in parte – nell’impresa di educare ai linguaggi del contemporaneo il pubblico napoletano.


Giuseppe Desiato, Monumento effimero, 1965, stampa fotografica, Sorrento.


Non è assolutamente mia intenzione – né qui, né altrove – tentare un disconoscimento dell’importanza di certe gallerie per l’affermazione dell’arte contemporanea a Napoli, ritenendo invece la loro attività storicamente preziosa - benché non da osannare -, né di avanzare argomenti come la subalternità al mercato straniero – in particolare statunitense –; il carattere di mera importazione dell’attività espositiva; la scarsa qualità delle opere esposte, in quanto parte della produzione meno pregiata di artisti che considererebbero la piazza napoletana di rilevanza secondaria; la conseguente scarsa propensione alla promozione di artisti del territorio – fattori cui pure va riconosciuto un fondo di verità. Mi preme piuttosto tirare fuori dall’oblio tutta una sequenza di situazioni che, pur senza neanche esasperare troppo la frattura tra cultura “istituzionale” e cultura “di base” - ché niente esiste mai allo stato puro - si situano appunto su questo secondo versante, saldando naturalmente la tensione verso lo sconfinamento nella vita, oltre i limiti angusti dei linguaggi meramente simbolico-rappresentativi – pur non potendo in verità fare a meno di ricadere il più delle volte in ogni caso nei domini del linguaggio e del simbolico –, da parte di un’arte intesa in definitiva come strumento di intervento e trasformazione sulla e della vita stessa, con il rifiuto degli spazi deputati, della mercificazione dell’opera d’arte e della stesse identità dell’artista come professionista e natura della pratica artistica come specialismo.

 Da sinistra Renato Brancaccio, Crescenzo Del Vecchio, Giuseppe Pappa, Antonio Davide, Giuseppe Desiato durante la mostra del Gruppo Studio Proposta 66 presso la galleria 1+1 di Padova, 1967.


Tale proposito non scaturisce certo dalla volontà di tessere un’acritica - ed in fin dei conti anche poco efficace alla causa – apologia, tanto più dal momento che, come lo stesso lettore potrà constatare, le contraddizioni e le debolezze non sono tralasciate o – peggio ancora – occultate, ma analizzate con la maggiore serenità – ed onestà – intellettuale possibile, nella consapevolezza che esse sono assolutamente fisiologiche per ogni manifestazione umana – e la pratica artistica non è al di fuori di queste – e qualsiasi tentativo di censura, anche qualora condotto con un presunto fine benefico, equivale a dissipare quella che è persino una ricchezza. La prospettiva ultima risiede piuttosto nel permettere una più solida conoscenza dei fenomeni - prima ancora di tentarne una valutazione - e quindi, tra l’altro, nel fornire elementi utili per delineare un quadro più ricco, complesso ed articolato di quanto avviene a Napoli ed in Campania in due decenni ancora assolutamente cruciali per il nostro presente.

Prop-Art, Manifesto, 1973.


Gli stessi parallelismi e comparazioni con altre realtà d’avanguardia italiane, europee o americane – con le quali in verità raramente sussiste un contatto diretto, benché talvolta esso possa anche risultare strettissimo, come nel caso del Teatro Comunitario e del Living Theatre –, che mi pare opportuno frequentemente rilevare, non possiedono la funzione di certificare di per sé il valore degli esempi campani e tanto meno di avanzare l’ipotesi una pari qualità ed importanza, bensì di suggerire come, in un mondo incipientemente globalizzato, durante determinati snodi storici le esigenze e le soluzioni dimostrino notevoli convergenze, anche qualora i soggetti in questione, vivendo tra loro a migliaia di chilometri di distanza, si ignorino, loro malgrado, reciprocamente. A tal proposito va constatato immediatamente che se a quei tempi - come è noto - l’informazione d’arte possiede una mole infinitamente minore rispetto all’odierna sovrapproduzione e la sua trasmissione è molto più lenta ed esigua, la condizione specificamente napoletana e campana in merito radicalizza naturalmente tale carenza rispetto ai centri settentrionali e dunque gli artisti ivi residenti non possono che cogliere - di quanto avviene a migliaia di chilometri di distanza - ciò che a noi apparirebbero echi sbiadite.

 Teatro Comunitario, Liturgia liberatoria per scacciare il colera, 1975, azione urbana, centro storico di Napoli.


In un contesto del genere, definibile come periferia dell’Occidente – come del resto è periferia la gran parte di esso -, connotato dunque da un grado relativamente meno avanzato dello sviluppo tecnico-industriale e da scambi culturali altrettanto relativamente meno ricchi e frequenti, sarebbe non solo errato giudicarne la produzione artistica secondo criteri assolutamente analoghi a quelli solitamente adottati per il centro, ma anche innaturale qualora essa assomigliasse a tutto tondo a quella propria di quest’ultimo, fattore che determinerebbe a ragione una percezione di non congruità tra ambiente ed espressione ed in definitiva un sospetto di travestitismo linguistico. La coesistenza contraddittoria – o apparentemente tale - di forme ed atteggiamenti che possono percepirsi come legati ad una poetica ancora troppo tradizionale, o comunque propria di una stagione che la storia dell’arte contemporanea ufficiale ritiene generalmente superata in una determinata epoca, con altri che invece risultano pressoché in linea con le sperimentazioni considerate più avanzate – commistione che può avvenire non solo tra artisti che pure condividono un progetto di gruppo comune, ma anche all’interno della produzione di uno stesso artista o di una stessa opera - va dunque intesa come una caratteristica fisiologicamente costitutiva e non come una inspiegabile schizofrenia.

Galleria Inesistente, Hic sunt leones, 1972, azione urbana, Piazza vittoria, Napoli.


Assodato tale delicato aspetto, possiamo finalmente tornare al discorso dell’integrazione tra arte e vita. La nozione che più coerentemente mi pare accompagnare tale peculiare vocazione nel lasso temporale che va dalla metà degli anni sessanta ai primi degli anni settanta in area campana, il motore concettuale che prettamente mi pare innescare tale slancio è la contestazione, termine senz’altro caro in primis a Luigi Castellano (Luca), personalità artistica che riveste, come vedremo, un ruolo chiave nell’economia dell’intero studio, ma altrettanto indubbiamente ben confacente a tutte le altre vicende qui analizzate. Non altrettanto si potrà dire a partire dalla seconda metà degli anni settanta e fino alle soglie degli anni ottanta, allorché il concetto più pregnante da associare alle ricerche tra arte e vita si rivelerà invece, con ogni evidenza – ed in un’ottica di segno chiaramente più “riformista”, quello della cooperazione, sulla quale appunto si fonda quella tendenza generalmente detta arte nel sociale che – rinvenendo proprio nei centri campani alcuni dei suoi più fervidi e vivaci episodi – potrebbe essere intesa come scaturente proprio da una sorta di rovesciamento delle attitudini contestatarie: è quello che avviene con Riccardo Dalisi al Rione Traiano, esperienza che, pur collocandosi su di un piano strettamente cronologico nel periodo della contestazione, risulta già pienamente informata ai paradigmi della cooperazione ed anzi ad essa apre letteralmente la strada non solo in Campania, ma in tutta Italia, ma questa è un’altra storia.


Riccardo Dalisi, animazione al Rione Traiano, 1971-1975.


La contestazione dell’arte diviene così interpretabile in due differenti accezioni: come arte che si fa strumento di contestazione – della società, della politica, dell’economia -, ma anche come arte che contesta se stessa – il suo statuto mercantile, la sua stessa fondazione come disciplina finalizzata alla separazione. Due possibilità che non postulano però alcuna alternativa, ma sono al contrario continuamente interrelate e direi persino inseparabili per una prassi che segua una logica non parcellare. Tutto ciò in una dimensione ove non di meno l’arte vive costantemente sulla soglia tra piena realizzazione e totale sparizione. «L’arte nell’epoca della sua dissoluzione», scrive Guy Debord in La società dello spettacolo, «in quanto movimento negativo che tende al superamento dell’arte in una società storica in cui la storia non è ancora vissuta, è insieme un’arte del cambiamento e l’espressione pura dell’impossibilità del cambiamento. Più la sua esigenza è grandiosa, più la sua vera realizzazione è al di là di essa. Quest’arte è necessariamente d’avanguardia , e non è. La sua avanguardia è la sua scomparsa».[3]




[1] Cfr. M. Perniola, L’alienazione artistica, Mursia, Milano, 1971.
[2] Ad esempio P. Bürger, Theorie der Avantgarde, 1974, trad. it., a cura di R. Ruschi, Bollati Boringhieri, Torino, 1990.


[3] G. Debord, La Societé du Spectacle, [1967], trad. it., Baldini Castoldi Dalai, 2008, p. 166.

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