lunedì 20 dicembre 2010

L'ARTE A UNA DIMENSIONE - Note dei critici

dal catalogo del Premio Mario Razzano per giovani artisti, Biennale di Benevento, 4ª edizione 2010, pp. 15-17.

Qualche mese addietro, all’indomani dei giorni più caldi della vertenza di Pomigliano d’Arco, un celebre e navigato giornalista d’arte napoletano osservava come se negli anni settanta praticamente tutti gli operatori artistici e culturali si sarebbero recati presso lo stabilimento Fiat, magari ponendosi al fianco dei lavoratori in lotta, a distanza di oltre tre decenni a nessun artista (e a nessun artista giovane) era venuto in mente di fare altrettanto.
Tale constatazione, pur facendo torto ad un artista come Salvatore Manzi, che a Pomigliano effettivamente ci è andato, ed a qualche altro artista del territorio campano che, pur non essendovisi recato, è comunque attento a certi fermenti (ma, si sa, una rondine non fa primavera), è sostanzialmente vera. I giovani artisti italiani, in media, non sono poi così diversi (negli stili di vita, nei modi di pensare) dai loro coetanei non artisti, benché, naturalmente, tra loro diversissimi (un giovane artista già relativamente affermato su di un piano internazionale e dalle promettenti quotazioni di mercato somiglierà assai più, ad esempio, ad un giovane yuppie rampante, mentre un giovane artista assolutamente marginale rispetto al “circuito che conta”, e dunque sostanzialmente privo di mercato, sarà piuttosto accostabile ad un giovane precario dei call-center), non rappresentano alcuna avanguardia intellettuale, sono piuttosto tesi in primis ad una lotta tutta individuale che, a seconda dei livelli, mira alla salvezza (se non alla sopravvivenza) o al successo (quello standardizzato che promette il sistema), atteggiamento quest’ultimo ancora una volta traducibile nell’intera realtà sociale occidentale, anche se ancor più in quella italiana.
Assodato tutto ciò è ora però necessario trovare non delle giustificazioni, magari consolatorie, che lascerebbero il tempo che trovano, ma delle cause che vadano ovviamente ad indagare i nessi storici, schivando la tentazione di fornire una spiegazione tanto intrisa di nostalgia e moralismo quanto incapace di cogliere la complessità delle vicende. Esse ci narrano di un mondo ove le tendenze alla reificazione ed all’istituzionalizzazione, strettamente connesse l’ una all’altra, non sono solo incoraggiate, ma considerate condicio sine qua non per accedere non dico ad un qualche beneficio e riconoscimento, ma ad un minimo di considerazione del proprio lavoro. Se le gallerie, che in Italia, ed ancor più nel Meridione, possiedono un potere fortissimo, più forte che in molti altri paesi europei, non possono naturalmente, data la loro natura sempre e comunque inscindibile dal profitto, che soddisfare fino ad un certo punto le istanze libertarie intrinseche nella pratica artistica, la mancanza di proposte autenticamente alternative che vadano non dico a sostituirsi, ma semplicemente ad affiancarsi agli spazi commerciali, fa sì che per tutte le altre componenti del sistema ritagliarsi spazi di autonomia dai parametri delle gallerie e dei musei divenga sovente un’impresa titanica.
Quanti giovani curatori saranno infatti disposti a seguire e sostenere giovani artisti in gruppo o singoli, ma, in ogni caso, in autonomia rispetto ad ogni istituzione pubblica o privata, che decidano di intraprendere, come presumibilmente si chiedeva a proposito del caso di Pomigliano, forme d’arte che privilegino il processo piuttosto che il prodotto materiale o che, in ogni caso, nelle loro sperimentazioni lascino entrare tratti poco consoni alle istanze del mercato e difficilmente integrabili nelle sue regole? E quanti giovani critici e giornalisti d’arte, anche qualora, cosa tutt’altro che frequente, fossero lasciati liberi dalla loro testata di decidere gli oggetti dei quali occuparsi, scriveranno di pratiche alle quali non viene riconosciuta alcuna dignità da parte di coloro che fanno girare l’economia, rischiando di attrarre il medesimo discredito su se stessi? E quanti giovani artisti, a questo punto, avranno il coraggio di intraprendere una strada così impervia e solitaria, mentre la loro prima preoccupazione, e non potrebbe essere altrimenti per chi, come la stragrande maggioranza dei giovani italiani e non, non ha una famiglia in grado o disposta a mantenerlo oltre una certa soglia di età, è come sbarcare il lunario?
D’altra parte, e qui introduco una motivazione in parte differente ma anche strettamente connessa alla precedente, dove dovrebbero trovare i giovani artisti gli stimoli a sperimentare quando le accademie, a parte qualche oasi rigorosamente collocata nel Nord Italia e spesso e volentieri rigorosamente a pagamento salato, sono per lo più appannaggio di insegnanti con una concezione dell’arte assolutamente impermeabile a tutto ciò che è successo negli ultimi decenni, quando non ancora esclusivamente ancorati ai generi tradizionali della pittura e della scultura, nonché penosamente carenti di materiali didattici?
Si replicherà ricordando che le gallerie commerciali non solo esistevano anche quarant’anni fa, ma che ebbero già allora un grande ruolo nella promozione di ciò che a quel tempo era comunemente detto neoavanguardia, compresa quella che si dichiarava più riluttante nei confronti dell’oggetto-merce, nonché che l’esigenza di apparecchiare la tavola era propria anche agli artisti dell’epoca. Ma accanto a tutto ciò si respirava anche un clima fin troppo noto nella sua diversità rispetto al presente, nella sua carica contestataria e nella sua proiezione utopica, che, permettendo tra l’altro l’esistenza, sia pur debole ed effimera, di strutture di riconoscimento in parte realmente svincolate dalle logiche dominanti, faceva sì che un operatore culturale che avesse inteso rifiutare di scendere a patti col circuito delle gallerie, avrebbe trovato un maggiore supporto se non materiale almeno morale. L’appeal della controcultura, d’altra parte, risultava tale da far sì che i meccanismi di valorizzazione capitalista stessi fossero paradossalmente pronti ad accogliere alcuni suoi principi, pur finendo, spesso e volentieri, per neutralizzarli. Il sistema mercantile dell’arte, infine, non appariva ancora probabilmente così forte e strutturato come adesso, non si presentava come quella fortezza inespugnabile che, malgrado la grave crisi del capitalismo in corso, tutt’ora rimane.
Ma chi sono i responsabili del successivo repentino riflusso che ha stroncato le promesse di felicità di quell’epoca? E chi sono dunque gli artefici di questo contesto così monodimensionale e cristallizzante in cui oggi siamo immersi, ove le ragioni del profitto, essendo abbondantemente preposte a quelle della vita umana, vengono inevitabilmente prima anche della libertà dell’arte? La risposta è amara, ma inequivocabile: essi provengono anche dalle fila di coloro che qualche decennio fa leggevano Marcuse e gridavano che “lo stato borghese si abbatte e non si cambia”.

Stefano Taccone

lunedì 8 novembre 2010

HANS HAACKE - Fondazione Ratti, Como

da "Segno", anno XXXV, n. 233, Novembre/Dicembre 2010, pp. 56-57.

Hans Haacke (Colonia, 1936, vive e lavora a New York), tra i maggiori protagonisti viventi della stagione delle neoavanguardie, presente con numerose personali e collettive in alcuni tra i contesti più ambiti dell’Europa e del Nordamerica, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1993, tiene solo ora, ad oltre settant’anni, la sua prima personale in Italia, culmine del suo lungo soggiorno a Como, ove ha svolto il ruolo di Visiting Professor della XVI edizione del Corso Superiore di Arti Visive della Fondazione Antonio Ratti. Da ormai quarant’anni l’artista è impegnato a decostruire la presunta neutralità ideologica delle istituzioni di cui si compone il sistema dell’arte ed a sottolineare come quest’ultimo non costituisca che un tassello della megamacchina del capitalismo, denunciando le logiche di sfruttamento sul quale essa si fonda.
In mostra nella ex Chiesa di San Francesco a Como sono presentati tre lavori: Wide White Flow (1967), testimonianza della sua indagine giovanile sui sistemi in tempo reale, il ciclo fotografico documentante il progetto Der Bevölkerung, partito nel 2000 e tutt’ora in atto, ovvero una sorta di immensa aiuola posta nel cortile del Reichstag la cui cura è demandata ai suoi membri, e Once Upon a Time (2010), l’unico inedito, nel quale trasmissioni andate in onda nei giorni precedenti sui canali mediaset e fluttuazioni dei titoli finanziari sono proiettate sui lacerti degli affreschi secenteschi dell’abside.
Stefano Taccone, autore di un saggio di recentissima pubblicazione che, avvalendosi di un’ampia documentazione, mette a fuoco, per la prima volta in Italia, la figura e l’opera di Haacke ( Hans Haacke. Il contesto politico come materiale, prefazione di Stefania Zuliani, Plectica, Salerno, 2010) ha colto l’occasione per porgergli alcune domande su questioni più e meno recenti legate al suo percorso ed al contesto storico e politico in cui si inquadra.

Stefano Taccone: In Italia hai lavorato molto meno rispetto a quanto hai fatto in altri paesi europei (la Germania, naturalmente, ma anche l’Austria, la Francia, l’Inghilterra, la Spagna…). Quali sono le tue impressioni di questo tuo soggiorno italiano? Cosa pensi del contesto italiano (sia sul piano artistico che sul piano politico)? Vuoi raccontare la genesi della nuova opera che esponi in questa occasione?
Hans Haacke: La mia conoscenza della cultura e della politica italiane attuali è limitata. È basata su ciò che colgo dalla stampa internazionale e sulle conversazioni con la gente a Como e, l’anno scorso, durante la mia visita alla Biennale di Venezia. Mi appare molto inquietante la continua erosione della separazione dei poteri (il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario) che è fondamentale per una società democratica. Gran parte della televisione italiana è al servizio degli interessi di Berlusconi. Ora sento di nuovi tentativi di imbavagliare la stampa. Giudicando dai risultati delle recenti elezioni, gli elettori italiani non sembrano preoccuparsi della privazione dei diritti civili che stanno subendo.



ST: Passiamo a qualche domanda di maggior respiro storico. Il passaggio dalle indagini sui sistemi in tempo reale alle opere che denunciano la strumentalizzazione della cultura da parte dei poteri dell’economia e della politica è correlata alla tua perdita di fiducia nell’effettiva possibilità della ricerca scientifica (la cibernetica in particolare), in un contesto capitalista, di produrre benessere per l’umanità intera, come si può dedurre da opere come All System Go? Ciò mi fa venire in mente quanto scrive Guy Debord nei Commentari alla Società dello Spettacolo: «La società moderna, che fino al 1968 passava da un successo all’altro e si era convinta di essere amata, ha dovuto rinunciare allora a questi sogni; preferisce essere temuta. Sa bene che “la sua aria innocente non tornerà mai più”»
HH: Non ricordo di aver mai riposto una fiducia illimitata nella capacità della scienza di condurre ad una società più umana. Né ho mai rifiutato la scienza di per sé. Come molti della mia generazione, alla fine degli anni sessanta, sono diventato consapevole dei conflitti sociali e politici. Fu poi soltanto un passo logico aggiungere i “sistemi sociali” a quelli “fisici” e biologici”. Non uso più la terminologia dei sistemi. Retrospettivamente, mi sembra presuntuoso e, a seconda del contesto, può assumere connotazioni sinistre. Mi attraeva il fatto che implicassero l’interazione e l’interdipendenza di molteplici elementi in un campo dinamico dato. Stando alla relazione annuale della Saatchi & Saatchi, Lenin una volta disse: «Tutto è collegato a tutto il resto». È un altro modo di descrivere tale situazione.



ST: Nel 1994, la vittoria dell’ANC nelle prime elezioni libere e la vittoria di Nelson Mandela mettono ufficialmente fine al regime formale d’apartheid. Tuttavia, come, tra gli altri, Naomi Klein mostra eloquentemente in Shock Economy (2007), il potere economico rimane saldamente nelle mani dei bianchi e dal momento che i condizionamenti internazionali non permettono al nuovo governo di avviare le riforme necessarie per stabilire una maggiore giustizia sociale, le condizioni della popolazione nera non solo non subiscono sostanziali mutamenti, ma, secondo alcuni e per certi versi, peggiorano. Perché dopo Un jour les lions de Dulcie September jailliront de l'eau en jubilation non appaiono più riferimenti al Sudafrica nel tuo lavoro? Ti pongo questa domanda anche se penso che, attaccando la corporation culture, tu abbia implicitamente continuato a parlare del Sudafrica.
HH: L’impeto con il quale le mie opere che attaccano le multinazionali che collaborarono con il Sudafrica dell’apartheid e trassero profitto da essa affonda le sue radici nel mio essere nato in Germania, il paese che nel XX secolo ha perpetuato più crimini razzisti di qualunque altro. Sono molto lieto che, in questo caso, mi è capitato di essere stato dalla parte dei vincitori. Nel 1989, la data dell’opera di cui parli, non era prevedibile che cinque anni dopo il regime dell’apartheid sarebbe diventato qualcosa del passato. So poco del Sudafrica di oggi. Quando mi recai lì per poche settimane nel 1997, mi fu chiaro che il cambiamento di questa società potrà impiegare tantissimo ed essere un lungo processo. Sappiamo quanto è difficile da sconvolgimenti sociali recenti e relativamente minori in Europa e in Nord America.


ST: Nel sollevare questioni politiche attraverso un linguaggio concettuale tu sei stato senz’altro un pioniere. Quanto e come pensi di aver influenzato le generazioni più giovani? Quali sono, secondo te, le principali affinità e le principali differenze (di linguaggio e di contesto) tra le tue modalità di sollevare questioni politiche e quelle che adoperano gli artisti più giovani?
HH: Le giovani generazioni stanno crescendo in circostanze molto differenti e le comprenderanno ed affronteranno inevitabilmente in modalità differenti. Non sono in grado di analizzare le differenze e fare raccomandazioni.



ST: Fino a che punto pensi che l’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca ha cambiato o cambierà le cose rispetto al periodo di Bush? E con Obama la ricerca artistica gode di una maggiore libertà ed autonomia?
HH: Benché le guerre di cultura non siano cessate (gli americani fondamentalisti stanno ancora tentando di manomettere i diritti costituzionali) l’amministrazione Obama è fermamente dalla parte della libertà di parola e della separazione tra chiesa e stato. La sua vittoria alle elezioni statunitensi del 2008 ha prodotto grandi e felici effetti in molti campi. Dobbiamo tuttavia riconoscere che una parte considerevole degli elettori non appoggia la sua politica. Pertanto, pur avendo i democratici la maggioranza al Congresso, non sono uniti sull’agenda di Obama. Altrettanto preoccupante è il fatto che affinché una legge arrivi al voto in Senato è necessario che il 60% dei senatori pongano fine al dibattito, cosa che richiede che almeno alcuni senatori repubblicani rientrino nei ranghi. Non importa che sarebbe un bene per il paese e per i loro elettori, i repubblicani nel Congresso sono su di una linea di ostruzionismo, nella speranza di conquistare voti da elettori disaffezionati che sono incapaci di decifrare e ricordare come siamo arrivati nel punto in cui siamo e ciò che potrebbe prendere per uscire dai guai. Troppo spesso i sostenitori originari di Obama non riconoscono questi vincoli. I giovani ed altre persone che hanno votato nel 2008 per la prima volta in quantità senza precedenti sono impazienti e disillusi. C’è il rischio che non andranno alle urne a novembre. È ciò su cui repubblicani stanno scommettendo.

lunedì 18 ottobre 2010

FONDATA SUL LAVORO – L’arte come svelamento dei cortocircuiti costituzionali

Stefano Taccone: Cara Francesca, due settimane fa hai inaugurato allo Spaziocorale di Milano la tua collettiva Fondata sul lavoro. Sabato scorso si è tenuta a Roma una grande manifestazione indetta dalla FIOM che non si è riferita soltanto alle vertenze più recenti, come quelle degli stabilimenti Fiat di Pomigliano o di Termini Imerese, ma ha inteso pronunciare un secco no nei confronti delle dottrine forse impropriamente dette neoliberiste che hanno dominato, in Italia, così come a livello globale, in quest’ultimo trentennio, erodendo gran parte delle conquiste che il movimento dei lavoratori aveva riportato durante la fase storica precedente. Quelle che hanno prodotto la crisi e quelle che, paradossalmente, malgrado certe apparenze, vengono sostanzialmente ancora una volta riproposte come antidoti per uscire dalla crisi stessa. Inaugurare proprio in questo periodo una mostra che analizzi i danni prodotti da tali politiche antisociali con particolare riferimento al contesto del nostro paese mi sembra dunque una scelta particolarmente propizia.



Francesca Guerisoli: Caro Stefano, l'idea della mostra è nata nell'ultimo anno e ho iniziato a lavorarci sei mesi fa, quindi nasce molto prima rispetto agli ultimi avvenimenti politico-sociali. Il concept che ne sta alla base non deriva da singoli eventi, ma vuole esprimere la situazione generale della condizione lavorativa nell'Italia attuale, di cui gli artisti hanno sentito l'esigenza di parlare attraverso specifici lavori. Da qui il titolo Fondata sul Lavoro, che cita il primo comma dell'articolo 1 della Costituzione: ogni lavoro in mostra fornisce un punto di vista sul tema affrontato, e la mostra nella sua complessità delinea una particolare visione sulla condizione lavorativa nel nostro paese. Il titolo evoca quindi uno dei principi fondamentali della nostra Repubblica, che risulta essere disatteso e, al tempo stesso, dice esattamente cosa il visitatore troverà in mostra, ovvero opere sul tema del lavoro in Italia.



In secondo luogo, credo sia importante dare subito qualche indicazione sullo spazio espositivo. Spaziocorale è situato su una ipotetica linea di confine tra spazio dell'arte e spazio destinato a una partecipazione più ampia, sorgendo nel complesso di un'associazione Arci e quindi rivolgendosi a un pubblico ampio ed eterogeneo. Una coincidenza (assolutamente esterna ai nostri programmi) è stata la presenza nei pressi di Spaziocorale, la sera dell'inaugurazione della mostra, dei sindacalisti della FIOM che distribuivano materiale informativo sulla manifestazione di Roma. La loro poteva sembrare una partecipazione da noi organizzata, ma non è così. E ci sono anche altre coincidenze, oltre a quella della manifestazione FIOM. Come l'uscita, proprio questo mese, del secondo numero di Alfabeta2, con un dossier a più firme sulla cosiddetta knowledge class e le situazioni paradossali del lavoro precario (scrivono a tal proposito Aldo Nove e Andrea Cortellessa: “tanto più quelle condizioni divenivano comuni tanto più mi faceva incazzare che che nessuno ne parlasse”). O la notizia uscita proprio pochi giorni fa (ma che già da anni i più disillusi immaginano) che i precari, i lavoratori parasubordinati creati dalle politiche neoliberiste non avranno la pensione.



Oppy De Bernardo, Cip & Ciop, working for peanuts, 2009.

Tutte coincidenze? Sì e no, nel senso che credo siamo arrivati a un punto in cui la riflessione, la denuncia e la ribellione verso l'attuale sistema del lavoro, in Italia, stiano divenendo ogni giorno più forti, più esplicite, più condivise. È evidente a tutti, ormai, la divisione sociale prodotta dall'organizzazione del mercato del lavoro, in Italia, tra assunti a tempo indeterminato e tutti gli altri; un sistema generato dall'introduzione della flessibilità “a senso unico”, non accompagnata da adeguati ammortizzatori sociali né da reali controlli sulla legalità dei rapporti di lavoro.



Alessandro Nassiri Tabibzadeh, Giubileo degli stagisti, 2005 (I).

Per Fondata sul Lavoro ho voluto mettere insieme opere su varie tematiche del lavoro nella sua complessità, che non parlassero solo delle categorie classiche, ma anche di quelle situazioni che soprattutto la generazione dei nati negli anni ottanta ha vissuto e sta vivendo. Nel 2005 Alessandro Nassiri Tabibzadeh realizzò Giubileo degli stagisti, un progetto costituito da un sito internet in cui il pubblico è invitato a partecipare inserendo il numero di ore di stage effettuato (o tirocinio, o lavoro sottopagato) e per quanti giorni è stato condotto. In base a un programma specifico, il sito indica quante calorie il lavoratore ha consumato senza essere retribuito, calorie di cui egli si riappropria in mostra sotto forma di tavolette di cioccolato. Un lavoro, quindi, tra denuncia e ironia che, sebbene sia stato realizzato cinque anni fa, rimane strettamente attuale. Proprio negli stessi anni in cui Nassiri concepì il suo progetto, la giornalista Eleonora Voltolina condusse un'analisi specifica sulla stessa situazione, quella dello stage e sul suo abuso da parte delle aziende (una tipicità tutta italiana), che oggi costituisce il libro La Repubblica degli stagisti. Oltre al tema dello stage, legato sopratutto ai giovani, si trova in mostra l'installazione di Giuliana Racco, che parte dalla propria esperienza, fatta di lavori regolari e in nero, spesso sottopagati, che la generazione che rappresento si vede costretta ad accettare. Perché... “c'è la fila”.

ST: So bene che la mostra è stata programmata prima che fosse ufficializzata la manifestazione, che peraltro, sia chiaro, è dalla FIOM nel senso che è stata indetta da tale organizzazione, ma è stata animata da buona parte delle forze (partiti, sindacati, movimenti, associazioni etc.) che attualmente si distinguono nelle battaglie contro le strategie neoliberiste. Rimane tuttavia per me una circostanza felice che i due eventi si siano svolti a pochi giorni l’uno dall’altro. La mia allusione, inoltre, non era semplicemente al 16 ottobre scorso, ma alle trentennali politiche cui ha fatto riferimento quell’appuntamento. Se appare davvero arduo smentire la tesi secondo la quale tutte le situazioni descritte dagli artisti in mostra (precarietà, morti bianche, lavoro sottopagato, stage non pagati e persino, malgrado l’apparenza possa indurre a pensare il contrario, il lavoro sommerso) non rappesentino gli effetti delle ricette di cui sopra, il dilemma risiede piuttosto nella possibilità o meno di imboccare altre vie, nel credere che il neoliberismo, malgrado tutto, sia il “male minore” o, vice versa, che esistano altri paradigmi.



Salvatore Manzi, Informazione, 2010.

Credo da lungo tempo che al discorso estetico sulla dimensione politica si addica particolarmente la strategia del cortocircuito, che io concepisco come una sorta di traduzione nell’opera del principio della dialettica negativa adorniana. Dico ciò anche se mi rendo conto che, data la nota avversione di Adorno nei confronti dell’arte engagé, questa mia ultima riflessione può apparire un paradosso. Ciò che mi sembra unifichi le sei opere in mostra, al di là della tematica, è proprio il pullulare, in ognuna di esse di tali cortocircuiti: il valore di status simbolo della pelliccia, legata alla sua derivazione animale, alla radice della sua rarità, e lo svilimento dello stesso attraverso la sostituzione della “materia prima animale” con una “materia prima peluche” di qualità peraltro bassissima in Oppy De Bernardo; il piglio compassato ed incline ad omissioni dell’informazione televisiva e la virulenza della verità scomoda quanto sottaciuta di colui per il quale la lotta di classe non è un concetto da seminario sul biennio rosso, ma una condizione che volente o nolente vive da decenni, parafrasando Chomsky, “sulla sua pelle” in Salvatore Manzi; lo scarto tra la pesantezza di una certa condizione e la leggerezza della paradossale soluzione avanzata per farvi fronte in Alessandro Nassiri Tabibzadeh; il genere della natura morta inteso tradizionalmente come raffigurazione di gruppi di oggetti e non di figure e le odierne nature morte che oltre a rimandare al significato tipico del linguaggio storico-artistico divengono anche i residui di esistenze umane stroncate in NoiSeGrUp; la realtà puramente formale, legale, ma palese della pratica lavorativa quotidiana e quella assolutamente sostanziale, illegale, ma latente in Giuliana Racco; la gradevolezza decorativa dei festoni, che rimanda al ruolo di collezionista ed i giornali usati come materia prima per i festoni stessi, dai quali si apprende del terribile incidente che nel dicembre del 2007 costò la vita a sette operai in Carlo Steiner.



Carlo Steiner, Festhyssen, 2008 (I).

FG: Ogni progetto tra quelli in mostra nasce nel contesto dell'Italia attuale, quindi rappresenta gli effetti di certe politiche sociali, credo sia evidente. Ma io – come gli artisti stessi – posso portare solo il mio punto di vista, la mia esperienza. Che comunque non significa che non contenga verità. È la visione personale di una situazione, la narrazione di un aspetto della realtà che si manifesta con il discorso artistico.I lavori esposti parlano di temi scottanti, tracciando un quadro desolante del mondo del lavoro. Politico-sociale è il tema. Si tratta di un'arte critica, un'arte come agente dissensuale che – come dice Jacques Rancière – promettendo un'umanità non alienata, mette in discussione lo stato delle cose presente; un'arte che deve negoziare tra la tensione che la spinge verso la “vita” e quella che separa la sensorialità estetica dalle altre forme d'esperienza sensibile, con lo scopo di trasformare il pubblico in attore consapevole.



Carlo Steiner, Festhyssen, 2008 (II).

Venendo alla tua seconda riflessione, trovo che sia particolarmente calzante l'esempio dei festoni di Carlo Steiner. Festhyssen è stato costruito secondo la logica dello choc dei contrari: l'artista ha realizzato festoni assemblando pagine di quotidiani recanti articoli sull'incidente della Thyssenkrupp. Il dualismo prodotto è la chiave di lettura dell'opera. Si tratta di un lavoro che, con Rossella Moratto, ho presentato lo scorso anno nella mostra Spazi di Confine / Spazi di Conflitto, dove i festoni di Steiner rappresentano precisamente sia l'idea di confine sia di conflitto: essi innescano un cortocircuito nel pubblico, che si trova improvvisamente catapultato dal concetto di festa (veicolato dall'oggetto “festone”) a quello di morte (veicolato dal materiale con cui questo è realizzato). Decorazione da un lato e riflessione su un tema terribile dall'altro: il pubblico, acquisita consapevolezza dell'ambivalenza su cui è costruita l'opera, non può che rimanere scioccato.



Alessandro Nassiri Tabibzadeh, Giubileo degli stagisti, 2005 (II).

Alessandro Nassiri Tabibzadeh, come ho citato prima utilizza invece i dispositivi dell'ironia e del gioco, già evidenti nel titolo del suo progetto (Giubileo degli stagisti), dove il termine Giubileo indica una redistribuzione di energie e un azzeramento di debiti delle aziende verso i lavoratori, come in origine indicava la redistribuzione delle terre e l'azzeramento dei debiti della comunità. L'artista istituisce uno spazio nel quale accoglie il visitatore e lo pone di fronte al tema dello stage e del suo abuso, tra l'ironia e la presa di coscienza della situazione. Il calcolo delle energie spese gratuitamente e la conseguente distribuzione delle tavolette di cioccolato come “ricompensa dovuta” delle ore di lavoro regalate innesca anche qui un cortocircuito.



Giuliana Racco, I miei anni invisibili, 2008.

L'installazione I miei anni invisibili di Giuliana Racco è giocata tutta sul contrasto a livello formale, esprimendo in questo modo il divario tra come è trattato ufficialmente il tema del lavoro e come invece, nei fatti, esso si presenta oggi. La terminologia del libretto di lavoro, proiettato nel video che costituisce parte dell'installazione, si scontra con il linguaggio comune delle didascalie con cui lo commenta; l'inchiostro nero utilizzato per elencare i lavori in regola nel curriculum cartaceo posto accanto alla proiezione entra in netto contrasto con l'inchiostro lumix (trasparente) per le esperienze abusive.



NoiSeGrUp, Natura morta, 2010.

Aggiungo inoltre che due tra i lavori in mostra si riferiscono espressamente anche all'arte stessa, al sistema e ai generi. NoiSeGrUp attualizza e trasla l'iconografia della natura morta, sostituendone i classici elementi simbolici con strumenti da lavoro edile per evocare le morti sul lavoro; Carlo Steiner conduce una critica al sistema dell'arte (un po' alla Hans Haacke), dove – denuncia l'artista – chi finanzia il sistema è lo stesso colpevole di morti evitabili, dovute all'incuria. Una doppia lettura, complementare, che riflette sul tema sociale del lavoro e al tempo stesso si riferisce al sistema dell'arte.

domenica 12 settembre 2010

HANS HAACKE – Il contesto politico come materiale

da S. Taccone, Hans Haacke. Il contesto politico come materiale, prefazione di S. Zuliani, Plectica, Salerno, 2010, pp. 21-24.

Questo saggio si pone l’obiettivo di mettere a fuoco, per la prima volta con tale ampiezza di respiro in lingua italiana, il percorso di Haacke connotato da una valenza più strettamente politica. Esso, aprendosi tra il 1970-1971 con i fatti del MoMA e del Guggenheim, giunge fino ai giorni nostri ed abbraccia in pratica l’intero periodo maturo, con la sola esclusione delle due mostre, Viewing Matters, del 1996, e Mixed Messages, del 2001, basate sull’uso dell’opera d’arte come readymade.



Tale opzione non implica alcuna valutazione riduttiva delle parti tralasciate, ma è motivata dall’esigenza di far emergere i tratti maggiormente caratterizzanti del suo intero percorso, quelli per i quali precipuamente merita di essere ricordato e studiato. Né, d’altra parte, parlare di “valenza più strettamente politica” significa relegare nella dimensione dell’apolitico quanto non dettagliatamente preso in esame, ché non solo mi sono già soffermato sopra sul significato politico dei sistemi fisici e biologici in tempo reale, ma la stessa categoria di apoliticità non costituisce che un’astrazione. Con tale espressione intendo invece riferirmi innanzitutto a quel lavoro, onde la scelta del titolo, che, secondo quanto dichiarato più volte dallo stesso Haacke, adopera il “contesto politico come materiale”, ma anche alle istanze di mutamento dello status quo che, benché sempre sensibilmente temperate da una buona dose di sano realismo, sarebbe iniquo tralasciare.



Ad Haacke, con una precocità ed un’organicità eguagliate in ambito euro-statunitense solo da Martha Rosler e, benché sia rinvenibile un calzante presupposto nel fotomontaggio politico del connazionale John Heartfield, va riconosciuto il merito di aver saputo elaborare, nel corso degli ultimi decenni del secolo, un nuovo linguaggio per un’arte che intenda affrontare questioni politiche senza esimersi dall’esprimere una posizione netta, ma che, in virtù di una felice adattamento degli strumenti elaborati dell’arte concettuale, sottratta alla vocazione tautologica delle origini, sia coniugata al presente. Egli non ha prodotto, che io sappia, allievi diretti, o almeno non ne ha prodotti di significativi, eppure i molteplici fenomeni di arte variamente impegnata che si succedono dalla fine degli anni settanta in poi, da quella in cui confluiscono i motivi del femminismo (Jenny Holzer e Barbara Kruger) a quella connessa alla questione delle minoranze etniche (David Hammons), dall’arte attivista tipica dell’area anglosassone negli anni Ottanta (ACT-UP, Group Material, Krzysztof Wodiczko…) all’arte attraverso la quale si definisce l’identità omosessuale (Felix Gonzalez-Torres), fino all’ultima recente ondata dei primi anni del nuovo millennio, rappresentata in primis da artisti latinoamericani (Annibal Lopez, Jota Castro, Regina Josè Galindo…), possono a buon diritto annoverare Haacke tra i loro padri nobili.



Shapolsky et al. Manattan Real Estate Holding, a Real-Time Social System, as of May 1, 1971, 1971.

Restano infine da spendere due parole sulla (s)fortuna critica di Hans Haacke in ambito italiano, ove si registra l’indubbio permanere di un profondo divario tra la rilevanza di tale figura ed il suo grado di conoscenza, decisamente scarso persino tra gli addetti ai lavori. Le ragioni di tale squilibrio non paiono facilmente individuabili con precisione. Di sicuro tale situazione è in parte ascrivibile all’assenza di sue opere significative nel contesto italiano, eccettuando naturalmente quella indimenticabile della Biennale di Venezia del 1993, che molti italiani ricordano, ma non sempre vi associano il nome di Haacke. Si aggiunga, da una parte, il rapporto non proprio idilliaco che egli, un po’ per scelta diretta di carattere politico, un po’ per conseguenza indiretta di carattere poetico, intrattiene tanto col mercato, quanto con i musei, benché anche il suo successo passi oggi non di meno per tali canali istituzionali, nonché la fama di essere un artista politicamente “scomodo”, che non senza motivo lo accompagna ormai da quasi quarant’anni, e, dall’altra, il carattere sempre più provinciale, sempre più chiuso in se stesso, sempre più rintanato nel proprio cortile di casa che l’Italia sta assumendo in questi ultimi tempi (non solo in ambito strettamente artistico) e tale squilibrio riceverà ulteriore spiegazione. Di contro nei paesi in cui più di frequente è impegnato, ove non si dimostra minimamente più docile che in ogni altra occasione, la situazione è completamente diversa. Le sue operazioni suscitano infatti una mole di discussioni così intensa da far sì che esse oltrepassino i canali canonicamente riservati al dibattito artistico e divengano appannaggio di un pubblico più ampio.



GERMANIA, 1993.

Questo saggio, vedendo la luce, per una fortunata quanto casuale coincidenza, in concomitanza con la sedicesima edizione del Corso Superiore di Arti Visive della Fondazione Antonio Ratti di Como, il cui visiting professor del 2010 è proprio Haacke, si propone, per quanto possibile, di colmare tale lacuna.

Stefano Taccone

venerdì 20 agosto 2010

NAVIGANDO CON KATIA ALICANTE – Per i mari tra l’errare e l’orrore

Testo distribuito in occasione della personale Sailing di Katia Alicante, a cura di Stefano Taccone, inauguratasi il 19 agosto 2010 presso il Gazebo della Terrazza Mascagni a Livorno.

La navigazione rappresenta forse, fin dall'antichità, il viaggio per eccellenza. Ad essa l'uomo guarda da sempre in maniera ambivalente: come pratica foriera di perniciose insidie e calamità, ma anche di avventure e di scoperte sensazionali. L'intera Odissea e metà dell'Eneide, ovvero due dei tre maggiori poemi della classicità greco-romana, fondano sulla navigazione il centro dell'azione. L'era delle grandi scoperte geografiche, inaugurata dallo sbarco di Cristoforo Colombo sulle coste americane, avviene tutta all'insegna di tale prassi. Non a caso nel corso del '900, tanto in rapporto allo spazio extraterrestre quanto a quello virtuale della telematica, si sente così il bisogno di ricorrere al concetto di navigazione.



Sailing, il titolo della videoistallazione di Katia Alicante, sembra suggerire due differenti livelli di lettura. La navigazione cui allude è innanzi tutto di carattere mentale, quella che solitamente compiamo quando ci stendiamo e chiudiamo gli occhi, pur senza sprofondare completamente nel sonno, ed abbandoniamo il nostro cervello al susseguirsi delle associazioni mentali, una dinamica che scopriamo a posteriori sorprendentemente affine alla navigazione sul web, ove si passa di sito in sito, di link in link, fino a dissolvere il ricordo del punto dal quale si sono prese le mosse. Vi è poi la navigazione in senso squisitamente letterale, benché assolutamente votata a scardinare la superficie del racconto per divenire ripristino della verità ed atto di accusa.



É così che dal modellino in legno fabbricato dal nonno dell'artista, pescatore emigrato da Napoli a Livorno, emanante il candore e la suggestione tipici dell'infanzia, ma palesando anche il suo carattere di traslazione in chiave giocosa del mondo adulto, ove di giocoso vi è però ben poco, si passa, attraverso un susseguirsi di metamorfosi, ad un tipico barcone nel quale sono stipati gli immigrati (cosiddetti) clandestini; ad una nave da crociera affollata dai suoi passeggeri; al Moby Prince ed al suo rogo, avvenuto al largo del porto di Livorno nel 1991 e gravato dal forte sospetto che alla base ci fosse un traffico di armi illegale; ad una nave che affonda presso Cetraro in Calabria, sotto il cui fondale sono stati trovati rifiuti tossici e, infine, ad una nave sudcoreana ripescata dopo essere stata colata a picco al largo dell'isola di Baengnyeong, probabile vittima di una strategia della tensione di matrice atlantista.



La tradizionale visione del mare come luogo dell'ignoto, dominio del Fato ineluttabile, dei capricci degli dei (di cui sono vittima Ulisse ed Enea) o, più laicamente, di una natura ostile, in quanto assolutamente indifferente alle sorti umane, come nell' hemingwayano Il vecchio e il mare, appare così radicalmente ribaltata: le catastrofi che si offrono alla contemplazione, pur avendo il mare come teatro, possiedono origini assolutamente umane, derivano da scelte dettate dalle ragioni del profitto, più che dalle ragioni del bene comune. Si tratta, a ben vedere, del medesimo motivo che si ritrova soprattutto in un altro lavoro recente di Katia, giOCAndo, ove però è declinato in chiave relazionale, alla cui base vi è appunto il rifiuto di accettare la logica per cui il benessere di un individuo possa legittimamente fondarsi sul malessere del proprio simile, ma, sullo sfondo, esso risulta presente un po' in tutti i lavori più recenti.



La peculiare contestualizzazione un padiglione posto sul lungomare, infine, se da una parte fa sì che gli spettatori, una volta fruito della videoistallazione, non siano più in grado di osservare le navi ivi visibili con i medesimi occhi, dall’altra la immette all'interno della movida cittadina, circostanza da cui deriva la scelta di corredarla con luci psichedeliche ed una rivisitazione house della Cavalleria Rusticana del musicista livornese Pietro Mascagni compiuta da Massimo Ruberti. Il trattamento che quest’ultimo, anch’egli musicista livornese, ma contemporaneo, riserva al suo concittadino trova peraltro, operando, con il suo impianto disarmonico, una sorta di perpetuo disturbo nei confronti della classicità della traccia sonora originaria, una singolare consonanza con la vicenda narrata per immagini, ove all’originaria purezza che circoscrive il modellino in legno va repentinamente a sovrapporsi la crudezza dei disastri della storia umana.

Stefano Taccone

giovedì 29 luglio 2010

ARTE E CAMORRA – Prima e dopo Gomorra

Questi ultimi cinque-sei anni sono indubbiamente caratterizzati da una crescente attenzione nei confronti del fenomeno camorristico all’interno in primis della stessa Campania, ma anche, e soprattutto, a livello italiano ed estero. Il simbolo indiscutibile di questa stagione, quasi un pleonasmo scriverlo, è il giovane scrittore Roberto Saviano con il suo bestseller Gomorra (2006), che, a prescindere da come lo si giudichi sul piano letterario e/o su quello dell’impegno civile, costituisce, non solo e non tanto in sé, bensì insieme alle vicende del suo autore ed a tutto il contorno di discussioni che suscita fin dai primi mesi della sua pubblicazione (e ancora continua più che mai a suscitare) un caso di estremo interesse per chiunque voglia riflettere sull’odierna società italiana. Appena un gradino al di sotto, quanto a grado di rappresentatività di tale temperie e rilevanza socio-politica, si colloca il film omonimo di Matteo Garrone, premiato, tra l’altro, a Cannes, che dal libro di Saviano è appunto tratto.





Roberto Saviano, autore del bestseller Gomorra.

Difficile, come spesso accade, stabilire quanto Saviano e Gomorra siano il prodotto di un certo clima culturale e quanto, invece, abbiano contribuito ad istituirlo. Quello che però appare curioso osservare è che, nel momento in cui la questione criminale campana raggiunge una auge mediatica senza precedenti, scardinando in tal modo (o almeno dando l’idea di scardinare) quell’alone di omertà che da sempre permea di sé la malavita organizzata, non solo, in maniera non infondata, si pone il dubbio sull’efficacia di tale situazione, ma persino, in maniera altrettanto seriamente argomentata, si paventa che tutto ciò possa risultare nei fatti nocivo alla causa del bene comune. Senza necessariamente voler condividere tutte le tesi del sociologo della cultura Alessandro Dal Lago, al cui recentissimo Eroi di carta, energica decostruzione dei “meccanismi che hanno fatto di Gomorra uno straordinario successo editoriale e del suo autore un esempio di eroismo civico”, mi sto riferendo (come qualcuno avrà già intuito), credo che la lettura di questo controverso pamphlet possa aiutarci a non perdere di vista un concetto fondamentale: «Le mafie hanno un enorme potere (…) Ma non sono il potere» e pertanto esse (e tanto meno i soli casalesi) non costituiscono “il male assoluto”, come ahimé troppo spesso tra le righe o anche in maniera più diretta Saviano di fatto argomenta, ma vanno inserite in un contesto in cui «ci sono gli operai che bruciano negli altiforni, e intanto il governo annacqua le sanzioni alle imprese. Ci sono i migranti che annegano a centinaia davanti a Lampedusa e quelli schiantati nei campi, mentre da tutte le parti si grida agli zingari ladri e ai rumeni stupratori. Ci sono milioni di persone che perdono il lavoro e tirano la cinghia, mentre i ministri si sciacquano la bocca con l’economia sociale di mercato». (A. Dal Lago, Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, manifestolibri, Roma, pp. 99-100; p. 11). C’è un sistema, quello capitalista, aggiungo insomma io portando il discorso su di un piano di maggiore astrazione (e forse anche su di un piano di maggiore radicalismo), ove, parafrasando Pasolini, la giustizia non coincide in nessun modo con la legalità.





Alessandro Dal Lago, autore del pamphlet Eroi di carta.

Venendo dunque a riflettere in maniera tanto urgente quanto pionieristica su quale sia lo specifico contributo delle arti visive alla “stagione di Gomorra”, collocando però l’aprirsi di tale periodo circa un paio di anni prima dell’uscita effettiva del libro, facendolo convenzionalmente coincidere piuttosto con l’inizio della Faida di Scampia (ottobre 2004), terrò dunque pienamente conto del discrimine esistente tra uno sguardo sostanzialmente limitato alla dimensione più convenzionale ed epidermica del fenomeno ed uno sguardo che tenta di inquadrarlo in un discorso più ampio, cercando, esattamente come la migliore arte politicamente impegnata più e meno recente, di portare alla luce le trame sotterranee. Si tratterà di una breve carrellata che comunque non avrà pretese di completezza, ma vorrà essere un primo passo in vista della storicizzazione di una tendenza dell’arte campana recente per la quale, essendo essa ancora in pieno svolgimento, si possono necessariamente fino ad un certo punto spendere parole definitive.





Disegni realizzati rispettivamente da Ernesto Tatafiore e da Nino Longobardi per l’ "Osservatorio sulla camorra e sull’illegalità".

Fin dall’inizio del 2005 nasce, su iniziativa del “Corriere del Mezzogiorno”, l’ "Osservatorio sulla camorra e sull’illegalità", sorta di laboratorio in cui «si osserva il fenomeno camorra dai più diversi punti di vista, si costruiscono modelli di interpretazione e di conoscenza, si sperimentano percorsi di sensibilizzazione e di coinvolgimento di pezzi significativi della società, a cominciare dai giovani e dalle scuole, si promuovono iniziative di mobilitazione dell’opinione pubblica», che negli anni coinvolge praticamente tutti gli artisti campani, di varie generazioni e dalle poetiche più disparate, al fine di accompagnare i contributi scritti con disegni a colori. Il limite dell’operazione (non parlo ovviamente dell’Osservatorio in generale, sul quale non mi compete alcun giudizio, ma della modalità di coinvolgimento degli artisti) non risiede ovviamente nella richiesta di accordare la propria creatività agli spazi ed ai mezzi predeterminati dal foglio del quotidiano, ché anzi per alcuni può risultare persino uno stimolo ulteriore, ma dall’idea di fondo che l’affrontare certi temi si possa conciliare con la poetica di ogni artista e non richieda particolari inclinazioni e predisposizioni che magari alcuni possono avere ed altri meno.



Camorra, mostra collettiva a cura di Antonio Manfredi, CAM, Casoria, 2008.

Un rischio in cui pure talvolta incorre, benché in maniera assai minore, la collettiva Camorra, a cura di Antonio Manfredi, inauguratasi presso il sempre stimolante museo CAM di Casoria (lo stesso titolo intende rimandare con un gioco di parole al nome del museo) nel giugno del 2008, allorché l’emergenza rifiuti ha toccato il suo acme ed il neoeletto presidente del Consiglio, avendo promesso l’imminente “miracolo” della sparizione dei rifiuti, ha già militarizzato l’area della discarica di Chiaiano. Le opere appaiono per molti versi eterogenee (diversi media, diversa età degli artisti, diverso grado di pregnanza ed interesse, diversi gradi di allusione esplicita), ma il punto debole risiede piuttosto nel discorso con il quale si tenta di trovare un filo conduttore. Passaggi come «il controllo sulla vita, sui movimenti e sulla libertà dell’individuo da parte di una creatura dalle cui fauci sembra impossibile sfuggire» o «E chi meglio di un museo di frontiera, come il CAM, poteva concertare una mostra sulle accezioni sociali della malavitosa piovra che attanaglia gli uomini?» si iscrivono pienamente in quel filone retorico che intende tacitamente la dimensione camorristica più come un qualcosa di estraneo al genere umano che come un qualcosa di assolutamente radicato in esso e nella società che si è costruito attorno (e ben al di là della sua accezione letterale). Buona parte degli artisti, di contro, riescono sostanzialmente a schivare tale ottica.



Walter Picardi, Momy, 2010.

Ma gli esempi più interessanti si evincono probabilmente dall’analisi di alcuni singoli artisti che dedicano in questi ultimi anni (e stanno dedicando tutt’ora) un’attenzione più sistematica al tema e/o, più in generale, alla realtà del territorio. Al CAM è presente, tra gli altri, Walter Picardi che solo qualche mese fa (febbraio 2010) inaugura la personale Full Immersion, a cura di Micol Di Veroli, presso la Dora Diamanti di Roma, che in verità, dato anche il contesto, non è possibile leggere in un’accezione esclusivamente campana: essendo Camorra, Mafia, e ‘Ndrangheta intese come «parole diverse per una lingua comune» il riferimento va parimenti a queste ultime due organizzazioni. I parallelepipedi in cemento, benché derivazioni di un immaginario che affonda le radici nel contesto di Ponticelli, quartiere situato nella periferia orientale di Napoli dal quale l’artista proviene, assurgono così ad emblemi di tale koiné del crimine organizzato, inglobando ciascuno di essi un membro di una famiglia tipo: padre, madre, figlio e figlia. Una notevole forza espressiva deriva così dal cortocircuito tra elementi reali sfuggiti alla “cementificazione”, in grado di suggerire precisi quanto assolutamente comuni prototipi umani, e severo impianto stereometrico dei blocchi cementizi, che riduce i personaggi ad una condizione tanto grottesca quanto estremamente drammatica, a figure neomitologiche (mezzi uomini e mezzi parallelepipedi) di una epopea che ha però ben poco di eroico. Benché Walter dichiari di non intendere tale sventurato gruppo come un discorso esclusivamente riconducibile nell’alveo dell’illegale, ma, considerando che si tratta di una famiglia il cui padre ha “cantato”, ovvero, come suggerisce il microfono posto davanti al suo parallelepipedo, “ha parlato troppo” ed avendo in mente l’attuale minaccia della legge-bavaglio, lo riferisca a tutte le situazioni in cui si vuole annichilire la libertà di pensiero, di parola, di azione, in una sola parola l’autodeterminazione, esso non sembra in grado di supportare autonomamente tale ulteriore lettura, che rimane per ora in ombra rispetto a quella specificamente criminale.



Roxy in the box, Ce l’hanno tutti in bocca, 2009.

Allo scadere del 2006 Roxy in the box inaugura presso la galleria di Franco Riccardo la sua prima personale in assoluto a Napoli, Pulp…azioni, ed è probabilmente tale circostanza ad indurla a lanciare una vigorosa quanto spietata denuncia dei molteplici travagli che affliggono la città, ed in particolare al suo volto cruento, che i media, dopo oltre un decennio in cui è prevalsa la retorica del “rinascimento napoletano”, sembrano aver riscoperto. Sono i giorni in cui la stella di Bassolino si va offuscando a vista d’occhio, quando solo un anno prima risplendeva ancora più fulgida che mai, ma non si è ancora eclissata. Di lì a poco il presidente e tutta la sua ultradecennale narrazione finiranno sommersi sotto il peso delle tonnellate dei rifiuti dell’emergenza. Benché l’aura sinistra della Camorra paia aleggiare tra le righe dell’intero percorso, essa non viene mai nominata esplicitamente, intendendo forse Roxy delineare una visione generale ben più sottile della fin troppo vieta quanto inadeguata distinzione tra “bene” e “male”, “buoni” e “cattivi”, ché tali categorie non esistono mai allo stato puro. Il morbo di cui è vittima il popolo napoletano (e magari molte altre realtà italiane e mondiali), sembra dirci, ha senz’altro in buona parte origini di carattere socio-politico, ma esso non è polarizzato in una categoria, in un gruppo, in un clan…, bensì, un po’ come il potere per Michel Foucault, possiede uno statuto fluido e polimorfico. Pienamente consequenziale a tali assunti risulta così il dipinto presentato al Pan nell’ambito del progetto Emergency Room (marzo 2009), Ce l’hanno tutti in bocca, ove sono additati i limiti di ciò che invece solo qualche giorno dopo, per una curiosa coincidenza, Saviano, adoperando parole che, forse inconsapevolmente, sanno non poco di warholismo («Voglio essere un’operazione mediatica, voglio che se ne parli in prima serata») auspica parlando alla trasmissione di Rai Tre Che tempo che fa: che la lotta alla Camorra diventi una “moda”.



Rosaria Iazzetta, Per amore del mio popolo non tacerò (P.N.P.-Progresso Non Pubblicità, Ercolano), 2009.

Chi più di ogni altro artista ha legato ultimamente la sua ricerca alla questione in esame è però probabilmente Rosaria Iazzetta, malgrado ella non solo vi sia approdata seguendo il filo di un progetto dotato di un’ottica più generale, P.N.P.-Progresso Non Pubblicità, ma lo inquadri entro una precisa cornice etico-filosofica che le permette di trascendere certe contingenze. Se il “progresso”, in quanto miglioramento generalizzato delle intere facoltà umane, e lo “sviluppo”, in quanto crescita esclusivamente economica, non solo non coincidono, ma sono persino in contraddizione l’uno con l’altro, l’invenzione tardocapitalista della “pubblicità progresso”, allorché si consideri la pubblicità come detonatore insostituibile del consumo (e dunque, di conseguenza, dello sviluppo), non può che apparire un fastidioso ossimoro. Rosaria si situa appunto nel tratto di intersezione tra questi due termini antitetici, recuperando in pieno la tensione verso il progresso, ma declinandolo secondo una logica completamente ribaltata rispetto a quella della pubblicità. Alla dimensione pubblicitaria contrappone così quella puramente pubblica (manifesti relativi al progetto sono stati per ora installati su edifici pubblici di Ercolano e di Pompei, ma arriveranno presto in altre zone di Napoli e provincia), rendendo esplicito il carattere degenerato proprio della prima rispetto alla seconda. Se il pubblicitario si configura come violenta invasione di messaggi dettati dagli interessi unicamente privati del mittente, ma spacciati come realizzazione dei sogni più profondi del destinatario, il pubblico di Rosaria possiede forse una carica ugualmente violenta, ma finalizzata a veicolare pensieri incitanti costantemente ad un’etica della collettività, ovvero al contrario dell’individualismo accecante in cui l’induzione all’acquisto rinviene la sua inconfessata meta suprema. È innanzi tutto tale détournement di fondo a far sì che, anche laddove il riferimento contenutistico concerne la specifica realtà criminale, il discorso appaia leggibile in antitesi ai soprusi di ogni provenienza, e soprattutto alle insanie che vi sono a monte. La denuncia del potere malavitoso non appare inoltre mai disgiunta dai suoi calorosi inni ad un amore ultraviscerale, iperbolico, senza se e senza ma ed al coraggio intrepido ed alla felicità incontenibile che ne deriva, convinta che solo recuperando le sue più nobili facoltà l’uomo potrà fronteggiare il male che lo opprime.



Salvatore Manzi, Noitulover06, 2006.

Più “antica” di tutti i lavori fin ora analizzati, nonché, seppure di qualche mese, dello stesso Gomorra, in quanto esposto a febbraio del 2006, mentre il bestseller vede la luce solo in aprile, è però la videoistallazione Noitulover06, di cui si compone la personale omonima presso Villa Letizia a Barra, di Salvatore Manzi (l’ultima personale in cui adopera lo pseudonimo “Zak”), ove la peculiare lateralità dell’ottica di osservazione risiede all’origine della rara acutezza del messaggio. Detournando il motivo ispiratore di una collettiva di tre anni prima (2003), Controlled revolution n.4, a cura di Paolo Emilio Antognoli e Marco Scotini, cui egli stesso partecipa (da qui l’idea di far curare la mostra ad uno “Scotini apocrifo”, Salvatore riferisce il concetto di “rivoluzione controllata”, che per i due curatori toscani riguarda l’inedita ed enigmatica forma «disciplinata, pragmaticamente controllata e burocratica, ma sensazionale», con cui il discorso rivoluzionario sembra tornato in auge (si rammenti che siamo all’inizio del millennio, quando ancora la spinta propulsiva di Seattle e Genova è assolutamente tangibile), alle modalità d’azione tipiche della malavita campana. «La camorra», spiega Salvatore, «costituisce a tutt’oggi l’unica forza rivoluzionaria che agisca dalle nostre parti. La sua prassi appare nei fatti quella maggiormente vincente, quella capace di muovere più denaro e di modificare, nel bene o nel male, l’assetto del territorio. È in grado di rispondere a quel bisogno di rincorrere grandi obiettivi come nessuna istituzione oggi riesce a fare. La prospettiva di conseguire lauti guadagni impiegando tempo e fatica assai ridotti, facendo il palo o vendendo droga, è una tentazione alla quale è difficile resistere per un giovane che, spesso e volentieri, è ancora minorenne». Le due proiezioni gemelle a soffitto, ritraendo ciascuna una telecamera dalle fattezze richiamanti la segnaletica utilizzata in presenza di percorsi videosorvegliati, costituiscono un interessante dispositivo tautologico. Poiché esse, a rigore, non illustrano una telecamera, bensì l’icona alludente al proprio uso specifico, può tranquillamente dirsi che il proiettore, strumento attraverso il quale la funzione della telecamera si esplica, sia qui impiegato ai fini di comunicare tale funzione stessa. Il messaggio trasmesso da tali icone sembra entrare in violento contrasto con la «struggente traccia sonora», un’interpretazione in chiave musicale di un tipico agguato camorristico, composta da Gianni Iannitto, musicista elettronico a quel tempo leader dei Garage Valley, nonché fedele assistente di Zak-Salvatore in numerosi video. Ma come si concilia l’onnipervasività del controllo con il potenziale eversivo che implicherebbe l’operato di ogni criminalità organizzata? La risposta risiede nel fatto che siamo non di meno di fronte ad una “rivoluzione controllata”, anzi è difficile trovarne un’esemplificazione migliore: «Credere che la criminalità organizzata agisca in maniera incontrollata», continua Salvatore, «denota un’analisi alquanto ingenua. Le amministrazioni pubbliche ed i ceti imprenditoriali ne traggono evidentemente un tornaconto. Ecco perché malgrado ci si uccida di fronte alle telecamere non si trova mai un responsabile. La rivoluzione camorristica non è solo una “rivoluzione controllata”, ma si alimenta del controllo stesso e senza il suo appoggio non esisterebbe».





Domenico Di Martino, Scudi umani, 2008.

Alla dimensione occulta, invisibile, persino camaleontica del potere criminale, e, più in generale, di ogni gruppo sociale nell’esercizio del suo dominio, dal momento che «a Scampia, così come nei moderni conflitti mondiali, le popolazioni civili non sono più usate tanto come bersagli inermi, quanto come scudi difensivi appannaggio di pochi» fa riferimento anche Domenico Di Martino con la doppia proiezione Scudi umani (febbraio 2008), il cui titolo concide con la personale inserita nel ciclo Corrispondenze di frontiera da me curato, insieme a Pina Capobianco, appunto presso il Centro Hurtado di Scampia. Partendo da una sorta di icona-segnale prossima alla telecamera di Salvatore, ovvero la sagoma maschile tipica di una toilette o di qualunque altro servizio di uso pubblico, Domenico innesca così un progressivo e costante processo moltiplicativo fino a che il quadro non risulta totalmente riempito da tali prototipi. Alcuni di essi presentano un contorno enigmaticamente lampeggiante, ma l’anomalia va gradualmente scemando fino a scomparire definitivamente. Raggiunta l’acme delle presenze, ha inizio un parallelo e contrario percorso di sparizione, mentre nella proiezione attigua le sagome compiono un giro su se stesse a 360°. La sensazione generale parla di angoscia e straniamento, incrementati dal ticchettio, regolare come un metronomo, che scandisce ogni comparire, scomparire o rivoltarsi delle sagome. È l’inquietudine che comunica, quanto testimonia, la paratassi.

Stefano Taccone

mercoledì 7 luglio 2010

PERCHÉ L’ARTE ITALIANA SEMBRA MENO POLITICA DI QUELLO CHE É – Una risposta a Pier Luigi Sacco, Fabio Cavallucci ed Italo Zuffi

Un po’ di tempo fa dalle pagine di "Flash Art" l’economista dell’arte Pier Luigi Sacco sosteneva che, a fronte dei numerosi spunti a disposizione («dalla questione del ricambio generazionale alla crescente precarizzazione, dalla criminalità organizzata alle morti sul lavoro, soltanto per fare qualche esempio, per non parlare degli effetti socio-economici del berlusconismo, un tema che sembra stimolare più gli artisti e il dibattito oltre confine che i nostri; o del disfacimento del progetto di trasformazione sociale della sinistra, che invece sembra non interessare proprio nessuno») e di un rinnovato impegno politico nel cinema (Gomorra, Il divo, La meglio gioventù) e nella musica («anche al di là di una vasta area di artisti che si situano su posizioni apertamente antagoniste, le ultime generazioni si stanno decisamente allontanando dal manierismo romantico-intimista che ha dominato a lungo la scena musicale nazionale») italiani e malgrado «i precedenti illustri (…) talmente noti che non c’è bisogno nemmeno di ricordarli», la scena italiana delle arti visive denota una «relativa incapacità di affrontare in modo incisivo temi politici». Avendo in seguito constatato come se «i classici spazi di maturazione e decantazione di un’arte politica impegnata non sono le gallerie, ma tipicamente gli spazi indipendenti e non profit», in Italia, a differenza di altri paesi, «è ancora vero che per molti nostri artisti, gli spazi in cui definire e costruire i primi passi della propria carriera sono principalmente le gallerie» ed avendo sostenuto che l’alternativa risiederebbe nella possibilità «che siano gli artisti stessi ad inventarsi gli spazi all’interno dei quali tutto ciò possa avvenire», ma ciò «richiederebbe proprio quella sensibilità diffusa che sembrerebbe invece mancare», concludeva che, pur ammettendo che le cose, dato il grado di criticità della situazione, potrebbero presto cambiare, per ora gli artisti italiani «non vogliono e non riescono ad essere politici (…) perché non credono alla possibilità di un progetto di cambiamento che abbia un senso o una reale prospettiva, e quindi trovano più sicuro rifugiarsi in un piccolo mondo che quantomeno conoscono e di cui sanno parlare». (P. Sacco, Assente giustificata – Perché l’arte italiana non vuole essere politica (o non ci riesce), “Flash art”, Milano, Anno XLII, nº 274, febbraio-marzo 2009, pp. 98-99).



Rosaria Iazzetta, Dioxin Parfum, 2009.

Alla tesi di Sacco faceva eco due mesi dopo, sempre dalle pagine di "Flash Art", il critico e curatore Fabio Cavallucci, che, introducendo un articolo in cui intendeva riflettere sul fatto che «se è vero che (…) l’arte italiana non si occupa di politica da un po’ di tempo la politica ha invece iniziato ad occuparsi dell’arte», alludendo a casi come quello della rana crocifissa di Martin Kippenberger o della mostra di Adel Abdessemed alla Sandretto, non solo definiva «verissimo» che «l’arte italiana non si occupa di temi politici», ma aggiungeva persino che essa «non si occupa di temi profondi, o comunque profondamente sentiti» ed invitava pertanto gli artisti a «trovare temi e argomenti più vicini a voi, che anche noi possiamo sentire più vicini». La successiva analisi sulle ingerenze e le deficienze della politica italiana in materia culturale lo conduceva però a concludere così: «Ma allora hanno ragione gli artisti che si rifugiano in Australia o nella propria cameretta, e ha ragione Pier Luigi Sacco quando ammette che ciò che è mancato agli artisti italiani finora, è stato un intero sistema culturale in cui potessero crescere e selezionarsi. Un sistema incapace di conquistarsi spazi di reale autonomia è un sistema debole, che non può certo sperare di produrre qualcosa degno di interesse al di fuori dei nostri ristretti confini». (F. Cavallucci, Arte e libertà – Come la politica sta occupando il contemporaneo, “Flash art”, Milano, Anno XLII, nº 275, aprile-maggio 2009, pp. 82-83).



Salvatore Manzi, Lapidazione analogica, 2009.

Sacco e Cavallucci sembravano dunque concordi su di una visione ambivalente: da una parte l’accusa agli artisti per le loro carenze (formulata con toni più pacati dal primo, con un pizzico di maggiore acrimonia dal secondo), dall’altra non la piena assoluzione, ma certo la forte attenuante data dal contesto non eccessivamente propizio.



Giacomo Faiella, Sognaleggi - Dreamat, 2009.

Ponendosi in aperta contrapposizione rispetto alle tesi di entrambi, giudicando le une «giudizi affrettati» e le altre «fuori bersaglio», il bimestre ancora successivo ed ancora una volta su "Flash Art" l’artista Italo Zuffi notava che «l’arte italiana contemporanea nel suo insieme altro non è che il frutto maturo di un gesto totalmente politico» e specificava che «l’appellativo “politico” non si dovrebbe solo assegnare quando un messaggio “impegnato” è esplicitato nell’opera d’arte: un’opera d’arte è sempre un episodio politico, sia perché prodotto culturale che innesca sistemi di pensieri e relazioni, sia perché essa si rapporta a un’economia». Aggiungeva poi che a Sacco e Cavallucci, in ogni caso, sfuggono «tutti quegli artisti che esprimono invece temi anche politici nelle loro opere» e citava, senza pretesa di esaustività, «Stefano Romano, Nark Bkb, Flavio Favelli, Francesco Arena, Marcello Simeone, Adrian Paci, Marcello Maloberti, Massimo Grimaldi, Maria Domenica Rapicavoli, Rossella Biscotti». (I. Zuffi, L’arte italiana è sempre politica, “Flash art”, Milano, Anno XLII, nº 276, giugno-luglio 2009, p. 54).



Stefano Lupatini, Untitled dalla serie Targets, 2009.

Avendo riassunto i tratti salienti di queste tre differenti posizioni, ritengo opportuno, data la costante riflessione che, sia pure nel mio piccolo, vado conducendo da diversi anni sulla questione dell’arte politica, provare di seguito ad analizzarle criticamente e, nel contempo, a portare nuovi argomenti alla disputa, pur senza alcuna velleità di porre un punto fermo.



Emanuela Ascari, Solo la terra può unirci al cielo (cornoletame), 2009.

L’analisi di Sacco coglie acutamente un aspetto assai rilevante del problema: la carenza italiana, rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale, del settore non profit, anche se tralascia di aggiungere come assai spesso anche buona parte di quel già di per sé esiguo non profit italiano sia in realtà improntato più ad una filosofia ancillare rispetto alle esigenze degli spazi propriamente commerciali che ad una autentica indipendenza e dunque rischi di essere tale soltanto di nome. A Sacco va inoltre riconosciuta la capacità di preservare per tutta la trattazione un concetto chiaro ed univoco di arte politica, laddove Cavallucci assume come spunto tale concetto per formulare una critica più ampia, ma anche più empiricamente argomentata e che comunque esula dalla presente riflessione, e Zuffi oppone un argomento tanto vero (l’intrinseca politicità dell’atto artistico) quanto inutile ai fini del dibattito, ed anzi persino in grado, a ben vedere, di avvalorare ulteriormente le accuse dalle quali intende difendere l’arte italiana. Più avanti Zuffi, allorché dipana l’elenco di «tutti quegli artisti che esprimono invece temi anche politici», mostra tuttavia di aver compreso la differenza tra arte sempre, benché implicitamente, politica ed arte che affronta tematiche politiche, ma il fatto che senta il bisogno di aggiungere quell’ “anche” rischia di portare, per la seconda volta, acqua al mulino di Sacco. Sia in Zuffi che in Cavallucci (ma quest’ultimo è giustificato dal fatto che il suo articolo non è specificamente incentrato sulla questione di cui ci stiamo ora occupando) manca infine ogni riferimento allo stato di salute attuale della coscienza politica nella società italiana in generale, che, nel momento in cui si intende argomentare sul grado di politicità dell’arte non mi pare propriamente un aspetto da porre tra parentesi. Tale riferimento è in verità assente anche in Sacco, ma il suo ipotizzare che una nuova stagione di conflittualità sociale potrebbe essere dietro l’angolo, benché egli pensi prettamente “ad una conflittualità inedita di tipo generazionale” (posizione assai discutibile, ma non è questo che ora mi preme), lascia intendere che egli giudichi appunto il momento presente non particolarmente conflittuale.



Giuditta Nelli, IMPOSSIBLE SITES dans la rue à la Biennale d'Art Africain DAK'ART OFF, 2010.

Premettendo che sono profondamente convinto che l’odierno quoziente di politicizzazione delle tematiche potrebbe essere maggiore se vi fosse in atto nel nostro paese un livello di conflittualità più elevato quantitativamente e qualitativamente, conflittualità che pure per molti versi non manca ma che rimane, a mio parere, ancora insufficiente rispetto alla gravità della situazione, che peraltro è di dimensione mondiale, e pur apparendomi alquanto problematico rispondere ad una domanda del tipo “l’arte italiana politica o meno?”, ritengo di poter fermamente sostenere che l’arte italiana è comunque più politica di quanto possa apparire a molti e ciò per un motivo molto semplice: la facilità con cui si tralascia di prendere in considerazione artisti validi che hanno il solo torto di non appartenere a gallerie particolarmente di spicco, o magari non di essere rappresentati, indipendentemente dal fatto che tale mancanza sia frutto di scelta o meno, da alcuna galleria, una circostanza che possiede necessariamente un peso specifico maggiore nel momento in cui si va in cerca dell’arte politica.



Maria Vittoria Perrelli, Gioventù ribelle. Archivio del dissenso, 2006-2009.

Per una più organica comprensione della portata italiana del fenomeno consiglierei pertanto di considerare, ad esempio, gli appelli al risveglio delle coscienze, specie in rapporto alle insidie della criminalità organizzata campana, che conduce da qualche anno, ambientandole spesso e volentieri nello spazio pubblico, di Rosaria Iazzetta; i video sulla percezione mediatizzata, sulla questione psichiatrica, e su altre tematiche di carattere socio-antropologico, di Salvatore Manzi; il sollevamento di questioni assai controverse, come il signoraggio bancario o la vicenda delle Twin Towers, praticato da Giacomo Faiella; l’indagine sui concetti di censura e sostenibilità cui Ur5o sottopone ogni aspetto della realtà; le metafore decrescenti, orchestrate con peculiare piglio antispettacolare, di Michelangelo Consani; le rievocazioni storiche della resistenza partigiana (e di ogni lotta di liberazione) elaborate da Ciro Vitale; le riflessioni sugli odierni conflitti bellici, sull’informazione manipolata o sulle morti bianche di Stefano Lupatini; l’ironica quanto amara satira del divismo, le cui logiche sono in grado di erodere rovinosamente i principi della democrazia, sviluppata da Rosa Futuro; le riconciliazioni tra uomo e natura attraverso l’arte tentate, sulla scorta del pensiero antroposofico di Rudolf Steiner, da Emanuela Ascari; l’esplorazione incessante di “luoghi impossibili dello spazio e della mente”, tra “incrementarsi inesausto della rete di relazioni” e “denuncia dello stato di fatto”, condotta da Giuditta Nelli; gli attacchi alla presunta superiorità della “civiltà occidentale” contenuti in alcuni video di Pier Paolo Patti; il sovrapporsi di pulsioni creative e desideri palingenetici tipico di Katia Alicante; gli archivi (Gioventù ribelle. L’Archivio del dissenso in primis) o le tracce sonore di Maria Vittoria Perrelli; le ricognizioni sui fenomeni migratori e, più recentemente, sul mondo del lavoro, anche a partire dalla sua specifica esperienza, di Giuliana Racco; la messa a fuoco della sempre più spinta quanto paradossale trasformazione dell’acqua in un bene di lusso operata da Domenico Di Martino.



Giuliana Racco, I miei anni invisibili (2003-2008) , 2008.

Sono questi alcuni degli artisti con i quali ho lavorato in questi anni o che comunque seguo con attenzione. I loro nomi costituiscono, a mio parere, una buona parte di quella che è l’arte politica italiana oggi. Tra essi vi è chi ultimamente ha ottenuto anche discreti riconoscimenti dal mondo dell’arte ufficiale, chi verosimilmente li otterrà di qui a poco, ma anche chi li ha ottenuti e poi ha preferito ritirarsi ai margini di esso o chi non li ha mai cercati preferendo fin dall’inizio operare in semi-clandestinità. C’è chi non disdegna affatto i circuiti istituzionali e chi pur non disdegnandoli cerca anche altri circuiti non convenzionali; chi rimane a distanza dal sistema delle gallerie perché conduce una ricerca che poco stimolerebbe il cubo bianco e chi si dichiara apertamente contrario a tale sistema. Si tratta di posizioni tanto varie ed articolate quanto pienamente discutibili, ma, in ogni caso, tutte ugualmente rispettabili e legittime e dunque non equamente in grado di pregiudicare in un senso o in un altro la valutazione critica della loro produzione. Diversamente il discorso sull’arte politica rischia di adottare le medesime logiche che ormai informano quell’evento farsesco che è diventato il concertone romano del Primo Maggio, dal quale, senza neanche comprendere la contraddizione in termini, i 99 Posse, evidentemente giudicati non sufficientemente capaci di fare cassetta, sono oggi esclusi!

Stefano Taccone