venerdì 21 gennaio 2011

L'ESPERIENZA DI FRONTIERA – Riflessioni a freddo

Le domande posteci dalla giovane critica e curatrice Sara Errico, che sta conducendo alcune ricerche incentrate sulle pratiche artistiche nello spazio pubblico, ci forniscono l’occasione per tornare a riflettere su quella che è stata la nostra esperienza curatoriale nel territorio di Scampia tra il 2007 ed il 2009.

Sara Errico: Corrispondenze di frontiera è un dialogo con un luogo, un luogo che riassume in sé tutte le meraviglie e le contraddizioni di una città come Napoli. Cosa significa lavorare in uno spazio pubblico in un posto come Scampia, dove il pubblico è in realtà proprietà di tutti? Dove entrare in un parco somiglia molto ad entrare in casa altrui?



Rosaria Iazzetta, Parole dal cemento, 2007-2008.

Pina Capobianco: Meraviglie? Scampia ha ben poche meraviglie, tangibili ed immediatamente visibili. Ben poche; non nessuna.
Quanto al lavorarci è stato particolarmente stimolante per gli artisti, i visitatori e quanti, tra adulti e bambini, hanno collaborato alla creazione di alcune opere e partecipato agli incontri- dibattiti.
L’affluenza del pubblico è stata soddisfacente, apprezzabile; esso, tra l’altro è venuto anche da altri quartieri della città e dalla sua provincia.
Ciò nonostante e nonostante la volontà di uscire dal chiuso dello spazio espositivo di Corrispondenze di frontiera per “invadere” l’aperto dello spazio pubblico del quartiere con Incontri di frontiera – il tutto ha finito per configurarsi come un hortus conclusus. Il che, c’è da dire, è una caratteristica oserei definire genetica, autoctona del quartiere – a me tra l’altro inspiegabile – che finisce con l’essere tipica di qualsiasi attività (sociale, politica, culturale, sportiva, laica, religiosa) e di chiunque a diverso titolo lavora nel e per il quartiere. Le une e gli altri finiscono per configurarsi sempre i s o l a t i proprio come gli edifici di Scampia che sono per l’appunto di fatto e di nome i s o l a t i.



Antonello Segretario, LandEscape, 2008.

Stefano Taccone: In realtà Scampia, oltre a riassumere, per certi versi, «le contraddizioni e le meraviglie di Napoli», è un luogo che per la stragrande maggioranza dei napoletani residenti in altri quartieri (e forse anche per molti abitanti dell’hinterland) si colloca ad una distanza mentale assai maggiore rispetto a quella che fisicamente li separa nei fatti da essa. Molti napoletani, ad esempio, si meravigliano quando scoprono che Scampia è a soli cinque minuti di automobile da Capodimonte. Anche per me, provenendo da tutta un’altra zona della città, alcuni anni fa era così. Inoltre essendo abituato alla tangibile densità abitativa di certi tratti di Fuorigrotta, il quartiere dove ho vissuto gran parte della mia vita, quando camminavo per Scampia mi coglieva una sorta di horror vacui, misto ad una certa ansia connessa alla difficoltà di orientarmi (ci ho messo una vita per imparare le strade) ed alla coscienza di essere nel quartiere simbolo di Gomorra.
Credo che la visione più compiuta ed eloquente di cosa sia Scampia e di cosa significa lavorarci sia stata fornita da Antonello Segretario, autore dell’ultimo intervento di Corrispondenze di frontiera, che subito dopo però, ahimè, ma per motivi che nulla c’entrano con Scampia e con il suo contributo alla rassegna, ha smesso di fare l’artista. Antonello ha descritto il quartiere come una disseminazione di oasi verdeggianti, ma racchiuse in sfere di vetro e dunque non comunicanti tra loro. La risposta a quella sensazione di soggezione permanente, di confusione tra pubblico e privato che tu evochi, sembra essere dunque una sorta di polarizzazione. Il Centro Hurtado, in collaborazione con il quale abbiamo realizzato le due mostre, rappresenta uno di questi poli ove proliferano pratiche per così dire alternative rispetto a quanto offre prevalentemente il contesto: corsi, laboratori, caffè letterario e, con il nostro arrivo, anche mostre di arti visive.

SE: Come più volte tu ripeti, la mostra aveva come materiale il contesto politico, in questo caso di Scampia. Perché lo spazio pubblico non è stato anche il destinatario fisico dei lavori proposti? Perché non intervenire direttamente nel luogo?



Salvatore Manzi, Nascondiglio, 2007.

PC: Uscire dal chiuso dello spazio espositivo all’aperto dello spazio pubblico è stato per noi un secondo passo, realizzato con Incontri di frontiera (2009), prosecuzione naturale di Corrispondenze di frontiera (2007-2008), che ha voluto una maggiore osmosi con il territorio e ha cercato la partecipazione diretta del “contesto” al fare artistico.



Ur5o, Discorso sul silenzio, 2008.

ST: Premesso che quello che tu dici è valido solo per Corrispondenze di frontiera (2007-2008), ma non per Incontri di Frontiera (2009), la mostra successiva, nell’ambito della quale non solo praticavamo lo smarginamento, ma cercavamo anche l’interazione del pubblico, credo che non ci sia una sola risposta, ma diverse, alcune delle quali ho messo a fuoco probabilmente solo adesso, allorché mi è stata posta la domanda.
Innanzi tutto il concetto di “contesto come materiale” deriva, come puoi immaginare, da Hans Haacke, il quale ha realizzato anche importanti interventi negli spazi esterni, ma solo ad un certo punto della sua carriera e comunque senza che questi divenissero mai preponderanti. Per Haacke non si tratta tanto di innestarsi su di un contesto, quanto letteralmente di catturarlo, di integrarlo nell’opera e dunque essa può anche richiedere una certa collocazione di rispetto. In questi termini ragionavo (ed in parte ragiono ancora) anche io. A ciò si aggiungevano naturalmente tutta una serie di difficoltà che definirei di carattere tecnico ed istituzionale: la limitata disponibilità di fondi, la volontà da parte del Centro Hurtado di rendere manifesta la sua partecipazione ed il rischio di dispersione che la collocazione esterna, in un luogo ove si stentano a scorgere delimitazioni e confini, poteva determinare.

SE: Come si riesce a lavorare in un luogo mantenendo una totale indipendenza e senza farsi influenzare da quanto detto, visto e scritto? Come si riesce a non cadere nella retorica comune?



Giacomo Faiella, Caval-Cavia, 2008.

PC: L’antidoto risiede nell’esperienza diretta delle cose, dei luoghi, delle persone. Del quartiere nella fattispecie. Intelligenza, oggettività, profondità, volontà, perché non ci si accontenti semplicemente di far proprio la visione che del quartiere ne danno gli altri con i loro racconti, ma si cerchi di farne una propria di conoscenza, da mettere poi a confronto con quelle che ci vengono proposte e giungere così alle proprie conclusioni e visioni.
In fondo, passando dal particolare al generale, questa pratica andrebbe estesa praticamente a tutto onde evitare di essere semplici contenitori acritici di vissuti altrui.



Katia Alicante, www.nonmeloricordopiù.it, 2009.

ST: Credo che respingere in toto l’influenza di «quanto detto, visto e scritto» sarebbe stato un errore almeno pari all’assumere tutto ciò senza alcuna verifica, oltre che qualcosa di non realmente possibile. L’antidoto, secondo me, risiede proprio in un attitudine all’indagine che si basi sul continuo confronto tra narrazione dei media ed osservazione diretta dei fatti. Del resto molto spesso i media vanno più intesi come oggetto di studio di per se stessi che come veicolo di comprensione di ciò di cui parlano. In altre parole analizzare le modalità con le quali i media (e nei media ci metto, sia chiaro, anche la letteratura, il cinema, le arti visive stesse e persino la musica, che in questo frangente è rappresentata spesso dalle canzoni cosiddette neomelodiche) parlano di Scampia non serve tanto e soltanto a comprendere la realtà del quartiere tout court, quanto a conoscere appunto l’essenza di quelle modalità stesse ed individuare le finalità che ad esse sono sottese.

SE: Il risultato del progetto ha soddisfatto le vostre aspettative a questo riguardo, se mai ce ne fossero state?



Rosa Futuro, Connect the Dots#1, 2009.

PC: Per natura, ahimè, sono piuttosto critica e tendo a vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto. Ragion per cui – ed anche stavolta ho anticipato la risposta nella prima domanda – no. Perché si è trattato di momenti circoscritti, determinati, con una loro fine. Avrei voluto continuità, costanza, progetti a lunghissimo termine, che avrebbero portato poi e magari alla creazione sul territorio di un’officina artistica, intesa come spazio espositivo da un lato e luogo per avvicinare i giovani del quartiere ai linguaggi dell’arte contemporanea- attraverso la creazione di appositi laboratori- dal’altro. Avrei voluto concretamente tracciare servendomi delle arti visive quel limes che ci accompagnati graficamente in questi anni.



Alessandro Ratti, Oggetti di uso sociale, 2009.

ST: In parte sì, in parte no. Per me, ma credo anche per Pina e per tutti gli artisti, è stata un’esperienza estremamente formativa e, per certi versi, unica. Tuttavia il nostro lavoro, se si esclude l’enorme risultato raggiunto da Rosaria Iazzetta, che, dopo tante peripezie, è riuscita ad installare i suoi banner in maniera permanente sui palazzi, non ha rappresentato per il quartiere più di un episodio circoscritto, né, del resto, avrebbe potuto essere altrimenti. Affinché la nostra iniziativa lasciasse il segno in maniera più profonda ci sarebbe stato bisogno di una presenza costante e capillare sul territorio e di strumenti di comunicazione e promozione più efficienti, circostanze che, naturalmente, si sarebbero potute verificare solo se ci fosse stata tutta un’altra disponibilità di fondi.
D’altra parte tra i nostri intenti, oltre a quello di porre in dialogo gli abitanti di Scampia con le arti visive contemporanee (sia pure, naturalmente non quella prodotta da artisti dello star-sistem, bensì da artisti sempre assolutamente radicati nella realtà sociale quotidiana), vi era, vice versa, quello di porre il pubblico dell’arte, quello napoletano ma non solo, a confronto con Scampia. Naturalmente le fasce più “alte” ci hanno per lo più completamente ignorato. Per molti altri però le mostre sono state un’occasione per vedere per la prima volta Scampia ed anche diverse persone che non sono mai venute hanno comunque mostrato interesse verso la nostra operazione. In particolare, devo dire, essa ha riscosso più curiosità nell’ambiente artistico extranapoletano che in quello napoletano.

SE: Secondo voi il contesto utilizzato come soggetto definisce necessariamente il fare artistico in modo politico?



Giuditta Nelli, Osservatori per luoghi impossibili, 2009.

PC: Credo che a definire un fare artistico in senso politico sia la volontà dell’artista in tal senso e/o le letture che di esso se ne vogliono dare. Non è genericamente il contesto, dunque. Certo è che, inevitabilmente, l’opera tradisce certe formazioni e vissuti. Ma, assumere il contesto a materia prima della propria produzione artistica non significa di per sé essere a priori di un certo orientamento politico piuttosto che di un altro. E per essere più chiara, ti faccio un esempio: vedi Impossibile sites Dans la rue di Giuditta Nelli, artista che è stata presente in Incontri di frontiera con questo suo precipuo progetto che porta in giro tra il Sud ed il Nord dell’Italia e l’Africa. I diversi contesti utilizzati non definiscono minimamente il progetto in termini di un preciso orientamento politico. Che sia così emerge chiaramente anche dalle parole di quanti ad esso collaborano.



Rosaria Iazzetta e MaraM, Nozze di piombo, 2009.

ST: Se consideriamo il fatto che qualunque aspetto della vita possiede una dimensione politica, non posso naturalmente che risponderti di sì, ma se, come credo, con l’aggettivo politico intendi un orientamento di segno per così dire progressista (benché anche quest’ultima parola non mi appaia troppo felice) la risposta è un no secco. Dipende infatti dalle modalità attraverso le quali l’artista organizza gli elementi che trae dal contesto. Egli non tradisce la verità dei dati, ma non può esimersi dal fornirne una lettura specifica, che naturalmente avrà origine dal cumulo di conoscenze, emozioni, traumi, idiosincrasie che costituisce il suo retroterra. Una lettura sedicente “neutra, imparziale” non solo non ha nulla di artistico, ma inevitabilmente non denota altro che l’assunzione acritica dei presupposti della cultura dominante, al pari di quanto, come mostra eloquentemente Herbert Marcuse ne L’uomo a una dimensione, fa la filosofia analitica, che pure non riconosce il carattere ideologico dei suoi fondamenti.
Oggi sempre più artisti, specie tra i giovani, cadono nel meramente assertivo, in quanto le loro precipue facoltà non vengono assecondate nella loro necessità di venire fuori nel migliore dei modi, come farebbe una levatrice con una partoriente, ma vengono sopraffatte da un nuovo accademismo che non ha più l’esteriorità pompier di una volta ma non funziona, ad essere sinceri, in maniera troppo differente.