La seconda metà di agosto è funestata ahimè dalle immagini
dell’Amazzonia che brucia. L’Europa si indigna sostenendo che l’Amazzonia è di
tutti. Il Brasile più conservatore risponde che l’Amazzonia è di sua proprietà.
Chi ha ragione? In un’ottica proudhoniana la proprietà è un furto e quindi ha
ragione l’Europa. Se però consideriamo che la logica che vuole il
disboscamento dell’Amazzonia è tutta occidentale il discorso cambia; tanto è
vero che i primi a pagare i danni sono gli indios - espropriati non solo delle loro
terre ma della loro identità -, benché non solo. Solo qualche giorno prima
parlavo con un noto intellettuale italiano, unanimemente considerato di area
“progressista”, proprio della questione del Brasile e degli indios, dal momento
che egli frequenta assiduamente da molti anni quel paese. Sosteneva che il
problema oggi è la libertà di scelta: il “civile” può diventare indios, ma l’indios
ha difficoltà a diventare “civile”, se lo vuole. Fermo restando i problemi di
integrazione nella società brasiliana, che senz’altro esistono, gli avvenimenti
recenti mi paiono più che mai smentire questa tesi.
D’altra parte è facile, troppo facile, cercare un capro espiatorio in un
politico più o meno potente, lì Bolsonaro, qui Salvini etc. Questi personaggi
sono naturalmente ben altro che modelli positivi. Bisogna tuttavia aggiungere
almeno due osservazioni. I trattati di libero commercio stipulati proprio in
quelle settimane tra il Brasile e i paesi europei, compresi quelli con governi “di
sinistra” gettano dubbi sul fatto che l’interesse ad incenerire l’Amazzonia
scaturisca solo dalle risorse minerarie che si trovano nel suo ventre, come
prevalentemente si ripete. Va tenuto conto dello spazio che tale “pulizia
biologica” lascerebbe alle monoculture da importazione. Ma più ancora la
questione è dentro di noi, non solo e non tanto fuori. Non siamo noi stessi, con
i nostri comportamenti quotidiani indotti da un ambiente organizzato per
suscitarli, ad essere gli aguzzini del mondo, ma non della Terra? La Terra
sopravvivrebbe, e probabilmente sopravvivrebbe molto meglio, alla nostra
estinzione. Siamo noi che non siamo in grado di salvare il nostro mondo sulla
Terra, perché stiamo provocando la sua resistenza. Ma tra Terra e mondo a
soccombere sarà il mondo.
«Se l’ umanità fallisce», scrive i qualche decennio fa Joseph Beuys, «la
natura avrà una vendetta terribile, una vendetta terribilissima che sarà l’
espressione dell’ intelligenza della natura ed un tentativo di riportare gli esseri
umani al lume della ragione attraverso lo strumento della violenza» ed è anche
a modo suo ottimista, dal momento che vede la reazione della Terra in termini
quasi pedagogici, più come un Diluvio Universale che in quanto tale avrà anche
un dopo il Diluvio che come una fine totale – o quasi - dell’umanità o
comunque di quella che – peraltro da molto poco tempo rispetto a quanto ci
separa dal momento in cui l’uomo è apparso sulla terra - chiamiamo civiltà.
Sarà la visione ciclica tipica della concezione antroposofica, che è quella di
Beuys, ma sarà anche che decenni fa, quando l’artista di Düsseldorf pronuncia
tali parole, la percezione della catastrofe – e la catastrofe stessa – non era così
avanzata. Le azioni delle 7000 querce piantate a Kassel in Germania e dei
7000 alberi di specie diverse piantati a Bolognano in Abruzzo divengono così
paradigma di un rapporto adeguato tra uomo e natura, di un nuovo patto tra
antropologia ed ecologia: «…noi piantiamo gli alberi, e gli alberi piantano noi,
poiché apparteniamo l’ uno all’ altro e dobbiamo esistere insieme» è uno dei
suoi motti più celebri. Non di meno le azioni di Kassel e Bolognano, chiarisce la
sua cruciale sostenitrice, Lucrezia De Domizio Durini, «non costituiscono solo
un risultato ecologico, ma principalmente un tentativo di dare forma allo
sviluppo e alla coscienza dello spirito, lungo un cammino che porti gli uomini e
la Natura a un rapporto di maggiore solidarietà e responsabilità individuale e
sociale».
L’impostazione etico-filosofica del poeta e cineasta cileno Alejandro
Jodorowsky è molto prossima a quella di Beuys. Questo spiega anche la sua
idea di lanciare una sorta di giornata in riparazione del disastro amazzonico,
ove ognuno in ogni parte del mondo si impegni a piantare un albero, al di là
della conoscenza del precedente beuysiano, che pure probabilmente non gli è
oscuro. I miei amici Enzo Calibé e Daniela Di Maro, due artisti visivi che da
lungo tempo portano avanti nel loro lavoro un discorso fortemente impregnato
di tematiche ecologiche, così come tentano di conformare la loro vita
quotidiana a tutta una serie di principi che vanno in tal senso, mi informano
subito dell’appello di Jodorowsky e mi invitano a collaborare con loro per
rispondere nel migliore dei modi. La psico-magia non è la mia tazza di the,
tuttavia ritengo che come il progetto può essere declinato in diversi modi a
seconda dei contesti geografici così può essere inteso anche in modalità
differenti sul piano dei fondamenti ideali, fatta salva la circostanza per cui ciò
che ci unisce è la salvaguardia dell’ecosistema e la ricerca di un rapporto più
sano tra uomo e natura, per quanto ragionando razionalmente sia sempre più
difficile pensare il suo futuro in positivo. Del resto è la stessa Daniela ad
adattare la chiamata di Jodorowsky al suo progetto Come in cielo così in terra,
che ha conosciuto la sua prima tappa nell’ottobre del 2018 al Parco Iris di
Padova, ove, con l’aiuto di quattordici partecipanti, ha piantato cinque alberi
nella disposizione della costellazione della Lira. Anche le piantumazioni di Come
in cielo così in terra #2 prenderanno a riferimento i disegni delle costellazioni.
A noi si uniscono repentinamente altri due amici ed artisti visivi, Domenico Di
Martino e Rose Selavy, fondatori fin dal 2014 di ORGH Project - nel gergo
fumettistico ORGH è l'espressione che indica un dispiacere, il trovarsi in una
brutta situazione, una condizione di impotenza che genera rabbia e delusione;
l’allusione è ai terreni della fu Campania Felix ai cibi che produce e che
consumiamo, all’aria che si respira, ma la prospettiva è di adottare, curare,
nutrire questi terreni stessi in cui ci muoviamo con l’amore e la dedizione
solitamente riservati all’arte. (1 Cfr. https://www.facebook.com/ORGH-Project-430320617097198/). A tutti noi si aggiunge inoltre un movimento da
anni radicato in tutte le regioni del nostro paese come Green Italia, (2 Cfr. http://greenitalia.org/) rappresentata da Carmine Maturo.
Quasi subito propongo di affiancare alle piantumazioni un reading
poetico, chiamando a raccolta poeti napoletani e campani, differenti per età,
storia e produzione letteraria, eppure uniti dalla sensibilità verso la questione
della salvezza del mondo – notare che non scrivo del pianeta; come già ho accennato in precedenza quello che è davvero a rischio non è il pianeta che
troverà modo di rigenerarsi dopo la decimazione, se non l’estinzione
dell’umanità, ma il mondo, inteso come dimensione antropica del pianeta Terra
stesso – e l’intuizione sensibile, vivente, non meramente intellettualistica, che
tra l’uomo e il resto della natura esiste una profonda continuità. Tutto questo
discorso, oggi più che mai, potrebbe parere persino una moda ed in parte non
è falso. Il greenwashing – nella politica, nell’economia e nella cultura – è
qualcosa di sempre più nauseante ed insidioso. Tuttavia non si può non
registrare che alcuni dei poeti cui è stato proposto di partecipare a questo
evento si sono rifiutati e non si tratta di personaggi noti per negazionismo
climatico o altre “amenità”, né a parole hanno mai manifestato disinteresse per
i temi dell’ambiente, anzi talvolta hanno messo in evidenza il loro specifico
coinvolgimento. Rispettiamo la loro indisponibilità, che può essere dovuta a
mille – benché non esplicitati – motivi, ma non rinunciamo a rilevare che se si
sono verificati questi rifiuti l’ecologia è ancora meno moda di quanto si possa
credere.
Da Aristotele in poi la pianta possiede una vita esclusivamente
vegetativa: essa mancherebbe di sensibilità e di intelletto. Altrettanto noto è il
disconoscimento radicale di certe facoltà degli animali da parte del
meccanicismo cartesiano. Studi scientifici e filosofici recenti si sono incaricati di
smentire tali credenze che costituiscono una importante porzione della
controparte ideale della prassi occidentale che ci ha condotto alle soglie della
catastrofe, benché nel senso comune esse siano tutt’altro che morbide a
morire. La poesia, il suo ritmo, la sua energia – quella del lettore e quella dei
significanti, dato che naturalmente pensare che le piante possano comprendere
anche i significati ci ricondurrebbe in un antropocentrismo grottesco, propizio
per la letteratura fantastica, alla Dino Buzzati, ad esempio, ma inadeguato per
stare ben piantati sulla terra come gli alberi, pur non rinunciando all’utopia del
cammino verso il cielo – non interferiscono dunque con la felice riuscita della
piantumazione?
La mattina di sabato 7 settembre, ovvero del giorno stabilito, non
promette bene. L’ultimo sonno è segnato da una violenta pioggia più tropicale
che mediterranea, a ricordarci ancora una volta che il clima sta mutando.
Questo ci mette un po’ di cattivo umore; c’è il timore che il maltempo possa
rovinare l’evento preparato con tanta cura, sia impedendo la piantumazione e il
reading, sia scoraggiando il pubblico, chiamato peraltro non solo a fare da
spettatore, ma a partecipare attivamente alla piantumazione arrivando munito
di guanti da giardinaggio. Fortunatamente le previsioni dicono che la pioggia sta
per cessare e non saranno disattese.
L’evento ha inizio alle 10,30 presso il giardino del Quartiere Intelligente
di Cristina Di Stasio, posto sulle scale di Montesanto a Napoli, uno spazio che si
propone esplicitamente di far nascere un “modello” di riferimento di “ecologia
urbano”… (3 Cfr. https://www.facebook.com/QuartiereIntelligente/). Dopo l’introduzione di rito – infinita riconoscenza va al vivaio
Barretta di Carlo Antonio Barretta, che ha fornito gratuitamente tutti gli alberi
necessari! – comincia la messa a dimora del primo albero, un gelso, con tanto
di illustrazione orale dei vari passaggi che necessita l’operazione. Esso
simboleggerà la Stella polare, nota anche come Stelle dei naviganti giacché fin dall’antichità serviva ad orientarsi nei loro viaggi. Tale scelta suggella quindi
l’inizio del lungo ed intenso itinerario previsto. I poeti Costanzo Ioni e Marisa
Papa Ruggiero leggono le loro poesie. Il primo propone un magmatico pezzo
dal titolo Snack Lo Squartatore, tratto dalla sua raccolta Stive (2017). (4 C. Ioni, Stive, pref. di A. Pietropaoli, Guida editori, Napoli, 2017). Egli,
forte della sua consumata attitudine prulilinguistica ci pone di fronte ad un
caleidoscopio verbale di tematiche e sollecitazioni che rispecchiano l’incredibile
complessità e surrealtà del presente, le sue nevrosi inestirpabili e la sue
babeliche contraddizioni. Il suo contributo possiede una accezione
profondamente performativa. Le parole che emette si scontrano nella loro
medesima assonanza fonetica, creando un parossismo di cortocircuiti. Se la
sua poesia è un mondo nella sua poesia sembra esserci il mondo, ma in
particolare, in un contesto come quello in cui è chiamato ad esibirsi, è forse il
seguente brano a spiccare sugli altri:
[…] giù giù dalla ruota bucata giù giù per la cannola segata giù giù con l’acqua
che quando piove scende a cataratte e quando piove allarga tutto e quando
piove porta giù tutto e alberi e automobili e animali e vegetali e mappe
catastali e condoni generali giù giù anche senz’acqua che quando non piove è
deserto e la terra si spacca e le piante avvizziscono e le autobotti a pagamento
ricompaiono giù giù per un sopralluogo e giù giù nel sottosuolo e giù giù con
l’assessore e giù giù con l’appaltatore e giù giù con il fognatore perché è un
brutto mestiere perché nessuno lo vuole fare perché è quasi come fare il
becchino perché in effetti ci trovi di tutto giù giù nei condotti allagati giù giù
nei condotti intasati perché quello che scarichiamo non è più un problema
nostro e scende tutto sotto e scende tutto a valle e giù giù nel Sarno e in altre
fogne a cielo aperto e anche questi alvei puzzolenti non sono un problema
nostro perché scorrono da sempre perché nessuno ha provveduto prima
perché prima o poi li nasconderemo con un bel tappeto di cemento […]
Seguono i versi - parimenti sostenuti qualitativamente, ma molto lontani
dalle atmosfere di Ioni – della Papa Ruggiero, introdotti da un suo accorato
discorso sulla sofferenza della natura con la quale dimostra una straordinaria
empatia. Non è un caso che i componimenti da lei proposti costituiscano una
piccola anticipazione di una silloge di prossima pubblicazione ispirata
all’ecosistema ed ai suoi malanni:
[…] Le antiche torbe, le millenarie catene arboree
sono tizzoni esplosi nel fondo del respiro.
- É ora, è adesso che accade -
Non c'è tempo, vedi, per le prove di scena.
L'orsa polare impazzisce nel cerchio vuoto.
L'uccello caduto lascia il volo nell'aria.
O ancora:
[…] Tu ora sai che per ogni grattacielo di ghiaccio
scivolato nel nulla
per ogni creatura viva divorata dal fuoco
si è spenta una stella!
Entro le 12,30 ci spostiamo a Scampia, ove sorge Pangea, il giardino dei
cinque continenti e della nonviolenza, inaugurato l’11 maggio scorso dopo
quattro anni di intenso lavoro condotto dai volontari della “Rete Pangea” e
finanziato in gran parte con i fondi otto per mille delle Chiese metodiste e
valdesi. (5 Cfr. M. D’Auria, Scampia. Inaugurato il giardino dei cinque continenti e della nonviolenza, in “Riforma”, Torino, 13 maggio 2019; https://riforma.it/it/articolo/2019/05/13/scampiainaugurato-il-giardino-dei-cinque-continenti-e-della-nonviolenza). Così, dove prima erano site sei discariche, ricorda Rosario D'Angelo,
autentica anima dell’associazione, ora sorge un giardino ripartito in maniera
tale da simboleggiare i cinque continenti e disposto alla trasmissione di
messaggi di pace. Qui si piantano gli alberi seguendo la costellazione di
Cassiopea.
Enza Silvestrini si infortuna all’ultimo minuto, ma invia questo distico,
tratto dalla raccolta Controtempo (2018): (6 E. Silvestrini, Controtempo, Oedipus, Napoli, 2018).
la primavera fiorisce senza tregua
nei pochi vasi lasciati a mendicare
Sembra evidenziare, in una radicale sintesi, il contrasto tra l’aridità dello spirito
umano, che confina la natura in pochi vasi semi-obliati e la forza prorompente
della bella stagione, che non manca di risplendere, anche entro confini angusti
ed in mancanza di una cura autentica.
Paola Nasti attinge alla sua raccolta Poesie dello Yak impigliato per un pelo della coda (2019). (7 P. Nasti, Poesie dello Yak impigliato per un pelo della coda, Eureka edizioni, Corato, 2019). La sua poetica si alimenta di una lunga consuetudine
con il pensiero e le pratiche meditative dell’Estremo Oriente, specie del
buddismo. La visione della natura e dell’esistente che emerge dai suoi versi è
pertanto intrinsecamente legata a tali esperienze:
sottopongo il corpo alla luce
la luce
della stella che lo irrora
penetra fino all’osso, lo risana
ne rinsalda le parti senza voce
tutto formicola lì sotto
ne avverto il pigolio cellulare
traccia che va verso il silenzio dove
la roccia si trasforma nella sabbia
lava trascorre verso il lago di cenere
l’acqua in direzione del cielo
il cielo si fa fiume e scorre verso il mare
il mare sottoposto alla notte
lo chiude nell’abbraccio che non sana
né voce né silenzio - tutto brama
a una parte nascosta, ad un mistero dove
non c’è vita né morte né principio né fine
Ognuna delle cinque porzioni del giardino è popolata dalle rispettive
specie endemiche dei cinque continenti. A Marco de Gemmis tocca l’Africa,
tradizionalmente riconosciuta come “culla dell’umanità”. Da qui la proposta di
un componimento come Prima che tutto si facesse pieno di dèi, tratto
dall’antologia Alter ego. Poeti al MANN (2011), (8 M. De Gemmis, F. Tricarico (a cura di), Alter ego. Poeti al MANN, Museo Archeologico Nazionale, Napoli, 16 luglio-25 ottobre 2011, Arte’m, Napoli 2012) documentante una
manifestazione tenuta appunto al Museo Archeologico Nazionale di Napoli,
curata dallo stesso De Gemmis e da Ferdinando Tricarico, nell’ambito della
quale quaranta poeti contemporanei sono stati chiamati ad individuare, nella
letteratura classica, ciascuno il proprio alter ego e a lasciarsi da lui – o, in
qualche caso, da lei – liberamente ispirare. In quella occasione De Gemmis ha
scelto Esiodo, colui al quale le Muse «avevano affidato sull’Elicona il compito di
trasmetterci, con la Teogonia, la verità». A fronte del discorso sulla catastrofe
ecologica odierna quello di De Gemmis che è riflessione immaginifica sul prima
del prima, prima dell’uomo e di tutti gli esseri, compresi gli dei, sull’anti-tempo
del Caos, diviene una sorta di controcanto:
egli scrive per primo l’inizio,
dice la prima su cui ogni altra
storia crebbe e cresce, espone
l’alfa perentorio delle cose
poi scatenate a divenire e da lui
in ordinata successione elencate:
nell’ordine senza governi in cui
quel tempo remoto le faceva,
prima che arrembanti gli dèi
se ne potessero appropriare […]
Tutta la sua visione pare pervasa da un radicale scetticismo verso
l’antropocentrismo:
[…] poi qual genere di luci e suoni,
se e quali i colori, se una mescola
di materia in via di formazione,
e a quale velocità le cose, se cose
in un vortice prese assieme, chissà
se già in mezzo a loro l’acqua, se
e quanto immane e lungo intervallo
fra il vuoto e il pieno o tutto invece
in uno schiocco solo: molto prima
che esistessero semi e sangue
o il respiro eppure tanto vivo
che di noi non c’era alcun bisogno […]
Al summenzionato Tricarico – anch’egli fisicamente indisponibile
all’ultimo momento e quindi indegnamente sostituito nella lettura della sua
poesia dal sottoscritto – tocca l’Oceania per una poesia che si intitola
Lampedusa (2011-2018) ed evoca naturalmente, attraverso il suo tipico
scoppiettante, graffiante, neobarocco linguaggio le ben note tragedie dei
migranti nel Mediterraneo. Cosa c’entra Lampedusa con l’Oceania? Non penso
tanto al fatto che entrambe sono isole, malgrado l’enorme squilibrio
dimensionale, bensì alla circostanza per cui se il Mediterraneo è luogo di
conflitti etno-culturali, anche la civilissima Australia ha avuto fin dall’inizio
dell’invasione degli europei grossi problemi in questo senso, benché raramente
compaia nei titoli dei telegiornali. La macchia nera sull’anima dell’Australia
bianca risponde al nome della questione aborigena. Ecco alcuni brani:
Come s'accrocchiano ste carni
dai colori cafardi
sta babele di caini sti casini d' abele
come s'acconciano sti sconci
cenci dell'inconscio
senza troppe ciance
sti sogni in bianco e negrogiallo
sta scacchiera d'arlecchini
sto nascondino di clandestini
come s'incrociano sti bastardi
dal pedigree che puzza
sti olezzi di creoli
ste fichesecche del deserto secche
st' ibridi da brividi sti meticci posticci
ste sgnacchere rumene fottimariti
di mogli che non fottono più […]
E ancora, con la chiara volontà di agganciarsi ad un’attualità – la poesia risale
al 2011, ma gli ultimi versi sono aggiunti nel 2018 - che proprio in questi giorni
pare già leggermente inattuale:
[…] Divello incollo ed espello
li aiuto a morire in casa loro
a Lampedusa
promessa di Musa
entrano prima gli italiani
nella casa chiusa.
Il gran finale è però previsto alle 17 alla Masseria Antonio Esposito
Ferraioli di Afragola. Gestita da Giovanni Russo con la preziosa collaborazione di Daniela Del Mondo, si tratta di un bene confiscato alla criminalità – porta il nome del cuoco,
scout e sindacalista della CGIL, vittima innocente della camorra – ed
assegnato dal 1 marzo 2019 a una rete di cooperative, associazioni e
organizzazioni. (9 Cfr. https://www.masseriaferraioli.it/). Qui si piantano alberi da frutto: limoni, un pesco, un melo, un
pero e si assume come traccia la costellazione dell’Orsa Minore. La perfetta
pianura della masseria contrasta con la quinta costituita dal Vesuvio e dal
Monte Somma, che si scorgono nitidi, in tutte le loro pieghettature.
Piantato il primo albero Marco Amore prende a recitare – un po’ fuori
stagione! - Freddo dicembre, tratto dalla sua raccolta d’esordio, Farragine (2019), (10 M. Amore, Farragine, pref. di G. Frene, Samuele editore, Fanna, 2019) un componimento pieno di immagini evocative, frutto di un uomo
che, malgrado la sua giovinezza, sente ancora la natura, i suoi ritmi, il suo
mutare, le sue diverse consistenze, benché le sue manifestazioni si intreccino
costantemente con elementi antropici, pur tutt’altro che invasivi. Del resto egli
non vive quotidianamente la metropoli, ma quel piccolo paesino tra Benevento
ed Avellino che è Rotondi:
Il vento piange sulla strada di casa
mentre le stelle origliano il nostro oscuro segreto da uno
spiraglio nel solaio
l’apice del frangizolle attende di smorzare
il rostro per agguantare l’erpice a dischi
il sole sulla lista della spesa
dei morti, che inseguono la stella a nord-est
una carezza al cuscino e un buon caffè antimeridiano
pestato nel mortaio del mondo
specchi come laghi ghiacciati:
la luna che sorge si riflette […]
Alfonsina Caterino, approssimandosi in questo alla Papa Ruggiero,
malgrado la diversità di linguaggio, riprende il filo di un discorso più
chiaramente legato alle minacce inflitte all’ecosistema. Probabilmente rispetto
alla collega si nota anche una maggiore esplicitazione della dimensione politica.
La sua introduzione prima della poesia, scritta per l’occasione, trasuda di
passione e dolore autentici. Quindi comincia a leggere la sua inedita, Qui, ove il
titolo sta a rimarcare la fissazione su un determinato luogo e tempo. Qui è
infatti
dove l’Amazzonia ha riempito i cieli
di zaffiri
e gli attimi indugiano esultanza
la luce insostenibile
le macchine sguinzagliate dietro il fascino
orribile della morte,
stanno trascinando la strada
lungo ghiacciai e selfi incappucciati […]
E più avanti:
[…] Lungo il passaggio
ogni verità è diversa
da qui, notte superata
dagli infiniti luoghi senza ragione
che illuminano valore razionale
del viaggio
la condizione fragile dell’appagamento
provvisorio
commentabile fianco
mai dismesso al silenzio
che scorge fiera sguincia
i draghi inghiottiti
dalle autostrade […]
Tutta la poesia di Lia Manzi è non di rado ugualmente pervasa da
angoscia e sofferenza, ma in lei spicca sempre una leggerezza speranzosa,
uccelli vari, le farfalle, tanti i piccoli animali volatili la popolano costantemente
facendosi metafore di felice librare dell’anima, in una costante circolarità tra
moti dell’interiorità umana e dinamismo naturale. Farfalla, tratta dalla raccolta
Il canto di un nido (2018), (11 L. Manzi, Il canto di un nido, pref. di L. Chianese, Iod edizioni, Casalnuovo di Napoli, 2018) racconta appunto la metamorfosi di un bruco fino
alla sua trasformazione in farfalla matura:
Un Albero mi ha chiamata a sé
per la mia Metamorfosi
“Vieni, poni qui la tua Crisalide,
non temere, io ti proteggerò […]
finché
[…] Finalmente spiccai il primo volo
Non mangiavo più foglie come quando fui un Bruco
Succhiavo adesso nettare dei fiori e mi accoppiavo.
Lia ha un bimbo di dodici anni. Benché ci siano con lui cugine, zii e
nonno, oltre che la madre, arriva alla masseria alquanto annoiato. Pare
preferisse rimanere a casa davanti al videogioco. Domando quanto frequenta
altri ragazzini della sua età e lo zio mi dice che ormai ci si frequenta poco tra
ragazzini, giacché i gingilli telematici portano ad una sorta di para-autisticizzazione; un po’ ci si isola volontariamente e un po’ anche volendo non
è facile trovare coetanei con i quali stringere rapporti profondi. Ad un tratto lo
vedo però felicemente cooptato nell’atto di piantumazione: armato di vanga estrae grossi mucchi di terra. Penso che ormai sono diventato un po’
schifiltoso, per cui ho provato a Scampia a dare qualche colpo di vanga ma non
mi riusciva bene; più che altro non mi andava di sporcarmi. Poi ricordo però
che a dodici anni mi sarebbe piaciuto molto usare una vanga, ma
probabilmente i miei genitori me l’avrebbero tolta di mano: avrebbero detto
che mi faccio male, che non sono buono e che – appunto – mi sporco! Da qui il
mio sviluppo iperintellettualistico, alquanto squilibrato. Mi confronto con più di
una persona della mia età e mi dicono che per loro sarebbe stata la stessa
cosa, che c’è stato un tempo in cui i genitori – pressappoco i baby boemer,
padri e madri, sempre pressappoco, della generazione X – ritenevano quasi
infamate per il loro figlio un lavoro manuale e peggio ancora rurale, per cui
tendevano ad allontanarlo a tutti i costi, anche per gioco. Importava solo
andare bene a scuola, saper leggere e conoscere le tabelline a memoria… Oggi
probabilmente – e fortunatamente! – questa tendenza è andata scemando…
Oggi i problemi sono altri… Un bambino con una vanga in mano piuttosto che
con uno smartphone per me è una consolazione degli occhi e dello spirito!
Infine una gentile signora si offre di fare le veci di Ketti Martino –
anch’ella assente fisicamente per causa di forza maggiore - leggendo la sua
Non ci è dato sapere, che suona come meno vivida e più eterea rispetto a tanti
altri contributi ascoltati durante la giornata. Leggero disincanto ed un pizzico di
utopia si intrecciano in un’area soffusa e sospesa, ove regna un quid di mistero
e le urgenze ambientali, che pure l’autrice ha molto a cuore, non sono
individuabili se non come un sottotesto implicito nella sua poesia, un inedito
del 2017:
Non ci è dato sapere, sul luccicante asfalto
nelle lacrime di vetro, se le presenze sconosciute,
a mezzanotte, nella frenesia di anime,
hanno delle tempeste d’acqua solo amore
oppure altro.
Se il giro nasce dove l’occhio ha l’umano credo
e se la lotta del pensiero scava strade in fondo alle pupille. […]
E ancora:
[…] Nel vuoto spazio stanno le attese
e segni d’altri come cicatrici dell’ignoto:
con la vena gonfia sulla fronte, nella nuda esposizione,
siamo ad aspettare (a desiderare) mondi
senza dover scagliare frecce
senza addolorare chi rimane.
Ma è notte ancora, qui, lo sappiamo.
L’intensa giornata si chiude con una lauta merenda contadina, a base di
prodotti rigorosamente coltivati a chilometro zero. È il momento in cui la
convivialità trova il suo trionfo. Il momento in cui, nel farsi crepuscolo, si
stemperano tutte le tensioni e si tenta di superare la divisione dei ruoli,
contaminandosi tra poeti e massari, organizzatori e spettatori-cooperatori,
amici di vecchia data e gente conosciuta solo da poche ore, se non pochi
minuti.
Stefano Taccone