mercoledì 11 settembre 2019

COME IN CIELO COSÌ IN TERRA #2. Noi piantiamo gli alberi e gli alberi piantano noi.


La seconda metà di agosto è funestata ahimè dalle immagini dell’Amazzonia che brucia. L’Europa si indigna sostenendo che l’Amazzonia è di tutti. Il Brasile più conservatore risponde che l’Amazzonia è di sua proprietà. Chi ha ragione? In un’ottica proudhoniana la proprietà è un furto e quindi ha ragione l’Europa. Se però consideriamo che la logica che vuole il disboscamento dell’Amazzonia è tutta occidentale il discorso cambia; tanto è vero che i primi a pagare i danni sono gli indios - espropriati non solo delle loro terre ma della loro identità -, benché non solo. Solo qualche giorno prima parlavo con un noto intellettuale italiano, unanimemente considerato di area “progressista”, proprio della questione del Brasile e degli indios, dal momento che egli frequenta assiduamente da molti anni quel paese. Sosteneva che il problema oggi è la libertà di scelta: il “civile” può diventare indios, ma l’indios ha difficoltà a diventare “civile”, se lo vuole. Fermo restando i problemi di integrazione nella società brasiliana, che senz’altro esistono, gli avvenimenti recenti mi paiono più che mai smentire questa tesi. 


D’altra parte è facile, troppo facile, cercare un capro espiatorio in un politico più o meno potente, lì Bolsonaro, qui Salvini etc. Questi personaggi sono naturalmente ben altro che modelli positivi. Bisogna tuttavia aggiungere almeno due osservazioni. I trattati di libero commercio stipulati proprio in quelle settimane tra il Brasile e i paesi europei, compresi quelli con governi “di sinistra” gettano dubbi sul fatto che l’interesse ad incenerire l’Amazzonia scaturisca solo dalle risorse minerarie che si trovano nel suo ventre, come prevalentemente si ripete. Va tenuto conto dello spazio che tale “pulizia biologica” lascerebbe alle monoculture da importazione. Ma più ancora la questione è dentro di noi, non solo e non tanto fuori. Non siamo noi stessi, con i nostri comportamenti quotidiani indotti da un ambiente organizzato per suscitarli, ad essere gli aguzzini del mondo, ma non della Terra? La Terra sopravvivrebbe, e probabilmente sopravvivrebbe molto meglio, alla nostra estinzione. Siamo noi che non siamo in grado di salvare il nostro mondo sulla Terra, perché stiamo provocando la sua resistenza. Ma tra Terra e mondo a soccombere sarà il mondo. 


«Se l’ umanità fallisce», scrive i qualche decennio fa Joseph Beuys, «la natura avrà una vendetta terribile, una vendetta terribilissima che sarà l’ espressione dell’ intelligenza della natura ed un tentativo di riportare gli esseri umani al lume della ragione attraverso lo strumento della violenza» ed è anche a modo suo ottimista, dal momento che vede la reazione della Terra in termini quasi pedagogici, più come un Diluvio Universale che in quanto tale avrà anche un dopo il Diluvio che come una fine totale – o quasi - dell’umanità o comunque di quella che – peraltro da molto poco tempo rispetto a quanto ci separa dal momento in cui l’uomo è apparso sulla terra - chiamiamo civiltà. Sarà la visione ciclica tipica della concezione antroposofica, che è quella di Beuys, ma sarà anche che decenni fa, quando l’artista di Düsseldorf pronuncia tali parole, la percezione della catastrofe – e la catastrofe stessa – non era così avanzata. Le azioni delle 7000 querce piantate a Kassel in Germania e dei 7000 alberi di specie diverse piantati a Bolognano in Abruzzo divengono così paradigma di un rapporto adeguato tra uomo e natura, di un nuovo patto tra antropologia ed ecologia: «…noi piantiamo gli alberi, e gli alberi piantano noi, poiché apparteniamo l’ uno all’ altro e dobbiamo esistere insieme» è uno dei suoi motti più celebri. Non di meno le azioni di Kassel e Bolognano, chiarisce la sua cruciale sostenitrice, Lucrezia De Domizio Durini, «non costituiscono solo un risultato ecologico, ma principalmente un tentativo di dare forma allo sviluppo e alla coscienza dello spirito, lungo un cammino che porti gli uomini e la Natura a un rapporto di maggiore solidarietà e responsabilità individuale e sociale». 


L’impostazione etico-filosofica del poeta e cineasta cileno Alejandro Jodorowsky è molto prossima a quella di Beuys. Questo spiega anche la sua idea di lanciare una sorta di giornata in riparazione del disastro amazzonico, ove ognuno in ogni parte del mondo si impegni a piantare un albero, al di là della conoscenza del precedente beuysiano, che pure probabilmente non gli è oscuro. I miei amici Enzo Calibé e Daniela Di Maro, due artisti visivi che da lungo tempo portano avanti nel loro lavoro un discorso fortemente impregnato di tematiche ecologiche, così come tentano di conformare la loro vita quotidiana a tutta una serie di principi che vanno in tal senso, mi informano subito dell’appello di Jodorowsky e mi invitano a collaborare con loro per rispondere nel migliore dei modi. La psico-magia non è la mia tazza di the, tuttavia ritengo che come il progetto può essere declinato in diversi modi a seconda dei contesti geografici così può essere inteso anche in modalità differenti sul piano dei fondamenti ideali, fatta salva la circostanza per cui ciò che ci unisce è la salvaguardia dell’ecosistema e la ricerca di un rapporto più sano tra uomo e natura, per quanto ragionando razionalmente sia sempre più difficile pensare il suo futuro in positivo. Del resto è la stessa Daniela ad adattare la chiamata di Jodorowsky al suo progetto Come in cielo così in terra, che ha conosciuto la sua prima tappa nell’ottobre del 2018 al Parco Iris di Padova, ove, con l’aiuto di quattordici partecipanti, ha piantato cinque alberi nella disposizione della costellazione della Lira. Anche le piantumazioni di Come in cielo così in terra #2 prenderanno a riferimento i disegni delle costellazioni. A noi si uniscono repentinamente altri due amici ed artisti visivi, Domenico Di Martino e Rose Selavy, fondatori fin dal 2014 di ORGH Project - nel gergo fumettistico ORGH è l'espressione che indica un dispiacere, il trovarsi in una brutta situazione, una condizione di impotenza che genera rabbia e delusione; l’allusione è ai terreni della fu Campania Felix ai cibi che produce e che consumiamo, all’aria che si respira, ma la prospettiva è di adottare, curare, nutrire questi terreni stessi in cui ci muoviamo con l’amore e la dedizione solitamente riservati all’arte. (1 Cfr. https://www.facebook.com/ORGH-Project-430320617097198/). A tutti noi si aggiunge inoltre un movimento da anni radicato in tutte le regioni del nostro paese come Green Italia, (2 Cfr. http://greenitalia.org/) rappresentata da Carmine Maturo. 


Quasi subito propongo di affiancare alle piantumazioni un reading poetico, chiamando a raccolta poeti napoletani e campani, differenti per età, storia e produzione letteraria, eppure uniti dalla sensibilità verso la questione della salvezza del mondo – notare che non scrivo del pianeta; come già ho accennato in precedenza quello che è davvero a rischio non è il pianeta che troverà modo di rigenerarsi dopo la decimazione, se non l’estinzione dell’umanità, ma il mondo, inteso come dimensione antropica del pianeta Terra stesso – e l’intuizione sensibile, vivente, non meramente intellettualistica, che tra l’uomo e il resto della natura esiste una profonda continuità. Tutto questo discorso, oggi più che mai, potrebbe parere persino una moda ed in parte non è falso. Il greenwashing – nella politica, nell’economia e nella cultura – è qualcosa di sempre più nauseante ed insidioso. Tuttavia non si può non registrare che alcuni dei poeti cui è stato proposto di partecipare a questo evento si sono rifiutati e non si tratta di personaggi noti per negazionismo climatico o altre “amenità”, né a parole hanno mai manifestato disinteresse per i temi dell’ambiente, anzi talvolta hanno messo in evidenza il loro specifico coinvolgimento. Rispettiamo la loro indisponibilità, che può essere dovuta a mille – benché non esplicitati – motivi, ma non rinunciamo a rilevare che se si sono verificati questi rifiuti l’ecologia è ancora meno moda di quanto si possa credere. 


Da Aristotele in poi la pianta possiede una vita esclusivamente vegetativa: essa mancherebbe di sensibilità e di intelletto. Altrettanto noto è il disconoscimento radicale di certe facoltà degli animali da parte del meccanicismo cartesiano. Studi scientifici e filosofici recenti si sono incaricati di smentire tali credenze che costituiscono una importante porzione della controparte ideale della prassi occidentale che ci ha condotto alle soglie della catastrofe, benché nel senso comune esse siano tutt’altro che morbide a morire. La poesia, il suo ritmo, la sua energia – quella del lettore e quella dei significanti, dato che naturalmente pensare che le piante possano comprendere anche i significati ci ricondurrebbe in un antropocentrismo grottesco, propizio per la letteratura fantastica, alla Dino Buzzati, ad esempio, ma inadeguato per stare ben piantati sulla terra come gli alberi, pur non rinunciando all’utopia del cammino verso il cielo – non interferiscono dunque con la felice riuscita della piantumazione? 


La mattina di sabato 7 settembre, ovvero del giorno stabilito, non promette bene. L’ultimo sonno è segnato da una violenta pioggia più tropicale che mediterranea, a ricordarci ancora una volta che il clima sta mutando. Questo ci mette un po’ di cattivo umore; c’è il timore che il maltempo possa rovinare l’evento preparato con tanta cura, sia impedendo la piantumazione e il reading, sia scoraggiando il pubblico, chiamato peraltro non solo a fare da spettatore, ma a partecipare attivamente alla piantumazione arrivando munito di guanti da giardinaggio. Fortunatamente le previsioni dicono che la pioggia sta per cessare e non saranno disattese. 



L’evento ha inizio alle 10,30 presso il giardino del Quartiere Intelligente di Cristina Di Stasio, posto sulle scale di Montesanto a Napoli, uno spazio che si propone esplicitamente di far nascere un “modello” di riferimento di “ecologia urbano”… (3 Cfr. https://www.facebook.com/QuartiereIntelligente/). Dopo l’introduzione di rito – infinita riconoscenza va al vivaio Barretta di Carlo Antonio Barretta, che ha fornito gratuitamente tutti gli alberi necessari! – comincia la messa a dimora del primo albero, un gelso, con tanto di illustrazione orale dei vari passaggi che necessita l’operazione. Esso simboleggerà la Stella polare, nota anche come Stelle dei naviganti giacché fin dall’antichità serviva ad orientarsi nei loro viaggi. Tale scelta suggella quindi l’inizio del lungo ed intenso itinerario previsto. I poeti Costanzo Ioni e Marisa Papa Ruggiero leggono le loro poesie. Il primo propone un magmatico pezzo dal titolo Snack Lo Squartatore, tratto dalla sua raccolta Stive (2017). (4 C. Ioni, Stive, pref. di A. Pietropaoli, Guida editori, Napoli, 2017). Egli, forte della sua consumata attitudine prulilinguistica ci pone di fronte ad un caleidoscopio verbale di tematiche e sollecitazioni che rispecchiano l’incredibile complessità e surrealtà del presente, le sue nevrosi inestirpabili e la sue babeliche contraddizioni. Il suo contributo possiede una accezione profondamente performativa. Le parole che emette si scontrano nella loro medesima assonanza fonetica, creando un parossismo di cortocircuiti. Se la sua poesia è un mondo nella sua poesia sembra esserci il mondo, ma in particolare, in un contesto come quello in cui è chiamato ad esibirsi, è forse il seguente brano a spiccare sugli altri: 

[…] giù giù dalla ruota bucata giù giù per la cannola segata giù giù con l’acqua che quando piove scende a cataratte e quando piove allarga tutto e quando piove porta giù tutto e alberi e automobili e animali e vegetali e mappe catastali e condoni generali giù giù anche senz’acqua che quando non piove è deserto e la terra si spacca e le piante avvizziscono e le autobotti a pagamento ricompaiono giù giù per un sopralluogo e giù giù nel sottosuolo e giù giù con l’assessore e giù giù con l’appaltatore e giù giù con il fognatore perché è un brutto mestiere perché nessuno lo vuole fare perché è quasi come fare il becchino perché in effetti ci trovi di tutto giù giù nei condotti allagati giù giù nei condotti intasati perché quello che scarichiamo non è più un problema nostro e scende tutto sotto e scende tutto a valle e giù giù nel Sarno e in altre fogne a cielo aperto e anche questi alvei puzzolenti non sono un problema nostro perché scorrono da sempre perché nessuno ha provveduto prima perché prima o poi li nasconderemo con un bel tappeto di cemento […] 



Seguono i versi - parimenti sostenuti qualitativamente, ma molto lontani dalle atmosfere di Ioni – della Papa Ruggiero, introdotti da un suo accorato discorso sulla sofferenza della natura con la quale dimostra una straordinaria empatia. Non è un caso che i componimenti da lei proposti costituiscano una piccola anticipazione di una silloge di prossima pubblicazione ispirata all’ecosistema ed ai suoi malanni: 

[…] Le antiche torbe, le millenarie catene arboree 
sono tizzoni esplosi nel fondo del respiro. 
- É ora, è adesso che accade - 
Non c'è tempo, vedi, per le prove di scena. 
L'orsa polare impazzisce nel cerchio vuoto. 
L'uccello caduto lascia il volo nell'aria. 

O ancora: 

[…] Tu ora sai che per ogni grattacielo di ghiaccio   
scivolato nel nulla 
per ogni creatura viva divorata dal fuoco 
si è spenta una stella! 


Entro le 12,30 ci spostiamo a Scampia, ove sorge Pangea, il giardino dei cinque continenti e della nonviolenza, inaugurato l’11 maggio scorso dopo quattro anni di intenso lavoro condotto dai volontari della “Rete Pangea” e finanziato in gran parte con i fondi otto per mille delle Chiese metodiste e valdesi. (5 Cfr. M. D’Auria, Scampia. Inaugurato il giardino dei cinque continenti e della nonviolenza, in “Riforma”, Torino, 13 maggio 2019; https://riforma.it/it/articolo/2019/05/13/scampiainaugurato-il-giardino-dei-cinque-continenti-e-della-nonviolenza). Così, dove prima erano site sei discariche, ricorda Rosario D'Angelo, autentica anima dell’associazione, ora sorge un giardino ripartito in maniera tale da simboleggiare i cinque continenti e disposto alla trasmissione di messaggi di pace. Qui si piantano gli alberi seguendo la costellazione di Cassiopea. 



Enza Silvestrini si infortuna all’ultimo minuto, ma invia questo distico, tratto dalla raccolta Controtempo (2018): (6 E. Silvestrini, Controtempo, Oedipus, Napoli, 2018). 

la primavera fiorisce senza tregua 
nei pochi vasi lasciati a mendicare 

Sembra evidenziare, in una radicale sintesi, il contrasto tra l’aridità dello spirito umano, che confina la natura in pochi vasi semi-obliati e la forza prorompente della bella stagione, che non manca di risplendere, anche entro confini angusti ed in mancanza di una cura autentica. 



Paola Nasti attinge alla sua raccolta Poesie dello Yak impigliato per un pelo della coda (2019). (7 P. Nasti, Poesie dello Yak impigliato per un pelo della coda, Eureka edizioni, Corato, 2019). La sua poetica si alimenta di una lunga consuetudine con il pensiero e le pratiche meditative dell’Estremo Oriente, specie del buddismo. La visione della natura e dell’esistente che emerge dai suoi versi è pertanto intrinsecamente legata a tali esperienze: 

sottopongo il corpo alla luce la luce 
della stella che lo irrora 
penetra fino all’osso, lo risana 
ne rinsalda le parti senza voce 

tutto formicola lì sotto 
ne avverto il pigolio cellulare 
traccia che va verso il silenzio dove 

la roccia si trasforma nella sabbia 
lava trascorre verso il lago di cenere 
l’acqua in direzione del cielo 
il cielo si fa fiume e scorre verso il mare  
il mare sottoposto alla notte 
lo chiude nell’abbraccio che non sana 

né voce né silenzio - tutto brama 
a una parte nascosta, ad un mistero dove 
non c’è vita né morte né principio né fine 


Ognuna delle cinque porzioni del giardino è popolata dalle rispettive specie endemiche dei cinque continenti. A Marco de Gemmis tocca l’Africa, tradizionalmente riconosciuta come “culla dell’umanità”. Da qui la proposta di un componimento come Prima che tutto si facesse pieno di dèi, tratto dall’antologia Alter ego. Poeti al MANN (2011), (8 M. De Gemmis, F. Tricarico (a cura di), Alter ego. Poeti al MANN, Museo Archeologico Nazionale, Napoli, 16 luglio-25 ottobre 2011, Arte’m, Napoli 2012) documentante una manifestazione tenuta appunto al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, curata dallo stesso De Gemmis e da Ferdinando Tricarico, nell’ambito della quale quaranta poeti contemporanei sono stati chiamati ad individuare, nella letteratura classica, ciascuno il proprio alter ego e a lasciarsi da lui – o, in qualche caso, da lei – liberamente ispirare. In quella occasione De Gemmis ha scelto Esiodo, colui al quale le Muse «avevano affidato sull’Elicona il compito di trasmetterci, con la Teogonia, la verità». A fronte del discorso sulla catastrofe ecologica odierna quello di De Gemmis che è riflessione immaginifica sul prima del prima, prima dell’uomo e di tutti gli esseri, compresi gli dei, sull’anti-tempo del Caos, diviene una sorta di controcanto: 

egli scrive per primo l’inizio, 
dice la prima su cui ogni altra 
storia crebbe e cresce, espone 
l’alfa perentorio delle cose 
poi scatenate a divenire e da lui 
in ordinata successione elencate: 
nell’ordine senza governi in cui 
quel tempo remoto le faceva, 
prima che arrembanti gli dèi 
se ne potessero appropriare […] 

Tutta la sua visione pare pervasa da un radicale scetticismo verso l’antropocentrismo: 

[…] poi qual genere di luci e suoni,
se e quali i colori, se una mescola 
di materia in via di formazione, 
e a quale velocità le cose, se cose 
in un vortice prese assieme, chissà 
se già in mezzo a loro l’acqua, se 
e quanto immane e lungo intervallo 
fra il vuoto e il pieno o tutto invece 
in uno schiocco solo: molto prima   
che esistessero semi e sangue 
o il respiro eppure tanto vivo 
che di noi non c’era alcun bisogno […] 


Al summenzionato Tricarico – anch’egli fisicamente indisponibile all’ultimo momento e quindi indegnamente sostituito nella lettura della sua poesia dal sottoscritto – tocca l’Oceania per una poesia che si intitola Lampedusa (2011-2018) ed evoca naturalmente, attraverso il suo tipico scoppiettante, graffiante, neobarocco linguaggio le ben note tragedie dei migranti nel Mediterraneo. Cosa c’entra Lampedusa con l’Oceania? Non penso tanto al fatto che entrambe sono isole, malgrado l’enorme squilibrio dimensionale, bensì alla circostanza per cui se il Mediterraneo è luogo di conflitti etno-culturali, anche la civilissima Australia ha avuto fin dall’inizio dell’invasione degli europei grossi problemi in questo senso, benché raramente compaia nei titoli dei telegiornali. La macchia nera sull’anima dell’Australia bianca risponde al nome della questione aborigena. Ecco alcuni brani: 

Come s'accrocchiano ste carni 
dai colori cafardi 
sta babele di caini sti casini d' abele 
come s'acconciano sti sconci 
cenci dell'inconscio 
senza troppe ciance 
sti sogni in bianco e negrogiallo 
sta scacchiera d'arlecchini 
sto nascondino di clandestini 
come s'incrociano sti bastardi 
dal pedigree che puzza 
sti olezzi di creoli 
ste fichesecche del deserto secche 
st' ibridi da brividi sti meticci posticci 
ste sgnacchere rumene fottimariti 
di mogli che non fottono più […] 

E ancora, con la chiara volontà di agganciarsi ad un’attualità – la poesia risale al 2011, ma gli ultimi versi sono aggiunti nel 2018 - che proprio in questi giorni pare già leggermente inattuale: 

[…] Divello incollo ed espello 
li aiuto a morire in casa loro 
a Lampedusa 
promessa di Musa 
entrano prima gli italiani 
nella casa chiusa. 


Il gran finale è però previsto alle 17 alla Masseria Antonio Esposito Ferraioli di Afragola. Gestita da Giovanni Russo con la preziosa collaborazione di Daniela Del Mondo, si tratta di un bene confiscato alla criminalità – porta il nome del cuoco, scout e sindacalista della CGIL, vittima innocente della camorra – ed assegnato dal 1 marzo 2019 a una rete di cooperative, associazioni e organizzazioni. (9 Cfr. https://www.masseriaferraioli.it/). Qui si piantano alberi da frutto: limoni, un pesco, un melo, un pero e si assume come traccia la costellazione dell’Orsa Minore. La perfetta pianura della masseria contrasta con la quinta costituita dal Vesuvio e dal Monte Somma, che si scorgono nitidi, in tutte le loro pieghettature. Piantato il primo albero Marco Amore prende a recitare – un po’ fuori stagione! - Freddo dicembre, tratto dalla sua raccolta d’esordio, Farragine (2019), (10 M. Amore, Farragine, pref. di G. Frene, Samuele editore, Fanna, 2019) un componimento pieno di immagini evocative, frutto di un uomo che, malgrado la sua giovinezza, sente ancora la natura, i suoi ritmi, il suo mutare, le sue diverse consistenze, benché le sue manifestazioni si intreccino costantemente con elementi antropici, pur tutt’altro che invasivi. Del resto egli non vive quotidianamente la metropoli, ma quel piccolo paesino tra Benevento ed Avellino che è Rotondi: 

Il vento piange sulla strada di casa 
mentre le stelle origliano il nostro oscuro segreto da uno 
                                                                spiraglio nel solaio 

l’apice del frangizolle attende di smorzare 
il rostro per agguantare l’erpice a dischi 

il sole sulla lista della spesa 
dei morti, che inseguono la stella a nord-est 

una carezza al cuscino e un buon caffè antimeridiano 
pestato nel mortaio del mondo 

specchi come laghi ghiacciati: 
la luna che sorge si riflette […] 


Alfonsina Caterino, approssimandosi in questo alla Papa Ruggiero, malgrado la diversità di linguaggio, riprende il filo di un discorso più chiaramente legato alle minacce inflitte all’ecosistema. Probabilmente rispetto alla collega si nota anche una maggiore esplicitazione della dimensione politica. La sua introduzione prima della poesia, scritta per l’occasione, trasuda di passione e dolore autentici. Quindi comincia a leggere la sua inedita, Qui, ove il titolo sta a rimarcare la fissazione su un determinato luogo e tempo. Qui è infatti 

dove l’Amazzonia ha riempito i cieli 
di zaffiri 
e gli attimi indugiano esultanza 
la luce insostenibile 
le macchine sguinzagliate dietro il fascino 
orribile della morte, 
stanno trascinando la strada    
       lungo ghiacciai e selfi incappucciati […] 

E più avanti: 

[…] Lungo il passaggio 

ogni verità è diversa 
da qui, notte superata 
dagli infiniti luoghi senza ragione 
che illuminano valore razionale 
del viaggio 
la condizione fragile dell’appagamento 
provvisorio 
commentabile fianco 
mai dismesso al silenzio 
che scorge fiera sguincia 
i draghi inghiottiti 
       dalle autostrade […] 


Tutta la poesia di Lia Manzi è non di rado ugualmente pervasa da angoscia e sofferenza, ma in lei spicca sempre una leggerezza speranzosa, uccelli vari, le farfalle, tanti i piccoli animali volatili la popolano costantemente facendosi metafore di felice librare dell’anima, in una costante circolarità tra moti dell’interiorità umana e dinamismo naturale. Farfalla, tratta dalla raccolta Il canto di un nido (2018), (11 L. Manzi, Il canto di un nido, pref. di L. Chianese, Iod edizioni, Casalnuovo di Napoli, 2018) racconta appunto la metamorfosi di un bruco fino alla sua trasformazione in farfalla matura: 

Un Albero mi ha chiamata a sé 
per la mia Metamorfosi 
“Vieni, poni qui la tua Crisalide, 
non temere, io ti proteggerò […] 

finché 

[…] Finalmente spiccai il primo volo 
Non mangiavo più foglie come quando fui un Bruco 
Succhiavo adesso nettare dei fiori e mi accoppiavo. 


Lia ha un bimbo di dodici anni. Benché ci siano con lui cugine, zii e nonno, oltre che la madre, arriva alla masseria alquanto annoiato. Pare preferisse rimanere a casa davanti al videogioco. Domando quanto frequenta altri ragazzini della sua età e lo zio mi dice che ormai ci si frequenta poco tra ragazzini, giacché i gingilli telematici portano ad una sorta di para-autisticizzazione; un po’ ci si isola volontariamente e un po’ anche volendo non è facile trovare coetanei con i quali stringere rapporti profondi. Ad un tratto lo vedo però felicemente cooptato nell’atto di piantumazione: armato di vanga    estrae grossi mucchi di terra. Penso che ormai sono diventato un po’ schifiltoso, per cui ho provato a Scampia a dare qualche colpo di vanga ma non mi riusciva bene; più che altro non mi andava di sporcarmi. Poi ricordo però che a dodici anni mi sarebbe piaciuto molto usare una vanga, ma probabilmente i miei genitori me l’avrebbero tolta di mano: avrebbero detto che mi faccio male, che non sono buono e che – appunto – mi sporco! Da qui il mio sviluppo iperintellettualistico, alquanto squilibrato. Mi confronto con più di una persona della mia età e mi dicono che per loro sarebbe stata la stessa cosa, che c’è stato un tempo in cui i genitori – pressappoco i baby boemer, padri e madri, sempre pressappoco, della generazione X – ritenevano quasi infamate per il loro figlio un lavoro manuale e peggio ancora rurale, per cui tendevano ad allontanarlo a tutti i costi, anche per gioco. Importava solo andare bene a scuola, saper leggere e conoscere le tabelline a memoria… Oggi probabilmente – e fortunatamente! – questa tendenza è andata scemando… Oggi i problemi sono altri… Un bambino con una vanga in mano piuttosto che con uno smartphone per me è una consolazione degli occhi e dello spirito! 


Infine una gentile signora si offre di fare le veci di Ketti Martino – anch’ella assente fisicamente per causa di forza maggiore - leggendo la sua Non ci è dato sapere, che suona come meno vivida e più eterea rispetto a tanti altri contributi ascoltati durante la giornata. Leggero disincanto ed un pizzico di utopia si intrecciano in un’area soffusa e sospesa, ove regna un quid di mistero e le urgenze ambientali, che pure l’autrice ha molto a cuore, non sono individuabili se non come un sottotesto implicito nella sua poesia, un inedito del 2017: 

Non ci è dato sapere, sul luccicante asfalto
 nelle lacrime di vetro, se le presenze sconosciute, 
a mezzanotte, nella frenesia di anime, 
hanno delle tempeste d’acqua solo amore 
oppure altro. 
Se il giro nasce dove l’occhio ha l’umano credo 
e se la lotta del pensiero scava strade in fondo alle pupille. […] 

E ancora: 

[…] Nel vuoto spazio stanno le attese
 e segni d’altri come cicatrici dell’ignoto: 
con la vena gonfia sulla fronte, nella nuda esposizione, 
siamo ad aspettare (a desiderare) mondi 
senza dover scagliare frecce 
senza addolorare chi rimane. 
Ma è notte ancora, qui, lo sappiamo. 


L’intensa giornata si chiude con una lauta merenda contadina, a base di prodotti rigorosamente coltivati a chilometro zero. È il momento in cui la convivialità trova il suo trionfo. Il momento in cui, nel farsi crepuscolo, si stemperano tutte le tensioni e si tenta di superare la divisione dei ruoli, contaminandosi tra poeti e massari, organizzatori e spettatori-cooperatori, amici di vecchia data e gente conosciuta solo da poche ore, se non pochi minuti. 

Stefano Taccone