martedì 13 luglio 2021

ARDITE APORIE - L’arte nello spazio pubblico in tempi di pandemia

 Il testo costituisce il mio contributo ad Archivi e topografie immaginarie e  Solo nel deserto, mostre collettiva degli allievi del corso di fotografia digitale tenuto da Robert Pettena presso l'Accademia di Belle Arti di Firenze. Inauguratesi il 18 giugno 2021 a Firenze, rispettivamente presso la PIA-Palazzina Indiano Arte e la Manifattura Tabacchi, la prima resterà aperta fino al 31 luglio, mentre la seconda ha chiuso il 10 luglio.

«A meno di non ricorrere a spazi sottovuoto», scrive la filosofa Donatella Di Cesare, «bisognerà vivere in un ambiente contaminato, infettato, avvelenato. L’integrità è un miraggio del passato. Per avere condizioni accettabili l’organismo deve votarsi a una veglia permanente, una sorveglianza insonne. Virus e batteri sono tra noi. Questi nuovi coinquilini aggressivi invadono anche l’intimità, insidiano l’antica dimora, dove tentano di stanziarsi. La società dell’igiene chiama a raccolta e l’immunità diventa un’ideologia. La cura di sé ossessiva e la medicalizzazione continua sono lo specchio della chiusura selettiva, del rifiuto convinto alla partecipazione, della conservazione caparbia. I sistemi immunitari sono i servizi di sicurezza specializzati nella protezione e nella difesa contro invisibili invasori, virus migranti che avanzano pretese di occupazione dello stesso spazio biologico. Il miraggio di immunità procede di pari passo con la globalizzazione». (1: D. Di Cesare, Virus sovrano? L’asfissia capitalistica, Bollati Boringhieri, Torino, 2020, pp. 86- 87). 



Federico Niccolai, Isolotto Firenze (Google search), 2021.
 

Quando sono state scritte queste parole? Considerando che la prima edizione del volumetto dal quale sono tratte, Virus sovrano? L’asfissia capitalistica, è del giugno 2020, presumibilmente poco più di un anno fa. Nel frattempo c’è stata la “grande illusione” dell’estate, quando non pochi sostenevano che il virus se ne sarebbe andato da solo col caldo e non sarebbe più tornato – possibilità alla quale evidentemente la Di Cesare non ha mai creduto, al pari, fortunatamente, di tanti altri, compreso il sottoscritto -; quindi la seconda ondata – che in Italia e non solo è stata peggiore della prima – e poi ancora la terza – costantemente accompagnata però questa volta dalla vicenda dei vaccini, i quali da mesi, e tanto più nelle ore in cui scrivo, suscitano insieme speranza e timore. Lo scorrere dei mesi se da una parte non ha fatto che esasperare, sia sul piano psicologico-emotivo che su quello socio-economico, la situazione di tanti individui che invece avevano affrontato la prima ondata con maggiore serenità - nella convinzione che non si trattasse che di sforzarsi di vivere diversamente per un paio di mesi e cosa avrebbe mai potuto costituire un sacrificio del genere rispetto agli anni di guerra e privazioni con cui ebbero a che fare i nostri genitori e i nostri nonni? -, dall’altra pure pare aver ingenerato in non pochi soggetti un certo senso di adattamento. 

                        Tang Xiaoyuan, Tunnel, 2021, stampa su PVC.


Lo si constata quando, in tempi di maggiore rilassatezza ed ottimismo, vengono poste domande circa il quali sarebbero le nuove prassi ed abitudini che, adottate durante la pandemia, potremmo continuare ad osservare in un mondo realmente e totalmente liberato dalla minaccia del SARS-CoV-2. Il primo punto in cima alla lista di politici, giornalisti, imprenditori, economisti e altri personaggi del mainstream sembra essere allora, senza troppe esitazioni, l’uso diffuso dei mezzi digitali, unito ad una particolare predilezione – bisogna aggiungere – a tirare in ballo il settore della scuola – una posizione peraltro che tende surrettiziamente ad una identificazione del tutto immotivata tra uso della tecnologia in ambito scolastico, che non si vede per quale motivo di per sé dovrebbe costituire un’alternativa alla frequenza in presenza al 100%, e didattica parzialmente a distanza. Se invece si sondano un po’ gli umori dei cittadini, l’impressione è che - tra l’altro – la prospettiva di abbandonare la mascherina susciti meno entusiasmo di quanto si possa credere e che anzi non pochi vi si siano quasi affezionati, tanto da dichiarare, non senza l’approvazione di alcuni virologi, immunologi, epidemiologi o, più semplicemente, di opinionisti, che d’ora in poi la porteranno per sempre. Le prime motivazioni addotte – ed è per questo che trovano il consenso di alcuni scienziati – sono naturalmente di carattere sanitario: dalla constatazione che l’uso della mascherina ha sensibilmente abbattuto i casi di influenze e raffreddori a quella per cui la mascherina proteggerebbe anche dallo smog e quindi dalla eventuale contrazione di altre malattie, come quelle tumorali. Dalla rivendicazione della libertà personale di indossare la mascherina anche in un contesto non pandemico, si passa poi abbastanza rapidamente ad osservare che - sempre in un ipotetico mondo senza più Covid -, la mascherina, almeno durante i mesi più freddi e nei luoghi chiusi, costituirebbe comunque una opportuna forma di rispetto nei confronti del prossimo, con tanto di domanda retorica del tipo: «Ma in definitiva è poi così fastidioso tenersi una mascherina?». Non mancano inoltre raffronti con i cinesi e i giapponesi, presso i quali, essendo guarda caso i popoli più civili – si dice –, l’abitudine di portare la mascherina vige da tempo (2: Il mio discorso sul favore con il quale una percentuale – non sappiamo quanto consistente – di individui vede l’uso delle mascherine anche dopo la pandemia si basa su dibattiti televisivi, su opinioni rinvenute attraverso vari socialnetwork e su conversazioni private, ma, qualora qualcuno nutrisse dubbi circa l’esistenza di certi orientamenti cfr. almeno. V. Aiello, Perché le mascherine potrebbero diventare “stagionali” dopo la pandemia di Covid, in “fangae.it”, Napoli, 10 maggio 2021, https://scienze.fanpage.it/perche-le-mascherine-potrebbero-diventare-stagionali-dopola-pandemia-di-covid/)

     Cao Zhihao, I testicoli di David sono stati finalmente appesi sotto il Ponte Vecchio, 2021, performance. 


Alle motivazioni sanitarie – discutibili o meno che siano – se ne aggiungono però altre di carattere palesemente differente, definibili piuttosto psicologico-emotive, come si evince, ad esempio, da un’inchiesta di The Guardian condotta circa un mese fa, all’indomani della fine del divieto di portare la mascherina all’aperto negli USA per coloro che hanno completato il vaccino. Alcune persone hanno dichiarato infatti al giornale «che preferiscono semplicemente indossare le mascherine per il viso in pubblico e che ciò non ha nulla a che fare con l'essere pro-scienza o anti-scienza, liberale o conservatore. Tale scelta è invece motivata del fatto che esistono più fattori che possono ferirli rispetto ai virus, inclusa l'attenzione aggressiva o sgradita di altre persone, o addirittura qualsiasi attenzione». Ecco qualche testimonianza più specifica: «Aimee, una sceneggiatrice di 44 anni che vive a Los Angeles, ha affermato che indossare una mascherina in pubblico anche dopo essere stata vaccinata le dà una sorta di “libertà emotiva”. “Non voglio sentire la pressione del dover sorridere alle persone per assicurarmi che tutti sappiano che sono amichevole e simpatica”, ha detto. “È quasi come togliere di mezzo lo sguardo maschile. C'è libertà nel riprendersi quel potere”»; «Per Elizabeth, una docente di 46 anni che vive vicino ad Atlanta, in Georgia, la mascherina ha avuto successo laddove anni di terapia e farmaci nulla avevano potuto: tenere a freno la sua ansia sociale e permetterle di sentirsi a proprio agio mentre è fuori nel mondo»; «Hartley Miller, un tecnico di 33 anni di San Francisco, ha affermato che l'ultimo anno di continue conversazioni su Zoom con telecamera accesa ha seriamente esacerbato il suo dismorfismo corporeo […] “Mi limito a fissare quella piccola scatola con la mia faccia dentro e a smontare il mio aspetto”, ha detto, notando che la sua angoscia sta influenzando le sue prestazioni lavorative. “Il mio doppio mento sembra sei volte più grande, le mie borse sotto gli occhi sono di un viola troppo profondo ecc.”». (3: J. Carrie Wong, The people who want to keep masking: ‘It’s like an invisibility cloak’, in “The Guardian”, Londra, Monday 10 May 2021, https://www.theguardian.com/usnews/2021/may/10/the-people-who-want-to-keep-masking-its-like-an-invisibility-cloak).

                                                       Chiara Salvini, Isolotto, 2021, carta.

 

La tentazione è di incrociare le dichiarazioni di “fedeltà alla mascherina” per motivazioni legate alla necessità di preservare la salute fisica con quelle che abbiamo appena ascoltato, che invece sono chiaramente legate alla sfera della salute dell’anima, in maniera tale da leggere le prime come spesso e volentieri assimilabili a nient’altro che ad un mascheramento delle seconde. Di supporre, in altre parole, che influenze, raffreddori, smog etc. non siano che più o meno inconsce bugie onde nascondere i reali, ma meno facilmente confessabili, moventi legati a fobie sociali e disturbi affini. Comunque stiano le cose, è certo che oltre un anno di, pur necessaria, reiterata coazione alla protezione ed al distanziamento nei confronti dei nostri simili, di continua, benché fondata, percezione del pericolo in qualunque altro luogo che non sia la nostra dimora non può non averci trasformato nel profondo – chi più e chi meno e, tendenzialmente, in particolare le generazioni più giovani, gli adolescenti in formazione – e di conseguenza aver trasformato, almeno per il momento, il nostro quotidiano modo di relazionarci, e ciò varrebbe anche qualora come per magia ci ritrovassimo in un ideale ambiente “Covid-free”. 


                       Davide Vaccaro, Orizzonte di attesa, 2021, tavolo di legno, terracotta, piante.

Tale scenario muta radicalmente anche i modi di pensare a tutte quelle forme di arte pubblica, partecipativa, relazionale etc. che, essendo significativamente emerse a partire dai primi anni Novanta, fornivano l’impressione, ormai da un bel po’ di tempo, di ripetere troppo spesso se stesse, non senza la complicità dei critici e dei curatori che pure le andavano presentando costantemente in termini assai stantii, come se fossero delle eterne novità, quando invece ormai l’effetto propulsore dell’uscita dagli spazi deputati e del coinvolgimento di nuovi pubblici pareva essersi per lo più consumato. Il merito di Robert Pettena e dei suoi studenti mi sembra pertanto individuabile nella caparbietà e nell’astuzia con la quale hanno cercato di introdursi negli interstizi della “vecchia socialità” rimasti accessibili – senza per questo fare a meno degli strumenti della “nuova” -, cercando di valorizzarli e goderne il più possibile, in un tempo in cui la cosa più semplice da fare sarebbe stata quella di rinchiudersi nei propri domicili ed accomodarsi davanti ad un dispositivo con connessione, attendendo che fuori cessasse la tempesta, sempre ammesso e non concesso che quel giorno sarebbe arrivato. In un momento in cui il terreno sembrava davvero mancare sotto i piedi, giacché i criteri attraverso i quali ci siamo più o meno fin dalla nascita relazionati con l’altro venivano meno, l’ostinazione di Robert e dei suoi ragazzi di cercare alternative non solo vietamente telematiche alla ricerca artistica, intesa peraltro come indagine sullo spazio sociale a trecentosessanta gradi, mi suscita una particolare simpatia e mi aiuta a continuare a credere in un futuro prossimo che – come spero tutti si augurano, ma non ne sono troppo sicuro – non sia fatto solo di social network e di serie tv, di compleanni festeggiati su piattaforme telematiche e di presentazioni di libri in streaming. 

                                                                                                                                              Stefano Taccone