mercoledì 31 ottobre 2012

GIOVANNI FRANCO - Generazione del rifiuto

(Testo distribuito in occasione della mostra Giovanni Franco 1982-2012, da me curata presso l'ART.TRE di Salerno dal 13 al 21 ottobre).

L’artista, si sa, è figura inutile; è colui che porta l’utopia, il desiderio, il sogno, il gioco, la beffa. È un errore sociale. A frequentare i rifiuti – forse solo a considerarli -, non ci si allontana da essi intatti, immuni, né si resta come prima. Sappiamo anche che essi sono un viluppo di simboli: sono rischio e fascinazione, catastrofe annunciata e seduzione, bellezza del brutto e memoria dell’umano. Talvolta sono il segno di una creatività minacciosa quanto ambigua, giacché l’immondizia non è prevedibile e quindi non la si può eludere. Anarchico, il recupero delle deiezioni o dei rottami da parte dei pittori scultori, fotografi è anche un’utopia e, come tale, si coagula e si dissolve nel tempo: esso è come l’utopia, infantile, irritante, salvifico. Noi gettiamo via le nostre tracce, l’arte ne sbuccia l’aroma e ne suggerisce il destino.

Lea Vergine, Quando i rifiuti diventano arte


Nel solco di una tradizione ormai ultrasecolare - inaugurata da avanguardie storiche come il Cubismo, il Futurismo ed il Dadaismo per arrivare fino ai giorni nostri; senz’altro generata da affinità di sensibilità ed intenti, ma anche bisognosa di essere esplorata nelle varie e differenti accezioni che in essa trovano cittadinanza – si inscrive la mostra pseudocollettiva e pseudoretrospettiva di Giovanni Franco, allorché egli la fonda su due opere – sarei tentato, in considerazione della loro struttura e del loro autore, di definirle “iperopere” – in cui il rifiuto, essendo la materia prima, viene indagato tanto nella sua specifica fenomenologia, quanto in rapporto allo statuto dell’oggetto d’arte ed alla figura dell’artista e sceglie l’immagine della sua ombra – qualcosa di inutile, o apparentemente tale, al pari di un rifiuto, ma che, a differenza di esso, ci accompagnerà volenti o nolenti vita natural durante – per illustrare l’invito. Se peraltro la ricorrenza del rifiuto durante l’intero trentennio della ricerca di Franco si inscrive nella sua più generale tendenza a “ricondurre sulla terra” – come direbbe Walter Benjamin - l’oggetto d’arte – giacché ad una luce non differente va intesa, ad esempio, tutta la sua produzione prossima al paradigma del gadget -, la sua pressoché schizofrenica moltiplicazione di personalità artistiche, in quanto condotta accantonando consapevolmente ogni preoccupazione di riconoscibilità - fattore invece assolutamente indispensabile per il mercato -, costituisce probabilmente una delle poche autentiche ed attualmente realizzate deviazioni da quelle che sono le tipiche istanze del sistema relativamente alla figura del soggetto “produttore”.



                 Chi vive muore (particolari), 2012. 


Sorta di archivio in progress – ma anche in regress, ogni qualvolta un pezzo viene venduto – del rifiuto, costruito catturando i linguaggi attraverso i quali il prodotto è solitamente confezionato per divenire merce – dalle sue implicazioni accattivanti a quelle paradossalmente dissuasorie, come avviene sui pacchetti di sigarette -, ma anche detournato in virtù della sostituzione del prodotto da consumare col prodotto consumato – conformemente ai modi più peculiari della firma-identità “sarajevo supermarket” –, è Chi vive muore, moderno memento mori volto ad  additare la contraddittoria ed ambigua relazione vita-morte che pervade la società contemporanea, ove la morte è tabù innominabile, ma anche continuamente evocata, mentre la vita è spesso ritenuta piena se coincide con i piaceri, ma è proprio l’intensificazione di questi ultimi a condurla alla fine – e quindi alla morte. Con le loro sembianze enigmatiche, in quanto non immediatamente identificabili nella loro essenza ed origine, nonché per le loro fattezze spesso esteticamente gradevoli, i contenuti dei barattoli rischiano di possedere un appeal ancora maggiore delle merci reali, suggerendo tra l’altro la riflessione sull’affinità strutturale tra arte e rifiuto, entrambi “inutili” nell’ottica della teleologia economicista del capitalismo, ma entrambi da esso “recuperabili” entro il suo alveo - tanto nel segno di un abbinamento, quanto in rapporto ad i rispettivi business che notoriamente alimentano.


 

trash e no stars da tutti noi in famiglia (installazione + happening), 2012.


Gli aspetti del contemplativo e del finito che a conti fatti permangono nelle modalità di relazione al rifiuto adoperate in Chi vive muore sono posti in discussione con trash e no stars da tutti noi in famiglia, ove l’inerzia tipica del regalo-souvenir – che spesso non finisce nella spazzatura, o ci finisce più tardi, solo per una questione di pudore, creanza, educazione, ma il nostro hard disk mentale ha già provveduto a cestinarlo da tempo, giacché l’oggetto non rientra nel nostro immaginario, è dono di una persona che neanche ci ricordiamo più o che desideriamo dimenticare o, più semplicemente, già lo spazio e poco e sta lì a riempirsi solo di polvere – è fronteggiata attraverso il prezioso quanto inacquistabile ed inalienabile antidoto rappresentato dalla creatività che è propria dell’arte - al di là di ogni riconoscimento istituzionale - e costituisce il suo metodo privilegiato per esperire l’oggetto stesso, così come la realtà intera. Ognuno dei trenta oggetti incorniciati ed impacchettati – regali sottratti all’immondizia dunque – costituisce infatti un’opera in potenza, in quanto per l’artista – o meglio di volta in volta per uno dei membri della “famiglia di artisti” che alberga nel corpo di Giovanni Franco - stimolo originario allo sviluppo di un discorso che però non si è potuto – ancora - continuare per motivi logistici e si è pensato dunque di chiedere aiuto all’eventuale acquirente, il quale diventerà proprietario del pezzo solo se si impegnerà a supportare – economicamente - le successive fasi che condurranno al suo completamento, in un’ottica in cui la relazionalità dell’arte non afferisce più, come di consueto, alla totalità degli spettatori, ma, più specificamente, ai collezionisti, schivando tuttavia, per ragioni che a questo punto dovrebbero essere chiare, le tipiche connotazioni da merce di lusso che l’oggetto d’arte solitamente possiede – o quanto meno smorzandole.

Stefano Taccone

 

sabato 6 ottobre 2012

ENZO CALIBÉ - arte per natura vs natura per artificio

Una concezione improntata non tanto alla fusione tra arte e vita, né, tanto meno, alla dissoluzione della prima nella seconda – quasi alla stregua di quella che, a partire da Dada, costituisce la grande utopia delle avanguardie novecentesche -, ma certo ad una continua permeabilità tra le due - giacché se la vita è l’arena nella quale volenti o nolenti ci si misura attraverso le sue, e le proprie, insanabili contraddizioni, l’arte, più che ad una realtà oggettuale, può corrispondere innanzi tutto ad un’attitudine metodologica di approccio all’esistente, ad un apparato di codici in grado di permettere un più lucido esperire dei suoi nodi – sta alla base della ricerca di Enzo Calibé fin dalle prime opere, fin da quando è ancora – intorno al 2006-2007 – legato ai media tradizionali della pittura o del disegno, benché nell’ultimo biennio tale presupposto risulti ulteriormente chiarito e metabolizzato. Se il vivere implica inoltre per lui una continua interrogazione sulla propria origine e sul proprio agire - e quindi in sostanza sul rapporto tra l’uomo e la natura, rispetto alla quale l’uomo è insieme paradossalmente parte integrante ed altro da sé - e l’operare artisticamente, parafrasando una felice definizione di Vincent van Gogh - che va però interpretata in un’accezione che tenga conto del sopravvenuto scarto tra concetto di rappresentazione, cui ancora necessariamente pensa il pittore olandese, e quello di mera presentazione postduchampiana – significa aggiungere l’uomo alla natura, Calibé si trova in una peculiare condizione per tastare la strutturale vocazione dell’arte alla riflessione ed alla sperimentazione sulle modalità attraverso le quali tale incontro può avvenire sul piano della reciproca valorizzazione delle proprie facoltà, ma preservando costantemente un rapporto di equilibrio tra i due termini del discorso e quindi schivando ogni tentazione di dominio del primo sul secondo.


Joseph Beuys, Difesa della natura, 1984.

Negli ultimi tempi tuttavia egli appare concentrato piuttosto nel rilevare come tale dominio rappresenti tutt’altro che un’ipotesi remota, avendo anzi raggiunto un picco estremamente preoccupante, in grado di ritorcersi, secondo la sinistra profezia pronunciata da Joseph Beuys il 13 maggio 1984 a Bolognano, nell’ambito dell’operazione Difesa della Natura, allorché dimostra toni apocalittici in verità alquanto inconsueti nei suoi discorsi e per questo tanto più sconcertanti, contro l’uomo stesso - «Se gli uomini non possono far altro che rimanere imprigionati nella loro stupidità, se si rifiutano di dare considerazione all’intelligenza della natura e se si rifiutano di mostrare una capacità di entrare in rapporto di collaborazione con la natura, allora la natura farà ricorso alla violenza per costringere gli uomini a prendere un altro corso. Siamo giunti ad un punto in cui dobbiamo prendere una decisione. O lo faremo, o non lo faremo. E se non lo faremo ci troveremo a fronteggiare una serie di enormi catastrofi che si abbatteranno su ogni angolo del pianeta».


Hans Haacke, A Breed Apart (particolare), 1978.

Sorta di esemplificazione-denuncia della tracotanza dell’uomo, della sua concezione predatoria della natura - mai intesa però quale mero effetto della sua presunta irriducibile indole, bensì in quanto prettamente prodotto della storia, di una vicenda apertasi con la rivoluzione industriale all’insegna dell’accelerazione e proseguita, lungo i medesimi binari, fino ai giorni nostri, implicando un crescente oblio del proprio essere – va intesa così Una razza a parte (2011), il cui titolo suona come la traduzione in italiano di quella che è l’opera inaugurale della serie che Hans Haacke dedica alla questione della apartheid in Sudafrica a partire dalla fine degli anni settanta, ma che nel movente morale e politico si avvicina piuttosto ad un’operazione precedente dello stesso artista tedesco, Ten Turtles Set Free (1970), nell’ambito della quale egli, avendo acquistato dieci tartarughe appartenenti ad una specie in via di estinzione, le libera in un bosco della Francia meridionale, onde evidenziare la contraddizione esistente tra il fondamentale principio di etica ambientale, per cui ogni essere vivente ha il diritto di esistere, e la condotta dell’uomo a preoccuparsi dei diritti, sempre più limitati, degli animali – un atto col quale peraltro concorderebbe indubbiamente lo stesso Beuys ed anzi senza dubbio definibile come impregnato di un certo spirito beuysiano.

 
Hans HaackeTen Turtles Set Free, 1970. 

Se però Haacke in quella occasione sceglie la via del ripristino, sia pure simbolico, di un ordine infranto, Calibé punta sull’induzione alla replica metaforica del processo collettivo alla base della consolidata quanto non sempre lucidamente percepita prassi dell’allevamento intensivo, che prepone le esigenze mercantili di carattere quantitativo ad ogni minima considerazione sul benessere del bestiame, trattato quasi in conformità alla concezione cartesiana per cui gli animali, in quanto privi di ragione e di coscienza, non proverebbero dolore. Se a perpetuare il vigere di tale sistema produttivo non è che la domanda dei consumatori, essi, come gli spettatori-cooperatori di Una razza a parte, non fanno altro che comporre il puzzle che rappresenta una ammasso di maiali – ma potrebbero essere anche polli, conigli, vitelli, agnelli – sgozzati in un macello. La metafora di tale celebre gioco da tavolo è peraltro già attiva in alcune opere del 2009, cui manca però la componente relazionale, concetto che, costantemente inteso in antitesi a quello di consumatore passivo, sembra qui invece sovrapporsi ad esso, ma anche, in un secondo momento, investire il suo carattere di attivatore di coscienza in una possibile riflessione sul consueto ciclo di produzione-consumo, anche in virtù della sostituzione dell’immagine del succulento prodotto finito - talvolta comunemente inteso quasi come un qualcosa di autogeneratosi - con il suo inquietante quanto inestirpabile antefatto.

 
Enzo Calibé, Una razza a parte, 2011.
 
È vero tuttavia che non siamo più negli anni ottanta e novanta, quando il paradigma neoliberista appare ancora trionfante ed i valori della competizione, della ricchezza, ma anche del vigore sportivo e giovanile – si pensi ai marchi come la Nike, la Adidas… - dominano l’immaginario, quando, in altre parole, l’ideologia del logo è al suo culmine, ma ciò determina una parallela fioritura del suo controdiscorso che ne decostruisce la scala di valori e pian piano mostra, per dirla con Walter Benjamin, tutta la turpe barbarie che si nasconde dietro la fulgida civiltà di quello che Naomi Klein chiama “il nuovo mondo di marca” - una temperie della quale le opere di Haacke fanno pienamente parte – contribuendo infine a far sì che le stesse strategie di branding siano costrette a reinventarsi o quanto meno a correggere il tiro. Come spesso tuttavia storicamente avviene la ristrutturazione del capitalismo, resa necessaria dall’incalzare dal fronte che ad esso si oppone, finisce non solo per permettere il suo perpetuarsi, ma per garantirgli basi ancora più solide.

 
Enzo Calibé, Falso per natura (veduta della mostra), Di,St.Urb, Scafati, 2012.

In definitiva se - riferendoci ancora per un momento ad Una razza a parte di Haacke – la campagna pubblicitaria dal cui ribaltamento procede tale opera ci offre una lampante testimonianza della nascente ideologia neoaristocratica dello hiuppie - giacché ad “una razza a parte” per la British Leyland appartiene la sua prestigiosa Jaguar, la quale, stando al suo messaggio promozionale, avrebbe aperto «le porte ad un nuovo mondo… un mondo nel quale, per la sua sofisticazione e per la sua classe elevata, entreranno solo pochi eletti» -, oggi, a fronte dei fallimenti sempre meno occultabili e della conseguente perdita di appeal di un modello che è stato etico oltre che politico ed economico, quei pochi (auto)eletti sembrano paradossalmente rinvenire nella riproposizione teorica di quelli che sono pensieri e sensibilità nati in antitesi ai loro, o comunque - in ultima istanza – strutturalmente incompatibili con i propri, l’unica risorsa che, vice versa, permetta indisturbata la riproposizione pratica di quelle che sono le loro attitudini di sempre, in una forse quanto mai clamorosa scissione tra ideologia e realtà. Accade così, ad esempio, nel nostro paese, particolarmente funestato dalla corruzione in ambito sportivo, che un calciatore anche non troppo famoso, ma così onesto da rifiutare una cospicua offerta affinché truccasse una partita, divenga immediatamente – fattore impensabile fino non molto tempo fa – una figura particolarmente appetibile per i marchi aziendali.

 
Enzo Calibé, Senza titolo (dalla serie Ecobusiness Landscape), 2012.

Vero e proprio emblema di tale generale fenomeno di rebranding, per adoperare nuovamente un efficace termine caro alla Klein, è la pratica che va sotto il nome di greenwashing, in realtà tutt’altro che recente – mi viene in mente, ad esempio, lo spot televisivo, risalente agli anni ottanta, dell’orsacchiotto Coccolino, testimonial dell’omonimo ammorbidente, il quale apre la finestra e si compiace della natura rigogliosa, ma peccato che il prodotto sia di proprietà della Unilever, ovvero di una multinazionale anglo-olandese più volte accusata di scempi ambientali -, eppure senz’altro negli ultimi anni oggetto di una notevole accelerazione, e sull’analisi demistificante di essa si concentra naturalmente – è proprio il caso di adoperare questo avverbio - la ricerca più recente di Calibé, «adottando» - come correttamente rileva l’amica, collega e compagna Serena de Dominicis, curatrice della sua recente personale Falso per natura - «un modus vicino a quello del culture jamming», ovvero a quella peculiare forma di arte attivista che, rinvenendo le sue radici nel détournement situazionista, assurge ad una delle più tipiche armi della controinformazione nell’era della globalizzazione neoliberista - benché oggi appaia forse un po’ invecchiata – cui non a caso la Klein dedica in No Logo un intero capitolo.


Enzo Calibé, Senza titolo (dalla serie Ecobusiness Landscape), 2012.

Ci si accorge così repentinamente della sorprendente mole di pubblicità in circolazione che adotta a mo’ di sfondo ameni e talvolta paradossalmente quasi innaturali paesaggi, ma senza che si possa conoscere di volta in volta qual è il prodotto o il marchio che all’origine su di essi si staglia – chissà perché il primo prodotto che mi viene in mente è l’automobile, peraltro qualcosa di antiecologico per eccellenza…; forse perché, proprio in quanto tale, è una prassi ormai ampiamente consolidata quella di contestualizzare le loro presunte formidabili prestazioni entro le più suggestive vedute naturalistiche – dato che l’artista ha accuratamente provveduto a rimuoverli, sostituendoli con enigmatiche figure ottenute “per via di levare”. É un trattamento che, nel suo evidenziare il carattere superficiale e transitorio dell’immagine mediatica – come avviene non di rado, benché con strumenti differenti, nella Pop Art -, sembra asserire in definitiva – sempre al pari della Pop Art – l’equivalenza e l’interscambiabilità di ogni oggetto mercificato e, in definitiva, la sua irrilevanza qualitativa non solo per il consumatore, allorché l’acquisto è un venire incontro ad una frenesia indotta piuttosto che ad un bisogno reale, ma anche per il mercato, cui non interessa che venga acquistato un prodotto piuttosto che un altro - e dunque, entro certi limiti, persino i prodotti ad esso ostili, come appunto i libri di Naomi Klein, che in Italia, così come quelli della celebre trilogia di Michael Hardt e Toni Negri, sono editi dalla Rizzoli, appartenente alla RCS, ovvero al gruppo che pubblica anche "Il Corriere della Sera", notoriamente il quotidiano della borghesia liberale italiana e decisamente filomontiano -, ma semplicemente il fatto che le transazioni avvengano.

Stefano Taccone

martedì 24 luglio 2012

PIETRO MELE - Il contesto sardo come materiale

(Intervento introduttivo al video Every Day di Pietro Mele, presentato nell’ambito di Arte di Sera / 50 - All Night long / Visioni e parole per una notte di festa ad arte (di sera)…, evento tenutosi la sera dell’8 giugno 2012 presso la Fondazione Filiberto Menna – Centro Studi d’Arte Contemporanea, Salerno).

Il contesto sardo - tra i più martoriati e contraddittori d’Italia, ma anche assai meno sotto i riflettori rispetto ad altre aree critiche del nostro paese, fattore cui corrisponde, nel sentire della sua popolazione, un maggior distacco - e forse, potremmo dire, anche un disamore – rispetto allo Stivale, sfociante sovente non a caso in rivendicazioni indipendentiste non equamente riconducibili tout court, o almeno non sempre, a posizioni conservatrici o reazionarie - costituisce, parafrasando una celebre formula con la quale un artista come Hans Haacke che di analisi dei contesti politici ne sa qualcosa, l’autentica materia prima per gran parte del discorso che Pietro Mele va sviluppando in questi ultimi anni – in particolare, con una certa continuità, a partire dal 2008. Dal grave degrado ambientale e sociale prodotto dal polo industriale di Ottana (Ottana, 2008) alla goliardia vernacolare di due irrequieti giovinotti di provincia (Local boys, 2009); dall’amara archiviazione dei parchi eolici sardi, proliferanti a beneficio delle multinazionali, ma anche a scapito dell’economia locale (Theoretical wealth, 2009-), all’iniziativa di concreta riappropriazione collettiva di un territorio, l’isola di Budelli, che, in quanto parte dell’area protetta dell’arcipelago di La Maddalena, è detenuto da un privato   illegittimamente (The Island Project, 2011-), la Sardegna appare costantemente l’autentico protagonista, il cardine attorno al quale ruotano le sue analisi dall’apparenza semplice e distaccata, ma in realtà scaturenti da un complesso lavoro di calibrazione del rapporto tra realtà e mediazione, nonché del gradiente di concentrazione linguistica – mantenuto per lo più su di una bassa polarità -, oltre che – inevitabilmente – prodotto di un inestirpabile legame affettivo – ancorché probabilmente funestato dal trauma e misto a repulsione e terrore non sempre emergenti ad un livello pienamente conscio – con la sua terra d’origine. E chissà se la politezza delle sue presentazioni e la sua concezione conchiusa del processo di visualizzazione – per cui ogni sua opera, a meno che non possieda un carattere strutturalmente in progress, allorché licenziata non risulta più suscettibile di posteriori riformulazioni o anche più modesti emendamenti – non funzioni come una sorta di esorcizzazione per contrappasso di una situazione di estremo disordine e paradosso che non di meno viene di fatto vissuta da molti – ahimè da troppi! –  come naturale ed immodificabile e, in quanto tale, da sopportare alla meno peggio piuttosto che da combattere.
Niente di più emblematico nell’afferire a tale attitudine psico-sociale di impasse è forse la questione della letterale occupazione militare cui il territorio sardo soggiace a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, come ben evidenzia Pietro – che non a caso nell’ultimo anno e mezzo sembra particolarmente votato ad insistere su di essa - attraverso un’opera come Über aller Welt Gewässer (2011), sorta di mappatura della presenza militare sull’isola – che costituisce ben il 60% circa della proprietà militare italiana. D’altra parte è anche vero che prima ancora che sulla rassegnazione si fa leva semplicemente sul silenzio della segretezza, per cui anche ciò che è più prossimo nello spazio diviene lontano nella coscienza, mentre malattie genetiche, cancri, leucemie divengono fatalità inspiegabili. Mosso dall’impellente necessità di infrangere le maglie della censura legalizzata Pietro azzarda un’operazione tanto illegale quanto più che legittima come quella di Near to you (2011), affiggendo abusivamente un enorme foto di una esercitazione NATO  - scattata da un soldato che l’ha poi clandestinamente pubblicata su di un forum militare – su di un muro di una strada di Sassari molto trafficata. Se l’essenzialità comunicativa, fondata sul rifiuto di un linguaggio troppo basato sugli effetti scioccanti tipici della controinformazione permane senza dubbio, l’urgenza amplificatrice lo conduce qui ad assumere inedite attitudini attiviste. 
Il motivo della paradossale nonché sciagurata vicinanza ritorna nel video Every Day (2011), messa in scena della convivenza quotidiana di due mondi lontani anni luce su di un piano ideale, ma ahimè praticamente ormai fisicamente sovrapposti: quello tradizionale quanto genuino e salutare del pastore con le sue pecore e quello altamente tecnologico quanto estraneo e letale della grande base aerea della NATO. Ancora una volta nessun violento cortocircuito, bensì da parte dello spettatore una scoperta dal ritmo lento e pacato, quasi ciò che si vede fosse “un fatto normale”.

Stefano Taccone


giovedì 14 giugno 2012

POLITIKACTION 1972-2012 - Il sistema è la crisi

(Testo distribuito in occassione della mostra Politikaction 1972-2012 - Il sistema è la crisi, da me curata presso il Di.St.Urb di Scafati dal 6 al 28 maggio, cui hanno partecipato i seguenti artisti e colettivi: Katia Alicante, Emanuela Ascari, Az.namusn.art, Enzo Calibé, Leone Contini, Nemanja Cvijanovic, Karmen Dada, Rosa Futuro & Tobias Marx, Silvia Giambrone, Rosaria Iazzetta, Internazionale Surplace, Marta Lodola, MaisMenos ±, Domenico Antonio Mancini, Salvatore Manzi, Pietro Mele, Giuditta Nelli, NoiSeGrUp, Pier Paolo Patti, Giuliana Racco, Alessandro Ratti, Rhaze, Mauro Rescigno, Fabrizio Sartori, Ur5o, Claudia Ventola, Marco Villani, Ciro Vitale, Marco Zezza, Mary Zygouri).

Scafati 1972: presso il Centro Sud-Arte del prof. Davide Morlicchio, figura chiave di mecenate per molti artisti operanti su quel territorio all’epoca, si inaugura la “mostra-manifestazione” Politikaction, a cura della Cellula Grafica “J. Heartfield”, coordinata da Franco Cipriano, artista allora appena ventenne, insieme agli altrettanto giovani colleghi Adriano Mele, Ciro Esposito e Gaetano Gravina, con i quali condivide il già discreto bagaglio di esperienze maturate nelle fila delle iniziative aggregatorie che Luca (Luigi Castellano), instancabile agitatore culturale ed ideatore di gruppi, manifesti e riviste d’avanguardia fin dai tardi anni cinquanta, marxista ed esponente di spicco del P.C.I. napoletano, benché costantemente sul filo dell’eterodossia, nonché artista egli stesso, ha animato durante gli anni immediatamente precedenti. Tale evento di pone quale anello di congiunzione tra tutto il discorso teorico progressivamente elaborato attraverso i tre numeri di “NO” (1969-1971) - la rivista che sancisce il definitivo approdo di Luca e del suo gruppo ad un concetto di “avanguardia politica”, parallelamente al definitivo divorzio dagli “ex compagni di lavoro e di lotta” dell’ ”avanguardia non politica” o “avanguardia artistica e letteraria”, rappresentata innanzi tutto dai poeti visivi Luciano Caruso e Stelio Maria Martini, con i quali ancora convive nell’ambito della redazione di “Linea Sud” fino al numero doppio del febbraio 1966 (Cfr. Noi. L’Avanguardia, in “NO”, Napoli, n. 1, 1969, pp. 14-15; Intervista a Luca, in M. De Vivo, La saletta rossa 1963 – 1974. Dieci anni d’arte alla Guida, Alfredo Guida Editore, Napoli, 2008, pp. 94-95; Luca, Contestazioni, in “Linea Sud”, Napoli, anno III, n. 3-4 (numero doppio), febbraio 1966) - e la successiva fondazione della Prop-Art - quando, ricorda Cipriano, «pensammo alla possibilità per gli artisti di intervenire con i propri strumenti nel contesto dell’opposizione politica di classe», poiché «non ci bastava più essere politici in quanto artisti» (Intervista a Franco Cipriano, in M. De Vivo, op. cit., p. 111). Trenta soggetti – artisti operanti individualmente o collettivi, provenienti per lo più dalla Campania ma non solo – si coalizzano in quell’occasione dando vita ad una sorta di premessa-manifesto rispetto ad un breve ma intenso periodo – dato che l’autentico commiato della Prop-Art è riconducibile alla partecipazione del gruppo alla Quadriennale romana del 1975, con la presentazione di una sala interamente allestita con opere-bandiere rosse, tutte perfettamente uguali, firmate da decine di artisti e non artisti, che funziona come dichiarazione di definitivo azzeramento dell’individualità – in cui lo sforzo di identificazione-fusione tra pratica artistica e militanza politica raggiunge, nella parabola luchiana, il suo acme.

 

1972: la spinta propulsiva del Sessantotto – e del Sessantanove, l’anno delle lotte operaie – si avverte ancora viva ed operante, permeando tanto la militanza condotta all’interno delle frange più movimentiste del Partito, quanto quella della variegata costellazione extraparlamentare; tanto la socialità di base, quanto le istituzioni, tanto la cultura alta, quanto quella popolare, eppure il clima lentamente sta cambiando. Se l’escalation del terrorismo, la cui stagione si apre il 12 dicembre 1969 a Piazza Fontana, si muoverà di pari passo con quella della repressione – e della sua giustificazione sociale -, l’esaurirsi del paradigma fordista, che ha reso possibile per quasi trent’anni uno sviluppo di matrice keynesiana, fondato sul compromesso tra capitale e lavoro – non a caso si parlerà di “trentennio glorioso” (1945-1975) -, ed il correlato esplodere della crisi di sovrapproduzione e dei profitti – e forse vale la pena aggiungere “del controllo”, fattore che Samuel Huntington giudica quello preponderante (Cfr. M. J. Crozier, S. Huntington, J. Watanuki (a cura di), La crisi della democrazia: rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, prefazione di G. Agnelli, introduzione di Z. Brezinski, Franco Angeli, Milano 1977) – sbilancerà repentinamente l’andamento del conflitto a favore del capitale, che rinverrà nella dottrina neoliberista una sorta di arma – è proprio il caso di continuare a sviluppare la metafora bellica - per fronteggiare tale crisi, che poi non è altro che la sua stessa crisi, fino ad annientarla – o meglio a fornire, in primis tramite l’anfetamina della finanziarizzazione, l’illusione di averla annientata, mentre sarebbe più coretto dire che non ha fatto che congelarla finché ha potuto, ovvero fino al 2006 -2008. Parallelamente non solo il sogno di un’arte come elemento di sovversione rispetto al sistema dell’oppressione di classe, ma persino la realtà di un’arte come proiezione verso una mai esausta sperimentazione dei linguaggi si infrangerà contro un vento normativo che neutralizza ogni pulsione eccedente entro l’universo spettacolare della mercificazione. Eppure le pratiche estetiche di alternativa – così come le lotte “per un altro mondo possibile” – non scompariranno mai del tutto nemmeno per un attimo, ma continueranno, benché relegate in una posizione marginale – è ora, a partire dalla fine degli anni settanta, piuttosto che al suo sorgere storico a metà degli anni sessanta, che appare molto più pertinente sul piano letterale parlare di “cultura underground” - mutando protagonisti, strumenti, linguaggi e problematiche e procedendo quasi alla stregua della “vecchia talpa” marxiana, pronta a riemergere al momento opportuno.



Scafati 2012: presso Di.st.urb. (Distretto di studi e relazioni urbane/in tempo di crisi), nato a febbraio di quest’anno, mosso da una esplicita attitudine aggregante, che lo ricollega idealmente allo spirito di Luca, e votato – come testimonia la denominazione stessa dello spazio - ad una ricerca estetica che assuma la crisi mondiale in corso quale costante riferimento contestuale ed oggetto d’indagine, trenta soggetti tra artisti e collettivi, tutti differenti da protagonisti della mostra del 1972, tutti di una fascia d’età grosso modo analoga a quella cui questi ultimi appartenevano allora, ma questa volta, in conformità con le enormi trasformazioni nel frattempo avvenute nella sfera delle comunicazioni, naturalmente in grado di rappresentare un’area geografica più ampia – permane una buona fetta di artisti campani, ma è preponderante la parte proveniente da altre regioni d’Italia, cui si aggiungono alcune presenze estere – sono chiamati a riprendere il discorso di allora in rapporto alla specificità dell’attuale momento storico. Nel mezzo tutta una molteplicità di vicende storico-artistiche attraverso le quali si dipana, non senza smottamenti e discontinuità, la “lunga linea rossa”, per adoperare un’espressione cara a Luca, dell’arte politica internazionale – dalla scultura sociale di Joseph Beuys alla critica istituzionale di Hans Haacke, ma anche di Marcel Broodthaers; dai collettivi attivisti americani tipici degli anni ottanta, come Group Material o ACT-UP, a forti individualità come Alfredo Jaar o David Hammons, dall’arte attivista Post-Seattle alle recentissime operazioni originatesi nel contesto dei nuovi movimenti di contestazione, Occupy Wall Street in primis. Se infatti tutti questi fenomeni e tanti altri sono rinvenibili nel retroterra di questi nuovi trenta, il display prescelto è deliberatamente - quanto liberamente – ispirato a This Is What Democracy Look Likes che, tenutasi tra l’ottobre ed il novembre 2011 presso le NYU’s Gallatin Galleries di New York, ha costituito una sorta di mostra-simbolo per l’arte attivista sviluppatasi nell’alveo delle occupazioni di Zuccotti Park. Essa consiste in un ampia opera murale a più mani, composta da poster, manifesti, volantini e scritte su supporti vari, basata tanto sull’effetto plurivoco d’insieme, quanto sulla sollecitazione alla lenta esplorazione analitica del singolo tassello.


2012: Il paradigma neoliberista, sul quale si sono fondate le politiche degli ultimo inglorioso trentennio (1975-2005), conosce ormai, in seguito alla grave recessione in cui è sprofondata l’economia mondiale a partire dal biennio compreso tra la crisi dei mutui subprime – seconda metà del 2006 – e la scomparsa delle maggiori banche d’affari del pianeta – settembre 2008 –, cui è seguito il salvataggio delle banche stesse – negli U.S.A. ma, di fatto, anche in Europa – per mezzo dei soldi pubblici – ovvero dei nostri soldi -, e quindi la crisi del debito sovrano – che ancora una volta, proprio in questi mesi, siamo chiamati a fronteggiare tutti noi cittadini -, un grave declino di credibilità, e ciò malgrado le misure messe in campo dai governi quali “ricette per uscire dalla crisi” attingano ancora alle sue logiche. Ma se la finanziarizzazione – è questa in sostanza la visione, ad esempio, di Zygmunt Bauman a partire da Capitalismo parassitario (2009) (Cfr. Z. Bauman, Capitalismo parassitario, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009), così come, al di là delle sfumature, di molti altri studiosi contemporanei di diverse tipologie e nazionalità; e peraltro alla finanziarizzazione potrebbero aggiungersi le delocalizzazioni, la compressione dei salari, i tagli ai servizi pubblici… - ha funzionato alla stregua di un farmaco in grado di conservare in vita un capitalismo altrimenti destinato ad una lenta agonia, quello della metà degli anni settanta, cosa succede nel momento in cui gli effetti collaterali divengono insostenibili e la cura, da che leniva i sintomi della malattia, si volge in fattore di pernicioso radicalizzarsi degli stessi? E quanto, d’altra parte, il ritorno ad un capitalismo “in buona salute” sarebbe auspicabile in sé, anche tirando in ballo le tutt’altro che secondarie implicazioni di sostenibilità ambientale? Ecco perché più che di un sistema che vive una crisi da superare è il caso di parlare di una crisi da superare parallelamente al superamento del sistema – il sistema è la crisi – ed ecco perché, in altre parole, nel sottotitolo del suo ultimo libro Slavoj Zizek, avendo in mente la crisi ecologica non meno della crisi economica, giunge a domandarsi: «Il capitalismo sta per finire: e adesso?» (Cfr. S. Žižek, Vivere alla fine dei tempi, Ponte alle grazie, Milano, 2011). Nessuno oggi in coscienza è davvero in grado di fornire una risposta, eppure pian piano si vanno diffondendo fermenti ed istanze che rappresentano forse l’unica autentica speranza in grado di scongiurare la non lontana apocalisse con i suoi quattro cavalieri – che il filosofo sloveno identifica acutamente con «la crisi ecologica mondiale, le folli disparità economiche, la rivoluzione biogenetica e gli esplosivi conflitti sociali». Essa s’incarna nei movimenti Occupy che, a partire dal 15 maggio dello scorso anno a Madrid, si sono andati diffondendo praticamente in tutto il mondo, sia pure con alterne efficacie ed intensità; nelle loro rivendicazioni di libertà dal giogo della finanza e nelle loro istanze di riqualificazione dello spazio del politico e della sua autonomia; nel percorso della riappropriazione e della difesa dei beni comuni, materiali ed immateriali che siano, al di là dello sfruttamento intensivo del capitale e del dirigismo burocratico e per una gestione partecipata, ovvero per un esercizio della democrazia non più limitato alla scelta di un simbolo o di un volto, ma fondato innanzi tutto sulle decisioni dirette in merito alle questioni concrete della vita delle comunità, nella prospettiva di oltrepassare il dualismo tipicamente novecentesco tra individuo e società per tendere, secondo il celebre slogan zapatista – e quello zapatista è non a caso il primo movimento rivoluzionario dell’era postbipolare -, verso «un mondo in cui molti mondi siano possibili». Una sorta di metafora di tale paradigma è peraltro individuabile nel display stesso della mostra, ove ogni artista è appunto chiamato a fornire un suo contributo personale – una stampa, una foto, un disegno, un oggetto… -, ma anche a ricondurlo entro un ambito di significazione più ampio, realizzando in tal modo un’opera che è individuale e collettiva insieme o forse non è né l’uno né l’altro, ma semplicemente comune.

Stefano Taccone

martedì 31 gennaio 2012

ACQUA, ARIA, TERRA, FUOCO, AMORE, ODIO, VITA, MORTE

(Testo per il catalogo rimasto inedito della mostra collettiva Acqua, aria, terra, fuoco,amore, odio, vita, morte, da me curata presso la Numen di Benevento dal 5 settembre al 14 novembre 2009).

È il filosofo presocratico Empedocle (ca. 450 a.C.), benché storicamente preceduto nella sua formulazione sostanziale dal Buddha, ad elaborare ed immettere nella tradizione occidentale la teoria dei quattro elementi, hydor (acqua), aer (aria), gaia (terra), heile (fuoco). Essi, permanendo eternamente uguali e indistruttibili, per mezzo del loro mescolarsi e dissolversi costituiscono le “radici di tutte le cose”.
Ma come e quanto la considerazione di tale teoria, evidente prodotto di un pensiero scientifico meno che embrionale, nel contesto di una concezione del sapere cui è ancora completamente estranea la divisione in branche, può suscitare un qualche interesse nell’uomo contemporaneo? Risulta intanto non privo di rilievo constatare come il percorso intrapreso dalla civiltà occidentale, a partire dall’antichità fino ai nostri giorni, risulti assai più improntato ad una fede nell’immutabilità e nell’incorruttibilità di tali elementi, che, come le attuali dinamiche ci mostrano (e l’odierna scienza conferma), alla coscienza della loro finitezza.
Anche se l’uomo occidentale continua ad attingere alla biosfera a mo’ di riserva di risorse illimitata, non vi è infatti chi non veda che come per Empedocle questi elementi, in virtù dell’azione rispettivamente aggregante e disgregante di philia (amore) e neikos (odio), sono all’origine della vita, così, nel nostro presente, il continuo sottoporli ad uno sperpero e/o ad un uso improprio, conseguenza, potremmo definirla adoperando un linguaggio un po’ fuori moda, del prevalere dell’odio sull’amore, potrebbe rappresentare, in un futuro non lontano, la fine della vita stessa.
Dalla presa di coscienza di tale situazione scaturisce l’idea di affrontare il tema dei quattro elementi da un punto di vista inedito, non indulgendo ad alcun substrato mitico o motivo alchemico, ma nemmeno concentrandosi sulla loro mera fisicità. La chiave di lettura prescelta è invece proprio quella del loro rapporto con la sostenibilità ambientale (e quindi con le possibilità di sopravvivenza delle specie viventi). La natura fluida, transeunte, effimera che impronta tutti gli interventi (quelli all’interno non meno di quelli all’esterno), le loro continue metamorfosi spazio-temporali potrebbero invece intendersi, continuando il parallelismo tra filosofia presocratica ed arti visive contemporanee, in quanto manifestarsi della convergenza tra la tradizione di alcune avanguardie del secolo scorso ed il panta rei (tutto scorre) eracliteo.

L’acqua sembra attualmente detenere il primato per grado di criticità ed urgenza. L’avvelenamento delle falde acquifere, ma soprattutto la crescita esponenziale del suo consumo nelle regioni più sviluppate, stanno determinando l’impossibilità per un numero progressivamente maggiore di persone di avere accesso all’acqua potabile. Gli ormai più che incipienti processi di privatizzazione, condotti naturalmente secondo il consueto copione in cui alla massimizzazione dei profitti dei pochi corrisponde il grave e ulteriore impoverimento dei molti, non potranno che aggravare la situazione.



Fin dal 2005 Domenico Di Martino, nella prima fase sollecitando il contributo di altri artisti, in seguito affidandosi al suo specifico apporto creativo, mette a fuoco la questione della sempre più spinta quanto paradossale trasformazione dell’acqua in un bene di lusso. In una sorta di “petrolio bianco” che nei prossimi anni possiede buone possibilità di rimpiazzare quello nero in quanto causa preminente dei conflitti bellici. È la tesi alla base di Water projection, trasposizione nella forma della videoproiezione di alcune immagini, già parte di un ciclo fotografico, cui se ne aggiungono di nuove. Nell’una, come nell’altro, migliaia di bicchieri-logo paiono comporre, come fossero pixel, tanto scene di bambini che trasportano acqua, quanto scene di soldati e carri armati. I bicchieri, funzionando da minimo comune denominatore delle intere vicende mostrate, evidenziano come ci si trovi di fronte a differenti atti del medesimo dramma.



Water action esemplifica invece la qualità dell’acqua solitamente a disposizione dei due terzi dell’umanità nel contesto della piazza principale di Benevento, piazza Santa Sofia, ovvero nel cuore della “meno campana” delle province campane: i passanti sono invitati ad abbeverarsi a due enormi bicchieri trasparenti. Se ognuno è naturalmente portato a fiondarsi su quello contenente acqua limpida, piuttosto che su quello contenente un sospettoso liquido virante sul marrone, la scoperta che al funzionale mestolo annesso a quest’ultimo fa da pendant un mestolo pieno di buchi che rende pressoché vano il tentativo di versare l’acqua alla quale siamo abituati noi occidentali, costringe a riaversi dall’impulso iniziale.



L’aria, se è possibile ancor più dell’acqua, viene tradizionalmente considerata un bene per sua natura non commerciabile. Eppure le minacce congiunte del disboscamento e dell’inquinamento atmosferico, nonché la facile analogia che è possibile formulare con il caso dell’acqua, fanno sì che anche la prospettiva di una privatizzazione dell’aria cominci a porsi come qualcosa di più che un’assurdità.



Come antidoto per un ipotetico futuro in cui l’aria dovesse divenire davvero un bene da razionare Alessandro Ratti propone Maleventum, do it yourself, un efficiente, ma anche paradossale dispositivo di scambio mutualistico tra uomo e pianta. Il processo di fotosintesi, oggi ancora percepito come qualcosa, è proprio il caso di avanzare questa similitudine, di naturale come il respiro, si trasforma così in un’operazione da laboratorio scientifico.



Malgrado il carattere interattivo, con il congegno di Ratti, come del resto avviene per Water action di Di Martino, il pendolo appare orientato assai più verso la pars destruens che verso la pars costruens. I manifesti “pubblicitari”, affissi lungo il vico in cui è situata la galleria, illustrando il corretto funzionamento del “prodotto”, amplificano il portato di sinistra ironia che già l’opera in sé comunica. La memorabile operazione beuysiana della piantumazione delle querce, accompagnata dalla celebre frase «noi piantiamo gli alberi, e gli alberi piantano noi perché apparteniamo uno all'altro e dobbiamo esistere insieme» sembra qui citata nella sua razionalità biologica, quanto svilita in un gingillo da salotto medio borghese.



La terra è oggetto, secondo una prassi simile a quella descritta per l’acqua, di una sempre più ingente appropriazione da parte delle multinazionali occidentali al fine di impiantarvi monocolture, cui corrisponde l’espropriazione delle popolazioni che su quella terra risiedono da millenni e da essa traggono sostentamento. L’esigenza di massimizzare i rendimenti immediati con ogni mezzo porta inoltre tali organizzazioni a riservarle trattamenti che conducono in breve a gravi fenomeni di depauperamento come la desertificazione.



Alla desertificazione appunto e ad altre cause di corruzione della terra e delle sue risorse sono dedicate le nove candele di Giuditta Nelli, ognuna delle quali rappresenta una Bougìe parfumée ~ bugìa profumata, fondata su di un doppio cortocircuito, quello insito nel titolo stesso e quello innescato dalla natura dei materiali e degli oggetti adoperati e dai diversi mondi cui sembrano appartenere. Se in italiano la parola “bugia” è sinonimo di “candela”, oltre che di “menzogna”, la volontà di alludere anche a quest’ultimo significato, e dunque alle distorsioni della verità atte a coprire i misfatti ecologici, magari camuffando i cattivi odori con un po’ di profumo, appare più che un’ipotesi remota. La dimensione di raffinatezza, da profumeria parigina, cui le candele rimandano è contraddetta dagli agenti di deterioramento che ognuna di esse accoglie. Le ricchezze del suolo, sembra chiosare la Nelli, si stanno consumando lentamente, ma irreversibilmente come candele.



Il motivo dell’ambivalenza del titolo ritorna in Earth in peaces, letteralmente traducibile come “terra in pezzi”, ma, attenendosi alla sola pronuncia, anche “terra in pace”, happening scandito in tre fasi differenti. Inizialmente l’artista chiede agli spettatori di scrivere con pennarelli indelebili su di un quadrato di stoffa una parola che definisca la terra; cuce poi insieme i vari quadrati intorno a dei palloni, fino a costruire guaine; lascia infine che i bambini si divertano a giocare a calcio in piazza con questi ultimi, calciando metaforicamente la terra.



Il discorso da riferire al fuoco risulta di natura un po’ differente rispetto a quelli precedenti, dal momento che non si tratta più di considerare l’effetto di deterioramento subito dall’elemento in sé, bensì il suo essere agente di deterioramento. Qualora inoltre si sostituisca la nozione concreta di fuoco con quella più astratta di calore viene immediatamente evocata la questione del surriscaldamento globale, effetto prodotto, checché ne dicano i detrattori del protocollo di Kyōto, dell’impennata delle emissioni di gas serra che il nostro pianeta ha conosciuto in questi ultimi decenni.



Un evidente rimando a tale fenomeno, in quanto causa dello scioglimento dei ghiacciai, è individuabile ne L’UCCELLO DI dIO di Ur5o, ispirata alla fiaba russa "L’uccello di fuoco", ma non si tratta che della sollecitazione più epidermica. L’ingegnosa struttura, un piedistallo marmoreo esagonale sormontato da un'asta che termina con un cerchio metallico necessario a sostenere una piccola gabbia in cui campeggia un uccello di fili metallici, tessuto e pece, essendo sostenuta alle quattro estremità laterali del piedistallo da altrettante forme ghiacciate ad imbuto rovesciato, il cui prossimo scioglimento minaccia naturalmente di destabilizzare il tutto, ma anche di rompere l’uovo che si trova al di sotto, assurge a metafora del più generale iato esistente tra edificazione umana di sistemi complessi ed effettiva capacità supportante che la natura possiede. Ad un tratto l’artista dà fuoco all’uccello, trasformandolo in una sorta di torcia che si consuma fino a carbonizzarsi; quindi esegue la correlata performance Fare Fuoco, ove se la lenta liquefazione di una pistola per mezzo della fiamma ossidrica annienta un possibile agente di morte, non può essere evitato lo sprigionarsi della nociva diossina. Un gesto per ricordare l’enorme impatto ambientale che i pur auspicabili processi di disarmo implicano.



Tuttavia l’anomalia del titolo, in cui, secondo il principio dell’inversione concettuale assai caro ad Ur5o, tutte le lettere sono maiuscole tranne quella che più di ogni altra ci si aspetterebbe tale, fornisce la chiave per una ulteriore e ancor più profonda lettura. «É l'uomo», sottolinea l’artista, «che crea l'uccello di fuoco, la figura fantastica nasce dalla volontà di un singolo individuo ed è una sorta di atto di fede». La libertà non consisterebbe dunque nel «superare la barriera che ci nega la simbiosi con l'immateriale, di sentirci fatti anche di materia indefinibile oltre che di carne», bensì nel «ripudiare l'idea stessa che possa esistere una tale barriera o che sia necessario rendersi meritevoli di un esistere più alto». Emblematico è in tal senso lo sportello della gabbia che si apre verso l’interno, nuovo fenomeno di inversione. Un monito a considerare che quello che appare lo spazio dell’affrancamento può in realtà essere lo spazio della reclusione e vice versa. Una visione, è evidente, rigorosamente immanentista.

Stefano Taccone