venerdì 25 settembre 2020

LO SPECCHIO “ROSSO-NERO” CHE SI ACCINGE A STRITOLARCI - Lettera aperta a Vincenzo Estremo a partire dalla sua Teoria del lavoro reputazionale. Saggio sul capitalismo artistico

Caro Vincenzo, ho letto e riflettuto circa il tuo Teoria del lavoro reputazionale. Saggio sul capitalismo artistico (Milieu edizioni, Milano, 2020). La prima osservazione che mi viene in mente è che si tratta di un lavoro che, attraverso un investimento biografico-esperienziale-emotivo assai consistente per chi sa leggerlo più o meno tra le righe – cogliendo qua e là qualche piccolo riferimento: dal tuo lavoro come da operaio all’Indesit alla “battaglia di Napoli” del 2001 -, delinea un ritratto in cui numerosi soggetti della nostra generazione potrebbero ampiamente rispecchiarsi, rinvenendo la parabola della loro vita in questo primo ventennio circa di maturità. Una parabola, come tu stesso dici, basata inizialmente sul primato del credere – “Un altro mondo è possibile!”, ricordi? – e poi piano piano è come se gli orizzonti di reale trasformazione si fossero sempre più chiusi di fronte a noi, fino a trovarci davanti ad un muro apparentemente invalicabile. Tu provi, ostinatamente, ad aprire qualche spiraglio nell’epilogo – e fai bene – anche se non eri obbligato a mio modo di vedere. Su questo punto sono abbastanza d’accordo con il compianto David Graeber, il quale proprio in Bullshit job - che so essere stato uno stimolo importante per Teoria del lavoro reputazionale – così scrive: «Di solito non mi piace inserire raccomandazioni di pratiche politiche nei miei libri. Una prima ragione è che, in base alla mia esperienza, se un autore è critico riguardo all’ordinamento sociale esistente, i recensori replicano di fatto con la domanda: “Che cosa proponi di fare allora?”, cercando nel testo qualcosa che assomigli a un suggerimento di politiche e comportandosi poi come se tutto il libro ruotasse in sostanza attorno a quello. […] Un’ altra ragione per cui esito a suggerire politiche è che io diffido della loro stessa idea, poiché esse implicano la presenza di un gruppo di è di élite – in genere funzionari pubblici – che prende decisioni su una questione (“una politica”) e poi fa in modo di imporle a tutti gli altri. Spesso cadiamo in una trappola mentale quando discutiamo di argomenti del genere. Diciamo per esempio: “Che cosa faremo per il problema X?”, come se “noi” fossimo la società nel suo complesso, in grado di agire in qualche maniera su noi stessi, mentre i realtà, a meno di far parte del 3-5 % della popolazione le cui opinioni condizionano veramente i decisori politici, si tratta soltanto di un gioco di finzione: ci identifichiamo con i nostri governanti quando siamo noi i governati» (D. Graeber, Bullshit job, trad. it. Garzanti, Milano, 2018, pp. 332- 333). Per quanto le tue parole – comunque poche e basiche – dedicate alla “pars costruens” siano a tratti toccanti – penso in particolare al finale: «[…] Si deve considerare la lotta come una modalità di essere nel mondo, qualcosa che avviene proprio per rinuncia ed elusione, quando il proprio lavoro è percepito come un danno al mondo condiviso e alla condizione di partecipazione. Rivendicare il diritto di non impegnarsi in pratiche distruttive, di non essere un oppressore e un carnefice, di non agire secondo norme e protocolli i cui obiettivi sono stati definiti per riprodurre quelle stesse strutture di cui si soffre a causa del regime capitalistico […]» (pag. 174) – non credo che siano da ricercare in esse le note migliori del tuo lavoro, benché proprio da alcuni motivi di questa conclusione partirei per parlarne. 


Il tuo desiderio di non fare il male al prossimo e di non subirlo che emerge dall’ultima pagina del libro, che ho appena citato, rimanda infatti a tutta una operazione di parresia che dall’inizio alla fine sembra pervaderlo. Di parresia tanto più coraggiosa in quanto parte da te, da una autocritica del tuo ruolo sociale e dell’ambiente nel quale ti muovi. Dopo tanti anni è come se le contraddizioni – che comunque non sono solo tue, ma di chiunque più o meno giovane di noi si ponga nell’ambito del lavoro artistico portandosi con sé una istanza di critica al sistema vigente – ti apparissero così palesi da non poter essere più intese come elementi laterali, contingenti superabili. Intuisci, in altri termini, che se «Negli anni, lavorando in maniera più o meno costante insieme ad una costellazione di figure che si occupano d’arte, ho preso parte a moltissime riunioni in cui si è discusso e ridiscusso sullo stato dei lavoratori e del lavoro artistico» e «Tutte queste riunioni mi davano l’impressione, e credo la dessero a tanti altri partecipanti, che il senso delle discussioni, a volte anche interessanti, non stesse nella risoluzione di un problema dato, ma della loro stessa circolarità», ci deve essere qualcosa di strutturale, di precipuo del nostro momento storico, e non può essere assolutamente imputabile alle capacità contingenti, più o meno scarse, dei tuoi interlocutori. Tu menzioni esperienze più recenti come W.A.G.E. e Jubilee, io posso ricordare di essere stato presente a riunioni di collettivi una decina di anni fa, che si verificavano a partire dalla spinta propulsiva delle rivolte arabe e degli indignados: una giornata di discussione in cerchio nello spazio allora sede della Galleria Artra di Milano dove ebbe inizio il percorso dei Lavoratori dell’arte che poi portò mesi dopo alla nascita di Macao, o un’altra giornata in cui il Museo Madre di Napoli – allora in un momento di gravissima crisi gestionale – fu occupato dal collettivo La Balena – legato però questo principalmente al teatro -, vicenda dalla quale di lì a poco scaturì l’esperienza dell’Ex-Asilo Filangieri. Nell’uno e nell’altro caso – premesso che non sono mai stato un assiduo frequentatore né di Macao, né dell’Ex-Asilo – direi che nella migliore delle ipotesi lo sbocco è stato una micro-utopia, ma mi sento di poter dire - con buone possibilità di non essere smentito - che le ambizioni di trasformazione radicale e generale del settore artistico-culturale che entrambi i collettivi si prefiggevano originariamente non siano andate in gran parte frustrate. Non si spiegherebbe del resto altrimenti la nascita di nuovi soggetti che ricordano quelli di allora, anche in Italia, come Art Workers Italia, ché il covid è solo la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo! 

                                             
                Striscione di Macao, Milano.

D’altra parte ritengo che le tue istanze siano mediamente più radicali di questi movimenti italiani, giacché la loro vocazione prettamente rivendicativa – parlo non solo di quello recente ma anche di quelli di un decennio fa – mi pare abbia sempre messo quanto meno in secondo piano aspetti più profondi che invece la tua riflessione lambisce. La richiesta di reddito e altri obiettivi affini finiscono infatti per lo più per porre quanto meno in secondo piano la terribile condizione di oppressione ed ingiustizia strutturale che permea il sistema dell’arte contemporaneo e non sempre lo ancora opportunamente a quella di tutto il sistema neoliberale nel suo insieme, di cui il sistema dell’arte è naturalmente parte ed anche paradigma, come ci ha insegnato più di ogni altro Paolo Virno (Cfr. P. Virno, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee, DeriveApprodi, Roma, 2003). E Virno ci ha appunto – purtroppo – insegnato anche un’altra cosa, correggendo in questo la tesi negriano-harendtiana sulla moltitudine -, ovvero il suo carattere non rivoluzionario che abbiamo potuto costatare nei nostri amici e colleghi più prossimi, oltre che in noi stessi, e prima ancora di uscire dalla nostra bolla per scoprire quanto cognitariato sia sostanzialmente più prossimo alla sensibilità di +Europa o Italia Viva, del populismo sedicente anticasta, se non proprio talvolta dei cosiddetti sovranisti. Senza arrivare appunto a soggetti lontani dalle nostre idee e dal nostro piccolo mondo, benché a noi socialmente affini, verifichiamo questa impossibilità di essere «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» proprio nel nostro vivere quotidiano. In quelle riunioni che tu hai descritto in maniera così icastica, ma nell’altrettanto eloquente tua descrizione del “black mirror” che ci pervade, facendo apparire obsoleto tanto il panottico benthamiano quanto il Grande Fratello orwelliano. Del resto se “black mirror” è forse per ora ancora un serial, nell’altro emisfero del mondo il “red mirror” è già in una fase avanzata di sperimentazione e, come racconta Simone Pieranni, trova anche un amplissimo consenso in quanto il sistema dei crediti sociali pare sia reputato dalla maggioranza dei cinesi meno un male che un’opportunità per garantire la sicurezza (Cfr. S. Pieranni, Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina, Laterza, Bari – Roma, 2020). Notizia di pochi giorni fa è poi il fatto che il modello cinese dei crediti sociali sembra già contagiare significativamente i regimi elettivi, sia pure con delle diversità corrispondenti appunto alla specificità del contesto e benché stiamo parlando ancora dell’Estremo Oriente. Alludo alla circostanza per cui tra pochi giorni a Singapore, in virtù della partnership tra il governo della città-Stato ed Apple, «Una camminata, una corsa in bicicletta, una nuotata. Ma anche una seduta di yoga, un pasto sano o una bella dormita», insomma ”vivere in maniera sana” «non garantirà solo benessere personale, fisico e mentale, ma anche un premio in denaro, fino a 300 dollari», alla faccia della buona e vecchia privacy (F. Santelli, Singapore, un premio in denaro per chi fa una vita sana, in “La Repubblica”, Roma 19 settembre 2020). 


Di questa tempra insomma probabilmente il mondo con il quale, volenti o nolenti, in un futuro prossimo ci dovremo confrontare e in una certa misura lo stiamo già facendo, senza dimenticare naturalmente tutte le emergenze ambientali che dai disastri dovuti all’innalzamento delle maree alle stesse pandemie – che non sono qualcosa di casuale, avulso, non determinato dai nostri modi di vita contemporanei, come ben si capisce leggendo il bestseller di David Quammen (Cfr. D. Quammen Spillover. L'evoluzione delle pandemie, 2012, trad. it. Adelphi, Milano, 2014) -, tutti fenomeni che non promettono d’altra parte che occasioni di ulteriore pervasività del “mirror”, qualunque colore gli si voglia attribuire. Tale condizione apre inoltre un forte punto di domanda circa la possibilità di poter parlare ancora di postfordismo, dubbio a mio parere già emerso con la crisi scoppiata nel 2007-2008, benché per motivi differenti. Quanto meno infatti sarebbe necessario parlare di una fase del post-fordismo nuova e assai distante, per molti versi, da quella “eroica” degli anni novanta. Una fase in cui tra l’altro l’aura utopica di quel tempo si volge sempre più nel suo contrario. Trovandoci a discutere di nomi da dare alle cose vorrei infine dire due parole sull’autodefinizione del tuo volume: «Una scrittura che ha la presunzione di aprire un dibattito sulla possibilità di fare art writing senza fare critica delle forme, leggendo l’arte come fosse una teoria critica e la teoria critica come fosse arte» (pag. 13). Non so se la locuzione che scegli è la più appropriata, forse si potrebbe trovare qualcosa di più collimante con la complessità di ciò che effettivamente compi. Ancora una volta devo premettere che la tua è una scelta coraggiosa tanto come critico-curatore quanto rispetto agli artisti e a tutti i soggetti del sistema dell’arte: si sa infatti che il mestiere di cui sopra è ormai in larghissima parte “promozionale” – e questa è una delle aporie nelle quali i gruppi di lavoratori dell’arte puntualmente inciampano, senza essere capaci di risolverla -, mentre la maggior parte degli artisti – e di tutti gli altri esponenti che intorno al sistema dell’arte ruotano – non lo intendono diversamente. Una scrittura sull’arte che non si muova in questa direzione pone pertanto già di per sé delle perplessità e talvolta delle vere e proprie incomprensioni ed idiosincrasie. Detto ciò descriverei il tuo volume come un insieme di piccoli itinerari (auto)critici che partono dai presupposti del “capitalismo artistico” e del lavoro come costruzione e gestione dell’immagine (reputazionale) - sulla scorta, prettamente, di Boltanski e Chiapello e dei teorici post-operaisti italiani – e non si servono di esempi artistici – prettamente cinema e videoarte, in conformità, credo, con i tuoi interessi di studio più tipici – se non appunto per rinforzare la teoria. L’uso dell’arte come teoria critica mi pare quindi prevalere sulla teoria critica come arte, e dal mio punto di vista ciò possiede anche un suo perché. 



David Graeber e Herbert Marcuse 

Buon cammino, caro Vincenzo! Libri del genere sono terapeutici tanto per chi li scrive quanto per chi li sa leggere, non malgrado ma proprio perché mettono di fronte alla realtà bruta! E non ti paia una diminutio la nozione di terapia! È quella che Herbert Marcuse riferiva alla filosofia! Marcuse? Sì, esatto! Io sono e voglio restare un po’ vintage!

                                                                                                                                           Stefano Taccone