mercoledì 21 dicembre 2011

L’ARTE CHE OCCUPA WALL STREET – L’arte attivista in queste ultime settimane

(Testo di accompagnamento alla slide di immagini presentate in occasione della mostra Geyser: quando le idee esplodono, inaugurata il 14 dicembre scorso presso la Sala Dogana di Palazzo Ducale a Genova).

Pur credendo fermamente che ogni decretare l’obsolescenza dei “grandi racconti” implica sempre il rischio di una lettura metastorica dell’ordine vigente – e ciò è valido non di meno in rapporto ai tempi più recenti, allorché la fiducia nella sua tenuta conosce un costante allentamento – ho sempre creduto, forte di un debolismo – mi sia perdonato l’ossimoro! - inteso non in quanto equivalenza di tutti i valori e quindi, di fatto, assenza di ogni verità, bensì coscienza di una costellazione di specificità che richiedono risposte differenti innanzi tutto perché pongono differenti domande – in un’ottica non troppo dissimile da quella incarnata dal celebre motto zapatista, «un mondo in cui tanti mondi siano possibili» -, una pretesa inevitabilmente destinata al fallimento – o forse un’impresa non alla mia portata? – tentare, attraverso la mia attività storica, critica e/o curatoriale, una sia pur consapevolmente non esaustiva lettura sistematica dell’arte oggi – e la mia riluttanza rimarrebbe invariata anche qualora ci si limitasse ad una singola area geografica piuttosto che al mondo intero -; di delineare, con un certo coefficiente di oggettività, quali forme possiedano le ricerche artistiche più significative che hanno luogo nel nostro presente, quelle la cui considerazione è irrinunciabile… Ho sempre, al contrario, creduto nella potenza del frammento, e dunque nella possibilità di far fronte ai grandi dilemmi in nessun altro modo se non attraverso la costruzione di un proprio necessariamente parziale percorso, ma coerente nella sua struttura, che scaturisse da quelli che sono i miei più profondi pensieri, passioni, impulsi, urgenze, ma posti in continua relazione dialettica con l’esterno, in conformità con un’esigenza intrinsecamente connessa alla loro peculiare natura. Da ciò deriva la circostanza per cui il fatto artistico appaia costantemente accompagnato, nella mia considerazione, dalla dimensione del sociale e del politico e, più in particolare ed in tempi più recenti, essa si è sempre più attestata in relazione allo studio dell’intreccio tra arti visive ed attivismo radicale tanto su di un piano storico, data l’ormai consolidata tradizione – un po’ meno in alcuni paesi, tra cui l’Italia, deficit in verità non troppo facilmente spiegabile per un paese che, tra l’altro, ha avuto un Sessantotto che è durato un decennio… -, quanto su di un piano teorico, indagando cioè i caratteri strutturali che risiedono a monte della felicità prodotta dall’incontro tra i due ambiti, nella prospettiva, auspicata dall’artista austriaco Oliver Ressler, di una sempre più spinta dissoluzione dei rispettivi confini (E. Vannini, Oliver Ressler. Il “movimento dei movimenti”. Low revolution, “Arte e Critica”, Roma, anno XVI, marzo – maggio 2009, n. 58, p. 49).



Poster di "Adbusters" per Occupy Wall Street.

È alla luce di tali presupposti che ho scelto di mettere a fuoco una situazione ancora probabilmente nel pieno del suo farsi – e dunque ancora suscettibile di imprevisti quanto rapidi rivolgimenti -, eppure, credo, già con una certa sicurezza percepibile nella sua rilevanza, quella relativa alle pratiche artistiche che hanno origine, proprio in queste settimane, nel contesto delle dimostrazioni di Occupy Wall Street (OWS), ove «l’arte», ha osservato di recente Michele Elam, studiosa dei rapporti tra estetica, politica ed identità etnica, «è emersa come un importante veicolo d’espressione del movimento» (M. Elam, How art propels Occupy Wall Street, Special to CNN, November 4, 2011; http://edition.cnn.com/2011/11/01/opinion/elam-occupy-art/index.html). D'altra parte, poiché ad innescare l’intero ciclo di proteste è stato un appello di "Adbusters", ovvero della rivista canadese simbolo, a partire dai primi anni novanta, di quella peculiare forma di arte attivista che va sotto il nome di "culture jamming", l’intero movimento può considerarsi fin dal suo sorgere sotto il segno delle arti – quelle visive in particolare – e dei linguaggi creativi in genere. Tale fenomeno, inoltre, non va inteso che come l’ultimo tassello di una vicenda che negli Stati Uniti parte al più tardi alla fine degli anni sessanta, allorché si organizzano eventi come l’Angry Arts Week Against The War in Vietnam o si costituiscono collettivi come Art Workers’ Coalition, connotato innanzi tutto per la sua interlocuzione critica con l’istituzione-museo, e, passando attraverso esperienze degli anni ottanta come quelle di Group Material ed ACT UP e per la nuova ondata di arte attivista connessa all’emergere del movimento di Seattle nel novembre del 1999, arriva fino ai giorni nostri, quelli della crisi del paradigma neoliberista.



Logo di Occupy Museums.

Occupennial Art Database, piattaforma online (www.occupennial.org) sorta per offrire uno spazio di coordinamento e discussione «al 99% degli artisti»; supportare le operazioni da loro concepite in relazione ad OWS ed archiviare la documentazione ad esse relativa, sembra costituire un autentico perno per «l’importante ruolo che», come si legge sulla piattaforma stessa, «gli artisti stanno giocando nelle proteste di Occupy Wall Street», oltre che un ottimo viatico per orientarsi nella galassia della onnimediale produzione – suddivisa sul sito in sei categorie: Actions & Performance; Video, Sound & New Media Projects; Drawing, Painting & Sculpture; Poetry & Music; Graphics; Screenprinting - che in tale contesto sta germogliando.



Occupy MoMA – azione di protesta messa in atto da Occupy Museums.

Da Occupennial si viene a sapere, ad esempio, dell’attività di Occupy Museums, promotore di Occupy Lincon Center, centro per le arti performative che, annoverando tra i suoi enti sponsorizzatori la Bloomberg LP, una società chiaramente legata al sindaco di New York Michael Bloomberg, accusato dagli attivisti di aver represso in stile paramilitare l’occupazione pacifica di Liberty Park, ha proposto la Satyagraha di Philip Glass, ovvero un’opera dedicata alle lotte contro il colonialismo di Gandhi - alle cui pionieristiche strategie di disobbedienza civile il movimento dichiara di ispirarsi -, quasi prestandosi ad un’operazione di lavaggio dell’immagine pubblica su di un piano subliminale.(Occupy Museums protests the anti-democratic policies of Lincoln Center and Bloomberg at Satyagraha, Tuesday, November 29, 2011 at 10:55PM, http://www.occupennial.org/ows-art-listing/2011/11/29/occupy-museums-protests-the-anti-democratic-policies-of-linc.html Il primo bersaglio di Occupy Museums è stato però naturalmente il MoMA, davanti al quale si è protestato denunciando «l’assoluta equazione tra arte e capitale» che hanno conosciuto gli ultimi decenni, promettendo «un’era di arte nuova, fuori dai ristretti parametri del mercato» ed esortando i musei ad aprire «la vostra mente ed il vostro cuore», dal momento che «l’arte è di tutti!» (Occupy Museums: Speaking out in front of the Canons,Sunday, October 23, 2011 at 12:20AM, http://www.occupennial.org/ows-art-listing/2011/10/23/occupy-museums-speaking-out-in-front-of-the-canons.html)



Veduta della mostra This is What Democracy Looks Like presso le NYU’s Gallatin Galleries.

Il sito riporta inoltre il comunicato stampa ed alcune immagini di una mostra collettiva come OCCUPIED: An Occupy Movement Group Show - tenutasi dal 14 novembre all’8 dicembre presso Bluestockings, «libreria radicale, caffè del commercio equo e centro attivista del Lower East Side di Manhattan» -, nell’ambito della quale sono presenti oltre 30 artisti, provenienti da ogni parte del mondo, con poster, stampe, disegni, opere su carta, fotografie ed installazioni multimediali (OCCUPIED BLUESTOCKINGS, Friday, November 11, 2011 at 01:11PM http://www.occupennial.org/ows-art-listing/2011/11/11/occupied-bluestockings.html). La prima collettiva in ordine cronologico esplicitamente ispirata al movimento, alle sue ragioni ed ai suoi linguaggi è stata però This is What Democracy Looks Like – tenutasi presso le NYU’s Gallatin Galleries dal 28 ottobre al 18 novembre -, che ha visto la partecipazione di artisti, designer e filmmaker come Melanie Baker, The Brooklyn Filmmakers Collective, Melanie Cervantes, Molly Crabapple, William Lamson, Meerkat Media, Tom Otterness, Michael Rippens, Dread Scott (http://www.gallatingalleries.com/shows/this_is_what_democracy/index.html), ed ha abbinato all’esposizione una serie di eventi come il dibattito intitolato Occupyteory, coincidente con il giorno del finissage, allorché ci si è chiesti «qual’è il ruolo che può essere svolto dalla teoria nel movimento Occupy» e se «in un movimento senza leader, è possibile che la teoria ricopra un ruolo democratico» (#Occupytheory at Gallatin, Thursday, November 17, 2011 at 12:42PM, http://www.occupennial.org/blog/2011/11/17/occupytheory-at-gallatin.html).



Rainer Ganahl, Credit Crunch Meal Occupy Wall Street Show, ex GP Morgan Bank, New York.

Tra i partecipanti a This is What Democracy Looks Like vi è anche Rainer Ganahl, già protagonista di un Occupy Wall Street Show ospitato per una sola serata nella ex sede della GP Morgan Bank, che sorge proprio di fronte al palazzo della Borsa newyorkese, ove l’artista di origine austriaca ha allestito una sorta di banchetto – a base prevalentemente di frutta, verdura ed ortaggi, ma anche di una conturbante quanto simbolicamente eloquente testa di maiale – le cui pietanze recano espressioni chiaramente alludenti all’attuale dibattito sulla crisi globale - come BAIL OUT, HEDGE FUNDS, GREECE IRELAND PORTUGAL ITALY, i simboli delle varie monete… -, ma anche ai movimenti di contestazione – 99% - o comunque all’agone politico più in generale - TEA PARTY. «Dal momento che», ha spiegato Ganahl, «i termini e i processi economici sono così astratti, ho optato per la semplicità e l’umanità del cibo più comune che viene a mancare alle persone che cadono vittime di queste astratte manovre economiche. Il denaro che è servito a salvare le banche sta ora facendo precipitare nell’insolvenza stati sovrani come la Grecia ed altri e produce effetti talmente reali da essere percepiti anche sulle tavole di ognuno» (http://www.ganahl.info/occupywallstreetcrunch.html), chiarendo la sua operazione nei termini di un detournante incontro tra economia della sfera virtuale ed economia della sfera quotidiana, tra economia delle burocrazie al potere ed economia dei cittadini che hanno il problema di apparecchiare la tavola e mostrando, in tal modo, come – per fortuna o purtroppo – non si tratti affatto di due mondi a parte.



Occupy Design, Occupy your Heart/World.

Ma le forme da considerarsi più peculiari per un fenomeno che agisce in conformità con le urgenze di dissoluzione dei confini tra arte e attivismo proposte da Ressler sono probabilmente quelle delle azioni collettive nello spazio pubblico, come quella promossa dal giovane performer israeliano Ehud Darash al cubo rosso davanti a Zuccotti Park, allorché gli attivisti hanno celebrato, tramite la «temporanea “alterità”» rappresentata dall’attitudine di lentissima caduta assunta, la diversità di OWS (October 30, 2011 - "About Falling" at Liberty Plaza, Tuesday, November 8, 2011 at 05:44PM, http://www.occupennial.org/ows-art-listing/2011/11/8/october-30-2011-about-falling-at-liberty-plaza.html), o le 24 ore di “cerchio di batteria” organizzate da un collettivo artistico attivista ormai storico come gli Yes Men, nell’ambito del loro progetto Yes Lab - consistente, in sostanza, in «una serie di scambi di idee ed esercitazioni per aiutare i gruppi attivisti a realizzare le azioni creative di cattura dei media, focalizzate sugli scopi della propria campagna» (http://www.yeslab.org/about) - al fine di protestare contro la violenza poliziesca e le limitazioni della libertà di espressione perpetuate, operazione che - neanche a dirlo – ha attirato una massa ancora più ingente di «barricate in acciaio e polizia armata» (http://www.yeslab.org/drumcircle), o anche quelle legate alla grafica, con la sua arcinota democraticità della riproducibilità tecnica. A tale obiettivo, quello di «creare strumenti visivi disponibili gratuitamente attraverso un linguaggio grafico comune che sia in grado di unire il 99%» mira il progetto Occupy Design. (http://occupydesign.org/)

Stefano Taccone

domenica 30 ottobre 2011

SOLO LIMONI – A dieci anni dai fatti del G8 di Genova, ad una settimana dalla giornata mondiale dell’indignazione

(Intervento introduttivo al video Solo limoni di Giacomo Verde, presentato nell’ambito di Luci della città – Bologna, Genova, Napoli, a cura di Stefania Zuliani, evento tenutosi la sera dell’8 ottobre 2011 presso la Fondazione Filiberto Menna – Centro Studi d’Arte Contemporanea di Salerno, in occasione della VII Giornata del Contemporaneo).

Tra i motivi che mi hanno spinto a selezionare questo video di Giacomo Verde, Solo limoni, in quanto analisi delle pratiche di rappresentazione del dissenso come linguaggio urbano – pratiche che, d’altra parte, proprio dopo i fatti del luglio 2001 divennero sempre meno urbane, visto che gli “otto grandi” da allora cominciarono a scegliere i luoghi più fuori mano possibili, allo scopo evidente di ostacolare i cortei di protesta e si rammenti, a tal proposito, lo stesso caso di L’Aquila, che ospitò il G8 del 2009 a pochi mesi dal terremoto, allorché noi manifestanti ci trovammo praticamente a sfilare in un sentiero di campagna scarsamente abitato – vi è senz’altro la ricorrenza del decennale della grande dimostrazione antigiottina di Genova, circostanza che è stata anche fonte di ispirazione per una vera e propria mostra collettiva, Un altro mondo è ancora possibile?, a cura di Francesca Guerisoli e del sottoscritto, inaugurata al Palazzo Ducale di Genova non più tardi di tre mesi fa. Ma il mio riferimento a quelle tanto discusse quanto affascinati vicende non possiede alcuna dimensione unilateralmente retrospettiva, né tanto meno nostalgica: esso si accompagna piuttosto alla constatazione, suffragata da numerosi avvenimenti in questi ultimi anni e, soprattutto, in questi ultimi mesi - a partire dalla primavera araba, continuando con l’epifania degli indiñados spagnoli con l’occupazione della Puerta del Sol del 15 maggio scorso e del recentissimo movimento newyorkese Occupy Wall Street, fino alla giornata mondiale dell’indignazione che si terrà sabato 15 ottobre prossimo, un evento che si preannuncia destinato a non trascorrere inosservato e senza conseguenze - che l’altermondismo sta tornando - o meglio come un fiume carsico o come la “vecchia talpa” marxiana sta tornando alla luce zenitale, senza che il filo rosso che lo lega al decennio scorso si sia mai realmente spezzato - sia pure in modalità e contesti per certi versi anche molto differenti.
Ma come si interfaccia il discorso dell’altermondismo con l’arte e con l’estetico in genere? Perché, in altre parole, acquisisce una non trascurabile importanza anche per le vicende della produzione artistica – ne sono fermamente convinto - tutto il discorso che ho appena sviluppato? Probabilmente innanzi tutto perché non c’è stato altro movimento che al pari di quello emerso a Seattle nel novembre del 1999 - ma i suoi prodromi risalgono addirittura al capodanno del 1994, allorché l’ Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (ELNZ) si impose per la prima volta all’attenzione del mondo - abbia fornito così tante sollecitazioni di carattere estetico nel proprio rappresentarsi, facendo sì che la tesi di Jaques Ranciere, secondo il quale la politica è “partizione del sensibile”, e dunque con l’estetico ha molto a che vedere (Cfr. J. Ranciere, Il disagio dell’estetica, a cura di Paolo Godani, ETS, Pisa, 2009), trovasse una formidabile esemplificazione. Si pensi, tra l’altro, alle pratiche tipiche delle “Tute bianche”, fenomeno tutto italiano, nonché nevralgico per la storia dell’evoluzione dei movimenti della seconda metà degli anni novanta, che proprio a Genova trovò la sua estrema apparizione, o agli stessi zapatisti, con i loro passamontagna che servivano paradossalmente per farsi notare prima ancora che per celare la propria identità.
Ulteriore elemento a vantaggio della tesi dell’esteticità senza precedenti del Movimento antiglobalizzazione è l’acuta analisi sviluppata da Marco Scotini, secondo il quale «istanze attiviste e pratiche artistiche» - qui risiederebbe peraltro lo scarto tra il vecchio paradigma dell’arte engagè ed il più aggiornato paradigma dell’arte attivista – non sono accomunate da una sorta di “patto comune in vista di obiettivi comuni”, bensì derivano da «uno sfondo comune (…) uno spazio indistinto che impedisce di tracciare chiaramente i confini tra forze e segni, tra linguaggio e lavoro, tra produzione intellettuale ed azione politica» (M. Scotini, Il dissenso: Modi di esposizione. Il caso dell’archivio Disobedience, in M. Baravalle (a cura di), L’arte della sovversione, manifestolibri, Roma, 2009, p. 94). Ed ecco comparire la principale ragione della rilevanza delle parabole dei movimenti in rapporto all’arte: il sorgere da un medesimo alveo tanto di questi ultimi quanto dell’arte attivista o, meglio ancora, parafrasando ed un po’ ribaltando Ranciere, ma riformulando una tesi di Scotini, la connotazione dell’arte attivista come partizione della più vasta costellazione delle pratiche attiviste in genere - purché quest’ultima definizione non vada intesa quale ratifica dell’esistenza di un confine netto che separi l’ “attivismo artistico” da quello “non artistico”, confine che viceversa, se pure esiste, possiede una consistenza assolutamente porosa, tanto che lo stesso Scotini ama parlare di “zona grigia”. Una origine condivisa che implica dunque una inevitabile, benché non meccanicistica, connessione, tra stato di salute del movimento altermondista e dell’arte attivista, una certo grado di coincidenza tra l’emergere e/o il declinare dell’uno e dell’altro: è così che in quegli anni in cui la spinta propulsiva partita da quel novembre del 1999 fu maggiormente operante anche gli artisti “politici” – e le mostre “politiche” – parvero progressivamente moltiplicarsi, mentre si prendeva a parlare di una specifica arte attivista del Post-Seattle.
Il profilo di Giacomo Verde si configura come assolutamente emblematico ed insieme singolarissimo non solo rispetto a quest’ultima stagione, ma prima ancora rispetto a quel lungo e denso percorso, i cui inizi vanno fatti risalire almeno agli anni settanta, che solo col senno di poi etichettiamo come “di incubazione” della fase successiva. Una fitta ed interessantissima, quanto spesso non adeguatamente considerata e studiata, se non in settori di nicchia, vicenda che possedette nella riflessione sulle tecnologia in quanto depositaria di enormi potenzialità di democratizzazione – da qui l’approccio “low tech” che ne consenta «un uso accessibile a tutti» e che ne smitizzi «le valenze feticistiche» e la correlata proposta di «usi alternativi, al di fuori delle logiche del mercato» dei mezzi di comunicazione di massa (S. Vassallo, Pratiche di condivisione tra arte, tecnologia e attivismo. Il cerchio relazionale. Arte come esperienza est-etica partecipativa, in S. Vassallo, F. Maccarone (a cura di) Giacomo Verde. Tra arte e attivismo – istruzioni per l’uso 1.0, catalogo della mostra, Studio Gennai, Pisa, 15 gennaio – 5 febbraio 2011, p. 6; http://www.verdegiac.org/CatalogoTraArteAttivismo-d.pdf) - uno dei suoi tratti caratterizzanti, nonché un discorso in grado di connotare repentinamente in senso politico le pratiche creative. Anni ed anni di strenua sperimentazione intorno al binomio tecnologie avanzate-orizzontalità partecipativa senza la quale, circostanza che non sarà mai superfluo sottolineare, Seattle e tutto ciò che venne in seguito sarebbe stato impensabile - ed eredità senz’altro fortemente operante anche nei movimenti odierni, benché questi ultimi paiano ormai essere inevitabilmente legati ad un maggiore coefficiente di mainstream, il quale però prospera dopo aver probabilmente sussunto anche tante ricerche compiute dal basso.
Nell’ambito della estremamente prolifica quanto versatile attività di Giacomo Verde Solo limoni va ascritto al novero di quelli che Marco Maria Gazzano definisce i suoi “documentari creativi” in quanto fondati sulla dialettica tra illustrazione di realtà spesso scottanti – oltre alla cadenzata narrazione delle vicende del corteo di Genova, è il caso di ricordare almeno la lunga riflessione sulla memoria martoriata di un paese come la Serbia (Gente ugualmente, 1999/2000) e la corale ricostruzione della morte violenta, avvenuta la mattina del 7 maggio 1972 nel carcere di Pisa, del giovane anarchico Franco Serantini e dell’aria che tirava in quegli anni (S’era tutti sovversivi, 2002), che peraltro sono i documentari che si situano rispettivamente subito prima e subito dopo quello genovese – e licenze rispetto ai canoni del genere – trattamento dei colori in chiave espressiva, montaggi asincroni audio-visivi, sovrimpressioni, scarti temporali, inquadrature spurie, ricerca di plasticità dell’immagine, accentuata matericità e a volte “coproreità” dell’immagine - in grado di connotare il proprio punto di vista sia etico-politico sia estetico, ché l’oggettività dei fatti è sempre una opinione (M. Gazzano, TeleArti. L’opera di Giacomo Verde “artivista tecnologico”, in S. Vassallo, F. Maccarone (a cura di) Giacomo Verde. Tra arte e attivismo – istruzioni per l’uso 1.0, cit., p. 24).
La trascendenza del dato documentaristico – dal clima di entusiasmo e determinazione delle prime battute alle agghiaccianti scene di guerriglia urbana fino al loro culmine, l’uccisione di Carlo Giuliani e la disperazione e la rabbia intorno al suo corpo senza vita -, la cui funzione, peraltro, è anche quella di colmare il vuoto prodotto da una informazione più stimolata dallo scoop, quando non impegnata a criminalizzare il movimento – e dopo Genova si assistette ad una sorta di escalation in questo senso, facendo sì che la natura iniziale del dibattito pubblico su di esso, comprendente la questione dei danni prodotti dalla globalizzazione neoliberista, fosse sempre più ridotta ad un mero affare di ordine pubblico - che dalla complessità dei risvolti.

Stefano Taccone

mercoledì 5 ottobre 2011

LIUBA – La performance come apertura alla trascendibilità dell’ordinario

La lefebvreiana critica della vita quotidiana, la resistenza alla horkeimeriana ragione strumentale, al marcusiano monodimensionalismo cui il capitalismo avanzato costringe l’uomo, nonché tutti i movimenti che da Dada a Fluxus ed al Situazionismo hanno fatto della confutazione e del sabotaggio delle strutture canoniche di convivenza sociale la loro impellente necessità, costituiscono senza dubbio il patrimonio di tradizioni – benché si provi sempre un certo imbarazzo, quasi una terrore di generare un ossimoro troppo marcato, nell’utilizzare questa parola per tali esperienze – che più immediatamente la performatività più behavior che body di Liuba presuppone. Che infatti cammini per strada e compia ogni azione a ritmi lentissimi, tanto da rischiare di provocare incidenti automobilistici e, in ogni caso, da lasciare di stucco i passanti - come avviene nel ciclo The Slowly Project (2002-2011), sorta di tentativo di allungare la vita per mezzo dell’arte (L'Arte è lunga, la Vita breve è appunto il titolo di una delle performance del ciclo) in una società in cui una “performance” è tanto migliore quanto più produce in un tempo minore – o affigga i bollini rossi, contrassegni delle vendite già avvenute nelle fiere d’arte, su di ogni opera esposta, tra lo scompiglio dei galleristi – come avviene in Virus (2004), il cui titolo suggerisce una sorta di sinistra trasmutazione di quegli stessi contrassegni, così simili ad i sintomi visivi di qualche morbo contagioso e, proprio come un morbo, in grado di propagarsi in maniera incontrollata –; che si aggiri con un vestito da suora “detournato”, in quanto appositamente disegnato con sottili riferimenti multireligiosi nei dettagli, per la Biennale di Venezia o addirittura per la Città del Vaticano recitando preghiere appartenenti a fedi diverse da quella cristiana cattolica – come avviene in The Finger and the Moon - ll dito e la luna (2007-2010) – o irrompa nel rarefatto ambiente di un vernissage di una mostra in galleria con quello che potremmo definire un autentico inno comportamentale alla contaminazione gioiosa, passionale, persino dionisiaca tra le differenze, se non tra gli opposti – come avviene in Les Amantes (2006) -, il suo sforzo appare generalmente definibile in quanto volto a far deragliare il treno dai binari, a far incantare il disco evitando che vada in loop, a determinare, in altre parole, uno slittamento nell’ordine plausibilmente consueto degli eventi. Una circostanza che si verifica regolarmente, ma in forme sempre rinnovate, in quanto risultanti della diversità della propria declinazione attitudinaria, ma anche della differente predisposizione alla risposta dei vari contesti a “parità” di comportamento, in un’ottica in cui le performance, spiega eloquentemente la stessa Liuba, si configurano dunque quali «cartine di tornasole attraverso cui investigare una data società o gruppo umano».



The Slowly Project. Take your time - Modena, 2007-2008.

Sappiamo bene, tuttavia, quanto le strategie dello straniamento attitudinario, che pure sono state centrali per tanta parte delle avanguardie artistiche – e forse non solo artistiche – del XX secolo, siano alla fine incorse in una impasse, benché il dibattito sulle cause e la natura di essa siano molto più complesse di quanto solitamente si sia disposti a credere e sia ben lungi dal potersi chiudere e benché l’eredità di tali pratiche continui ad essere assolutamente operante anche negli ultimi decenni – e lo stesso caso di Luiba ne è una buona dimostrazione. Tuttavia può dirsi con una sufficiente sicurezza di non essere smentiti che il loro fallimento si è manifestato nella debolezza della loro stessa azione, contrapposta al grado di ambizione dichiarato, nella eccessiva facilità con la quale il corso normale della vita e della società, dopo essere stato forse talvolta pure non superficialmente intaccato, ha ripreso con grande sicurezza il verso del suo cammino, consolidando persino ulteriormente la bontà della sua “tenuta di strada”. Anche in questi ultimi tempi, allorché pure il pensiero unico dominante sembra impelagato in grossi problemi, essi sembrano possedere una natura più endogena che esogena: derivano cioè più da una deficienza immanente alle sue stesse promesse che da una cosciente riluttanza a lasciarsi ridurre alle logiche concatenate del suo megaingranaggio, in nome magari di un rovesciamento di queste logiche stesse o di un affrancamento da esse.



Virus, 2004.

Ma il punto, tornando a Liuba, è proprio questo: che la prospettiva delle sue destabilizzazioni non sta in un momentaneamente impossibile – e forse non necessariamente sempre e comunque auspicabile – rivolgimento permanente del consueto flusso dell’esistente, posizione che, peraltro, non sfuggirebbe a contraddizioni, in quanto sempre esposta al rischio, per così dire, di spogliare un altare per vestirne un altro, quanto nella, sia pur breve ed effimera, determinazione di uno scenario in cui la soppressione di certe norme comunemente vigenti permetta allo spettatore più o meno volontario di allargare gli orizzonti della sua mente, di prendere coscienza del fatto che certe situazioni sono sì strutturate in una determinata modalità, ma, se lo si vuole, presto o tardi potrebbero volgersi anche differentemente – un invito ad una sospensione possibile del flusso vitale in vista di un più agevole esercizio di ripiegamento-raccoglimento psico-emotivo su quello che è il suo senso profondo, dunque, che trova peraltro nel video che fa da pendant ad ognuna delle performance, la cui regia ed il cui montaggio sono a cura dell’artista stessa, ulteriore supporto. Sta allo spettatore, in ultima istanza, scegliere i caratteri dei suoi mondi possibili e desiderabili ed adoperarsi eventualmente affinché si traducano in realtà, mentre alla performer-scultrice di situazioni non spetta che dare il là, innescare quel meccanismo che metta in moto le facoltà umane e le conduca a generare nuovi pensieri ed azioni che siano specchio di un retroterra innanzi tutto individuale ma anche collettivo, risvegliare nel singolo e nella moltitudine la consapevolezza della sua potenza costituente.

Stefano Taccone

giovedì 4 agosto 2011

CIRO de FALCO – Un ricordo appassionato

Sono ormai trascorsi quasi due mesi da quando, poco più che ottantenne, Ciro de Falco, dopo una prolungata agonia, si è spento nella sua casa di Via Bagnara, presso Piazza Dante a Napoli, e, nel silenzio quasi totale con il quale la città, ahimè, ha reagito alla sua scomparsa, riesco solo ora a scrivere due righe affinché la memoria del singolare personaggio che è stato e dell’insegnamento che ci ha tramandato con la sua vita ed il suo lavoro non cada troppo rapidamente nell’oblio.



Icaro liberato, 1976.

Lo conobbi cinque anni fa, nell’estate del 2006, allorché, poco più che neolaureato con una tesi su Hans Haacke (da cui qualche anno dopo sarei partito per scrivere la monografia), sentivo il bisogno di indagare le modalità attraverso le quali anche a Napoli ed in Italia, e non solo negli Stati Uniti e nel resto d’Europa (questi ultimi due, specie il penultimo, erano stati i contesti artistici per me oggetto preminente di studio fino ad allora) ci si era interrogati, tra gli anni sessanta e settanta, sui rapporti tra pratica artistica e dimensione socio-politica e su come l’arte dovesse e/o potesse cambiare radicalmente la sua funzione ed il suo statuto in un momento storico in cui una grande trasformazione sociale era sentita non solo come necessaria, ma persino come imminente. Da questa mia esigenza nacque il breve ma ben strutturato ed efficace, nonché per me eccezionalmente formativo, ciclo di incontri “Arte e impegno”, nell’ambito del quale tentai, invitando di volta in volta uno dei protagonisti napoletani dell’arte nel sociale degli anni settanta (oltre a de Falco parteciparono Riccardo Dalisi, Gerardo Di Fiore e Rosa Panaro) a parlare, col supporto di diapositive e video dell’epoca ed in dialogo con me, del loro percorso specificamente legato a quella stagione.



Icaro liberato, 1976.

Furono i mesi di lunga ed approfondita preparazione a quell’incontro(necessariamente lunga ed approfondita perché Ciro non tollerava inesattezze storiche, sia pur minime, né poteva permettere che qualcuno si ponesse ad analizzare la sua documentazione con distacco, senza farlo a poco a poco innamorare del suo lavoro con infiniti quanto appassionati racconti; ma la sua arte era stata ed era la sua vita) e, naturalmente, l’incontro stesso, che ora sappiamo essere stata l’ultima occasione di ascoltarlo in pubblico, a fornirmi la possibilità di conoscere tanto l’uomo quanto l’artista de Falco in maniera più profonda e di formarmi pian piano un’idea di cosa erano stati per lui, e non solo per lui, quei tanto discussi anni immediatamente precedenti la mia nascita. Azioni come la Liberazione di Icaro o la Processione laica (o Processione del cigno), da considerarsi quest’ultima l’autentico culmine dell’attività del suo Open Laboratory, sembravano ad un tratto materializzarsi davanti a me conducendomi in una dimensione che infondo non era tanto lontana nel tempo effettivo, eppure i circa trent’anni che ci separavano, durante i quali ogni tensione utopica sembrava essere stata sacrificata sull’altare dell’edonismo più ebete e becero, la rendevano ai miei occhi di una distanza siderale.



Icaro liberato, 1976.

Un brano, in particolare, che Ciro aveva scritto all’epoca a proposito dell’Icaro mi colpiva molto, e tutt’ora mi risuona spesso nella mente: «Icaro siamo tutti noi! Noi alla ricerca di quei valori che ci liberino dai tabù della cultura tradizionale, protesa solo a relegarci ad un ruolo subalterno, condizionato dalle classi dominanti. L’esigenza di uscire da tale condizione ha spinto le masse, acquisita coscienza della propria emarginazione, verso una sempre più qualificata capacità organizzativa per una lotta razionale contro i privilegi dei pochi» (C. de Falco, Icaro liberato in E. Crispolti e al., Open Laboratory. Attività estetica e territorio, Produzione culturale “Alzaia”, Roma, 1978, p. 53). Mi sembrava che più di ogni altro fosse in grado di restituire quello che era il clima di attesa di una palingenesi che in quegli anni si respirava, e tanto più mi colpiva allorché, col senno di poi, riflettevo quanto repentinamente, nel giro di pochi anni, quel sole dell’avvenire che si credeva di scorgere all’orizzonte avrebbe fatto spazio al più triviale e desolante degli scenari. «Il mondo moderno lascia insoddisfatti e dove esso pare soddisfatto di sé è volgare»: mai questo celebre pensiero di Marx ha trovato, a mio parere, un esempio più compiuto nella fase apertasi a partire dagli anni ottanta, la fase del riflusso.



Icaro liberato, 1976.

Ma quelle parole, al di là dello spirito dell’epoca, nonché l’operazione dell’Icaro stessa, racchidevano probabilmente anche l’indole più autentica di Ciro, erano leggibili quali emblemi e testimonianze dei suoi momenti di felicità più piena. Il processo di liberazione dell’Icaro, condotto con l’ausilio di uno sciame di euforici bambini al seguito, somigliava così ad una sorta di autoliberazione, lontana però anni luce da ogni forma di narcisismo, ed anzi assolutamente antitetica ad esso, in quanto libero librarsi in volo, ma alimentato dalla gioia della partecipazione e dello scambio. L’ispirazione innanzi tutto sociale dell’operazione si palesava del resto nelle sembianze muliebri dell’Icaro e qui vale riportare i pensieri immediatamente successivi a quelli sopra citati: «Nel contesto generale, oggi, la donna è protagonista in quanto più a lungo relegata a coprire un ruolo subalterno, per cui ha posto con accenti maggiori l’esigenza della lotta per l’emancipazione. Da qui si comprende il perché del mio ICARO donna» (Ibidem).



Processione laica (Processione del cigno), 1977.

Vi sarà chiaro a questo punto che per me l’artista Ciro de Falco è soprattutto quello della prima fase dell’Open Laboratory, quella del biennio ’75-’77, e ciò senz’altro a causa delle mie personali inclinazioni, ma un po’ anche, credo, perché è stato lui stesso a suggerire ed a suggerirmi tale predilezione. Già a partire dal 1978, infatti, con l’operazione Un tempio per Cavriago, nella quale era affiancato da Gerardo Di Fiore ed Enrico Viggiano, che da quel momento condivisero con lui il percorso dell’arte nel sociale fino al suo esaurimento definitivo, la musica parve cambiare radicalmente. Pur costituendo ancora esperienze di grande interesse, poco e nulla sembrava rimanere dello spirito originario dell’Open Laboratory, basato sul lavoro collettivo che non riguardava solo gli artisti, ma anche la “gente comune” (nel caso di Ciro quei bambini che lui tanto amava). Ora, benché ancora sopravvivesse il principio dell’arte come evento (e non meramente come oggetto) e dello spazio pubblico come luogo di creazione e di fruizione, gli spettatori recuperavano la loro tradizionale passività, preannunciando il non lontano “ritorno all’ordine”. Emblematica di tale passaggio, quanto inevitabile, fu la sostituzione dell’Open Laboratory con il più calzante appellativo, prontamente suggerito da Enrico Crispolti, di Laboratorio Tre.



Processione laica (Processione del cigno), 1977.

L’aprirsi del nuovo decennio segnò così anche per Ciro, così come per la quasi totalità di coloro che fino ad allora avevano operato nella direzione dello sconfinamento, un riparare nel chiuso dello studio e del cubo bianco e nella produzione individuale di oggetti. Egli, malgrado la gaiezza dei colori morbidi e chiari che caratterizzarono la sua pittura per tutto il resto della sua carriera (e della sua vita), non potè mai liberarsi pienamente dal senso di sconfitta, dal trauma che gli aveva procurato l’epilogo della vicenda dell’arte nel sociale ed il più generale cambiamento di clima all’interno del quale esso era andato maturando. Una insoddisfazione per ciò che avrebbe potuto essere (o per ciò che si credeva che sarebbe stato) ed invece non fu che Ciro, aspetto quanto mai meritorio, non tentava mai minimamente di dissimulare, come troppo spesso fanno coloro che proprio non riescono a sopportare il bruciore delle ferite ancora aperte e si abbandonano a revisionismi e cambi di casacca. Ammetteva bensì senza peli sulla lingua che per lui «ritornare alla pittura, nel senso di ritornare a dipingere e a creare nel chiuso del laboratorio, ha significato ‘arrendersi’ alle esigenze oggettive e pragmatiche di vita. In poche parole, arrendersi anche alle esigenze di mercato e di sopravvivenza. (…) Dar vita alle manifestazioni-opere come Processione laica, comportava sostenere delle spese che non venivano ammortizzate dall’eventuale introito di una vendita. Né tanto meno si poteva contare sull’interessamento dei fantomatici ‘cultori’ della cosa pubblica. Allo stesso tempo il “ritorno alla pittura” è stato un atto di “egoismo” da parte dell’artista: il voler riaffermare la proprietà ideologica delle proprie creazioni» (A. Iannaccone, Ciro De Falco: il sociale, il politico, il fantastico, Tesi di laurea, Relatore: Prof. Nicola Scontrino, Università degli studi di Salerno, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in Lettere Moderne, Anno Accademico 2000/2001, p. 118).



Processione laica (Processione del cigno), 1977.

La parabola di Ciro de Falco fa dunque pienamente parte di quella staordinaria quanto fallimentare vicenda dell’avanguardia artistica e politica che ha informato il secolo breve, spegnendosi prima del termine cronologico effettivo di esso. Oggi che ogni discorso fondato sui prefissi “post” e “trans” appare sempre più chiaramente nel suo carattere non meno ideologico e deleterio di quelli che lo hanno preceduto, ma con un surplus di nichilismo conservatore, è su esperienze come quelle di Ciro che bisogna ritornare a riflettere e studiare, sia pure, un po’ come la celebre figura kleeiano-benjaminiana dell’Angelo della Storia, continuando inevitabilmente ad incedere verso il futuro.

Stefano Taccone

martedì 28 giugno 2011

ROSARIA IAZZETTA, Franco Riccardo Arti Visive, Napoli

(da “Segno”, anno XXXVI - n. 236 - Estate 2011, p. 64).

Storicamente vi sono mostre, eventi o anche singole opere che segnano l’inizio di un ciclo, il primo passo di un percorso che, osservato retrospettivamente man mano che va consumandosi, appare connotato da un profondo rinnovamento rispetto a quella che è stata la fase immediatamente precedente, mentre, in altri frangenti, circostanza altrettanto desiderabile e necessaria, si perviene piuttosto a porre i tasselli conclusivi, si sente il bisogno di stilare un bilancio e di fermarsi a riflettere su di esso con ampio respiro. Quest’ultimo mi sembra essere il caso di Nothingness, personale con la quale, dopo circa otto anni, Rosaria Iazzetta ritorna ad esporre presso il gallerista che la accolse quando era ancora giovanissima, e del correlato libro d’artista, La mala tolleranza, edito da Ulisse & Calipso Edizioni Mediterranee.



Per certi versi questi due nuovi progetti si pongono in assoluta continuità con quelli che da lungo tempo costituiscono i tratti salienti della poetica della Iazzetta: da una fotografia intesa come strumento attraverso il quale fissare le sue narrazioni visive, spesso tanto caricate ed iperboliche quanto improntate ad un forte contenuto morale, che non si fa remore di porre gli spettatori di fronte a scelte nette, secondo una perentorietà che ricorda l’esortazione evangelica al «sì, sì; o no, no» (Matteo 5, 37), ad una scultura, tipicamente in ferro, basata su tecniche pazientemente apprese durante il lungo soggiorno giapponese, in cui l’urgenza del messaggio, benché calato in un linguaggio inevitabilmente meno immediato, risulta non meno preponderante. Ma è anche vero che entrambi appaiono il naturale approdo di un percorso intrapreso dal 2009 con P.N.P.- Progresso non pubblicità, che l’ha portata ad installare, su alcuni edifici delle cittadine vesuviane di Ercolano e Pompei, manifesti ove le sue consuete situazioni fotografiche interagiscono concettualmente con i testi scritti, ed altri episodi simili, ma senz’altro anticipati dalle frasi su sfondo giallo che comparvero tra il 2007 ed il 2008 a Scampia nell’ambito del suo progetto immediatamente precedente, Parole dal Cemento.



Rosaria Iazzetta, Ritorno al bene, 2011.

Diretta filiazione del portato etico-estetico di P.N.P. è da intendersi il libro d’artista, nel quale, peraltro, le numerose testimonianze dirette di sopruso provenienti da coloro che vivono a Napoli e nell’hinterland sono corredate dalle immagini già costitutive di quel progetto. Ad esso si aggiunge l’altra semi-novità rappresentata da due opere basate su riproduzioni di dipinti seicenteschi quasi in scala 1:1: rispettivamente una Madonna con Bambino e santi di Luca Giordano, in cui il volto della Madonna è sostituito da un avvicendarsi di volti di celebri esponenti della malavita organizzata, mentre quelli dei santi sono sostituiti da un avvicendarsi di volti di celebri esponenti politici, e la scena del ritorno del figliol prodigo di Mattia Preti, che, interagendo con una scultura posta attiguamente ed essendo lo stesso dipinto plasmato a mo’ di scultura, funziona come auspicio di una finale vittoria del bene.

Stefano Taccone

domenica 5 giugno 2011

OGNI DONNA SONO IO – La creazione al femminile contro la donna simulacrale

Stefano Taccone: Care Sara ed Antonella, il discorso articolato dalla collettiva da voi curata, Ogni Donna Sono Io, inauguratasi poco più di una settimana fa presso la Pinacoteca provinciale di Potenza, e che essa induce ad articolare, appare il prodotto dell’incontro e dell’incrocio, più o meno consapevole, di diverse istanze e contingenze: il recente ed ingente riemergere in Italia della questione femminile (non mi permetterei mai di scomodare in questo caso il termine “femminismo”), benché in una forma tutt’altro che esente da dubbi e discussioni (penso naturalmente alla mobilitazione del 13 febbraio scorso che adottava lo slogan Se non ora quando?, la cui spinta propulsiva, peraltro, sembra già in via di esaurimento) e la vostra esperienza di militanza legata, tra l’altro, alle questioni di genere che è molto più “antica”, persino più antica del vostro legame con le arti visive; la celeberrima riflessione baudrillardiana sui simulacri, argomenti che peraltro hanno sempre riscosso, a mio parere non a caso, una grande fortuna tra gli artisti ed i critici d’arte, sicuramente molto maggiore rispetto alla mole di studio, alquanto esigua, che lo stesso filosofo e sociologo francese ha dedicato specificamente all’arte, e la sua traduzione, da voi compiuta, in una teoria del biopotere che soggioga la donna avvalendosi dei media.

Sara Errico & Antonella Viggiani: Intanto ti ringraziamo per non aver usato il termine femminismo, con cui abbiamo difficoltà di “relazione”.
Ogni donna sono io non nasce da un’emergenza: l’attualità è solo un fattore contingente, a spingerci è stata l’esigenza di costruire un dialogo collettivo, un luogo di discussione che andasse oltre le associazioni e il singolo con forme diverse da quelle con cui ci siamo sempre confrontate finora. La nostra militanza sulle questioni di genere è continua e comincia molto tempo fa, come anche tu sottolinei. Nasce dalla consapevolezza che essere donne rimane ancora un ostacolo in molti campi e non un valore aggiunto; il modello di donna data da questo governo rispecchia, semplicemente, quello che televisioni, riviste e giornali cercano d’imporci.
La riflessione sui media e lo stereotipo da essi propugnato, ci ha fisiologicamente riportato a Baudrillard e ancor prima a Platone, la discussione sul simulacro è stata la spinta che ci ha condotto ad immaginare una mostra su questo tema. Ci troviamo di fronte a quello che il sociologo chiama il delitto perfetto: le illusioni si sono annullate e si atteggiano a realtà. I media costruiscono una realtà che è l’unica proposta, il pensiero ormai si muove solo su codici prestabiliti, il desiderio individuale si è perso a favore di un desiderio collettivo. Siamo in trappola senza saperlo.



Silvia Giambrone, Eredità, 2008.

ST: Il riferimento a Baudrillard è fisiologico, ma è anche vero che proprio questo autore è stato più volte bersaglio del pensiero radicale, che ha individuato nelle sue tesi una forte componente conservatrice. L’esempio più significativo da citare per il nostro discorso mi sembra, per ragioni fin troppo ovvie, Hans Haacke, che con Baudrillard è entrato più volte in polemica e gli ha persino dedicato un’opera improntata ad una pungente satira, Baudrichard’s Ecstasy (1988). Quest’opera, facendo chiaramente il verso al saggio baudrillardiano L’estasi della comunicazione, apparso solo poco tempo prima, ed essendo intrisa di evidenti motivi duchampiani, è composta da un’asse da stiro sormontato da un orinatoio che comunica con un secchio da pompiere attraverso un tubo in cui l’acqua compie costantemente il suo percorso ciclico senza approdare a nulla, esattamente come, suggerisce Haacke stesso, in nulla consiste l’estasi di Baudrillard. Nella tesi della derealizzazione, che, ad esempio, conduce Baudrillard a definire l’AIDS come «”catarsi virale” intesa, stando alle sue stesse parole, come “un rimedio contro la liberazione sessuale totale, che spesso è più dannosa di un’epidemia”» o a dichiarare che la Guerra del Golfo in realtà non ha avuto luogo, Haacke scorge infatti acutamente una strategia per indebolire la volontà di cambiamento ed indurre dunque all’acquiescenza.(P. Bourdieu, H. Haacke, Libre-Echange, Le Seuil/Le presses du reel, Paris, 1994, pp. 45-47).La vostra visione invece, in quanto militanti, non può non appuntarsi oltre questa trappola simulacrale che evocate. Quali sono dunque oggi, a vostro parere, i margini e le prospettive di liberazione dal giogo mediale che individuate e quali ruoli e funzioni può assumere l’arte e, più in generale, l’estetico, in tale processo?

SE & AV: Baudrillard è stata per noi una fonte e, in quanto tale, studiato e interiorizzato. La nostra aderenza al suo pensiero non è, ovviamente totale, ma la riflessione sulla trappola simulacrale di cui ti dicevamo, ci ha occupato tempo e molte energie ed è stata per noi fondante. Solo se abbiamo la consapevolezza di essere in una trappola, possiamo da essa liberarci. Come se ne esce? Proponendo “Modelli e non modelle” come sosteneva Severgnini nei giorni del Se non ora, quando?
Il primo ciclo di Ogni donna sono io, partiva dal superamento degli stereotipi, ne abbiamo discusso e abbiamo proposto la donna come soggetto e non come oggetto. Abbiamo cercato di costruire un’identità femminile attraverso il diverso approccio professionale dei nostri relatori e poi ci proponiamo, individualmente, di decostruire il concetto di identità di genere in sé.
Non sappiamo se il superamento del giogo mediale sia attuabile e se sia possibile ora. Crediamo in una critica e il nostro strumento, come militanti e come curatrici, resta la controinformazione (permettici il termine), non riusciamo a vedere, in quest’ambito, l’arte separata dalla militanza attiva. L’arte è uno strumento che può raggiungere tutti e pertanto deve scegliere e schierarsi.



Rosaria Iazzetta, Vogliono fare tutte le modelle, ma la professoressa chi la fa?, 2006.

ST: Fin ora abbiamo citato il solo Baudrillard, ma la vostra visione dei mass media come strumenti di corruzione e di governance sembra nutrirsi anche di un’altra fonte. Alludo alla Scuola di Francoforte, benché, che io sappia, non vi abbiate mai fatto esplicito riferimento. Noto questo solo per introdurre il pensiero di un altro filosofo ancora che, pur condividendo con Baudrillard l’eclissi di una realtà oggettiva, ed anzi proprio in ragione di tale condizione, evidenzia le potenzialità emancipative che i mass media hanno non solo promesso, ma anche realizzato. Mi riferisco a Gianni Vattimo, per il quale «nonostante ogni sforzo dei monopoli e delle grandi centrali capitalistiche», è accaduto «che radio, televisione, giornali sono diventati elementi di una generale espansione e moltiplicazione di Weltanschauugen, di visioni del mondo», ovvero esattamente il contrario dell’omologazione generale della società paventata dai francofortesi. «Negli Stati Uniti degli ultimi decenni», continua Vattimo, «hanno preso la parola minoranze di ogni genere, si sono presentate alla ribalta dell’opinione pubblica culture e sub-culture di ogni specie».(G. Vattimo, La società trasparente. Nuova edizione accresciuta, Garzanti, Milano, 2000, pp. 12-13).
Pur tenendo conto del carattere visibilmente quanto inevitabilmente un po’ datato di queste affermazioni (sono state formulate nel 1989), pensate che esse possiedano una loro validità rispetto alla questione femminile, tanto storicamente, quanto rispetto all’oggi?


SE & AV: La nostra critica ai media non contiene in sé giudizi di valore. Non ci siamo riferite ai modelli di donne proposte dalla televisione, perché finora il nostro discorso si è limitato a questo specifico media, portando con sé un giudizio negativo. Quello che ci spaventa, come donne, è la proposta di un unico modello. Non ci interessa parlare di giusto o sbagliato, ci interessa immaginare un altro modello di donna, oltre alla velina, esempio semplicistico, ma efficace. La televisione non dà alternative pur fingendo di garantirle: prendiamo il linguaggio della pubblicità che ci propone un unico modello femminile sebbene lo slogan ricorrente sia: siate diversi! È un circolo vizioso, un doppio legame, per dirla alla Foucault. Se soltanto ci spostiamo dalla televisione a internet, il discorso si fa diverso: ci sono anche lì i modelli di donne simulacrali, ma c’è l’alternativa e tanto ci basterebbe. Qui il discorso di Vattimo sembra più adeguato e attuale.
Il problema è che la televisione raggiunge molte più persone, soprattutto in Italia. Il Socrate del Gorgia di Platone, ancora oggi, ci ammonisce: il teatro non ha alcunché di educativo, non amplifica le possibilità di desiderio dello spettatore, ma risponde continuamente a quelli che sono i suoi desideri contingenti.
Riteniamo, quindi, che la televisione vada vista, ma vada vista con strumenti adeguati. Lorella Zanardo, che della critica alla televisione ha fatto il suo impegno, critica nel senso stretto del termine, ha proposto una formazione per guardare la televisione, il progetto si chiama Nuovi occhi per la tv e cerca di educare sui media attraverso i media.



Claudia Ventola, È cosa buona e giusta, 2011.

ST: Ognuna delle artiste ha affrontato in maniera non laterale, sia pure nel rispetto della propria poetica specifica, le tematiche da voi poste: Katia Alicante declina la sua consueta riflessione etico-estetica sulla convivenza tra uomini ed uomini e tra uomini ed altri esseri viventi in rapporto alla questione della discriminazione sessuale; Rosaria Iazzetta, adottando il suo tipico linguaggio pantomimico, allude (ed essendo la sua opera del 2006 lo fa prima che spuntassero le varie Noemi e Ruby, ma anche prima dello scandalo di Vallettopoli) alle tante giovani che preferiscono puntare sul loro corpo piuttosto che sul loro cervello; Daniella Isamit, pagando gli uomini per prenderli a cazzotti, sembra rovesciare la dimensione rispecchiante delle
performance di Santiago Sierra, ove colui che è vittima nella vita replica
sostanzialmente il suo ruolo nell’arte, ma lo stravolgimento determinato dalla
cattura operata dai media diviene anche acquisizione di nuovi significati;
Silvia Giambrone scopre il potenziale dell’artificio e dell’iperbole nelle
tecniche di seduzione, ma addita anche il carattere di strategia di controllo sul
corpo femminile che la seduzione stessa rappresenta; MaraM, attivando pratiche di relazione con donne che hanno subito violenze, analizza la
dialettica tra lo svelare ed il nascondere in rapporto alla loro intimità; Valentina Meli, con una illustrazione dal carattere neosurrealista, manifesta la necessità di sdoganare i discorsi sulla sessualità e di educare alle sue regole. Claudia Vendola, assumendo l’immagine di madre attraverso un curioso stratagemma, una sorta di bambolotto iperreale (che arriva tra le sue braccia al prezzo di duecentoottantasette euro più spese di spedizione), constata quanto la maternità sia ancora comunemente considerata «cosa buona e giusta».
Tuttavia su sette selezionate mi sembra di poter dire che soltanto una di loro, la Isamit, che peraltro non ha ancora una produzione corposa, è solita lavorare specificamente sull’identità della donna. Per altre due, la Giambrone e MaraM, si tratta di un motivo ricorrente ma non preminente. Per le restanti quattro esso è più che altro episodico.
Fino a che punto ritenete che tra le giovani artiste sia diffusa la coscienza delle
problematiche connesse all’essere donna? E sono molte o poche, a vostro parere, le artiste che lavorano su di esse? E tra le giovani operatrici dell’arte e della cultura quanto è diffusa tale coscienza? E, allargando ulteriormente il cerchio, quanto è diffusa tra le giovani in genere?


SE & AV: Per quanto riguarda le artiste di Ogni donna sono io, prescindendo dalla loro “adesione alla causa” più o meno occasionale, siamo davvero contente e soddisfatte di tutti i lavori e delle declinazioni di ognuna di loro. La loro riflessione ha toccato importanti aspetti dell’essere donna oggi e per ognuna di loro è stata un’esperienza personale.
Non crediamo si possa distinguere tra artisti, operatrici dell’arte e giovani in generale. La sensibilità alle questioni di genere è personale e prescinde dal “ruolo”. La cosa che, invece, riteniamo più pericolosa è la strumentalizzazione del concetto di emancipazione. Le donne lo restringono alla sessualità e ad abiti più o meno succinti e gli uomini la paventano e auspicano, ma sul corpo delle donne. L’idea di emancipazione, di cui soprattutto le giovani si fanno portavoce, è distorta e pericolosa. Distorta perché non è la libertà sessuale a definirla e pericolosa perché risponde perfettamente alle esigenze del capitalismo. Per sopravvivere il capitalismo ha bisogno di fare suoi i reali strumenti di emancipazione ed inglobarli al suo interno, annullarli, svuotarli di senso e significato, ma soprattutto ha bisogno di controllarli.
In un modo o nell’altro ritorniamo sempre al concetto di trappola. La minigonna, che è stata un reale strumento di emancipazione, ora è strumento di controllo, ma sono solo in pochi ad accorgersene.

mercoledì 18 maggio 2011

MICHELANGELO CONSANI, Fabio Tiboni / Sponda, Bologna

(da “Segno”, anno XXXVI, n. 235, Marzo/Aprile 2011, p. 46).

Da oramai diversi anni il filosofo ed economista francese Serge Latouche, avendo assimilato la lezione di teorici a lui precedenti come Nicholas Georgescu-Roegen, Ivan Illich, Marcel Mauss o Karl Polanyi, va propugnando il sistema della decrescita e la necessità dell’avvento di una società ad essa improntata. Con lo scoppio della più grave crisi economica mondiale dai tempi del crack del ’29, il cui inizio può essere convenzionalmente ricondotto a circa due anni e mezzo fa, quando nel giro di un bimestre (settembre-ottobre 2008) scompaiono le banche d’affari più note, il suo pensiero, con la sua connotazione radicalmente antisviluppista ed in un contesto in cui la concezione del progresso fondato sulla crescita illimitata del P.I.L. appare ormai sempre più una chimera, sembra acquistare ulteriore attualità. Da ormai diversi anni l’artista livornese Michelangelo Consani va elaborando un linguaggio che, affondando, tra l’altro, le radici in una tradizione di staticità catatonica e di riduzionismo linguistico tutta italiana, quella poverista innanzi tutto, si salda esteticamente con i principi di sobrietà tipici del pensiero del postsviluppo, ma fa proprie anche le sue ragioni, adottando naturalmente Latouche come primo e fondamentale riferimento. Con La festa è finita, personale che si inaugura a soli sei mesi di distanza da quella ospitata presso l’EX3 di Firenze, Dinamo, e a quasi tre anni da quelle tenute rispettivamente presso Nicola Ricci a Pietrasanta, Quanto può durare un secondo?, presso la White Project a Pescara, Progetto di disperdere energia, tutte dallo spirito costantemente imbevuto di motivi decrescenti, il sodalizio tra Consani e Latouche trova finalmente il suo compimento, con il secondo che firma sul pieghevole, accanto al testo del curatore Pier Luigi Tazzi, un pezzo il cui titolo, al pari di quello della mostra e sulla scorta di Richard Heinberg, autore del saggio intitolato appunto La festa è finita, nel quale riconduce l’irrompere della crisi, comprese ed in particolare le sue radici finanziarie, all’aumento dei costi dell’energia dovuto al progressivo scarseggiare del petrolio, fa riferimento, tramite la metafora della festa, alla conclusione irreversibile di un’epoca fondata sullo spreco sconsiderato di risorse connesso alla loro apparente inesauribilità.





A tale singolare cerimonia d’addio, ove la nostalgia per “il bel tempo che fu”, al quale, malgrado i limiti e gli errori che ora ci sembra di scorgere chiaramente, rimaniamo non di meno legati, essendo comunque tutti noi nati e cresciuti in esso, sia pure nel periodo del suo epilogo, sembra comunque sopraffatta dal fascino che porta con sé la nuova era, le cui modalità ivi vigenti scopriamo peraltro già da tempo operanti in mezzo a noi, Consani “invita” una pletora di personaggi legati l’un l’altro da complesse e variegate affinità ed antinomie ed in grado di articolare, con la loro evocazione visiva, una riflessione-narrazione sul capitalismo in fase avanzata come territorio-laboratorio di molteplici pratiche ed istanze volte alla critica ed al superamento dello stesso sulla base di una logica che non si fonda sulla mera transizione di proprietà dei mezzi di produzione, come sostanzialmente intese nel secolo scorso il “socialismo reale”, ma, più a monte, intende per lo più porre in discussione il loro stesso uso, osservando una concezione del bene comune che trascenda profondamente il “qui ed ora”. Emblematici a tal proposito risultano, ad esempio, due personaggi “marginali”, ovvero un genere di personaggi per il quale Consani ha mostrato già in diverse occasioni di nutrire una particolare simpatia e predilezione, come Arthur Hollins, pioniere della conservazione del terreno agricolo e da pascolo, sostenitore della teoria della non-aratura dei campi e Masanobu Fukuoka, padre dell’agricoltura naturale o del non fare, ma anche, a sorpresa, Henry Ford, lo storico industriale statunitense dal quale deriva il nome di una forma di produzione la cui intrinseca filosofia può considerarsi una sorta di negazione della decrescita, eppure promotore del progetto Hemp Body Car, un’automobile che, alimentandosi con carburante ottenuto dalla canapa distillata, non produce inquinamento atmosferico.

Stefano Taccone

martedì 26 aprile 2011

"INSIEME" DI PEPPE PAPPA - L'Italia allo specchio

Dalla brochure di Insieme, Installazione di Peppe Pappa (Vernissage: Fonderie Righetti – Villa Bruno, San Giorgio a Cremano, 6 aprile 2011).

Qualche settimana fa un esuberante e combattivo “intellettuale padano”, intervenendo in un talk show dedicato all’imminente centocinquantenario dell’Unità d’Italia, osservava come fino a qualche mese fa nessuno sapesse che cos’è il 17 marzo, mentre ora tutti quanti sembrano riscoprire improvvisamente il sentimento verso il tricolore ed emozionarsi alle note dell’inno di Mameli, atteggiamenti che, intendeva probabilmente insinuare, sono esclusivamente dettati dalla necessità di opporre nuovi espedienti propagandistici contro la Lega ed il suo popolo. Tale discorso, per quanto colui che lo ha pronunciato possa apparire detestabile e per quanto si possa essere lontani anni luce dalle ragioni della fazione cui egli appartiene, mi sembra illuminante sulle dinamiche dell’odierno dibattito pubblico che accompagna la ricorrenza.
Sorvolando sulle controversie tragicomiche (in quanto risibili per il loro bassissimo profilo, ma condotte da coloro che dovrebbero occuparsi della guida del paese e dunque rappresentare la quintessenza del suo valore intellettuale e morale) del tipo “festeggiare l’Italia unita restando a casa o lavorando”; “festeggiare l’Italia unita prima o dopo aver approvato il federalismo; “chi è per l’Italia unita è anche per l’Italia federalista o meno” etc., la realtà è che il campo della visibilità mediatica (ché il paese reale è un’altra cosa) risulta sostanzialmente diviso tra chi, come da almeno due decenni a questa parte, si mostra freddino, quando non ostile al concetto di italianità, poiché, agitando in sottofondo lo spettro del “sacco del nord” (Cfr. L. Ricolfi, Il sacco del nord. Saggio sulla giustizia territoriale, Guerini e associati, Milano, 2010), promette alla sua gente un futuro di prosperità in virtù della definitiva liberazione da “Roma ladrona” e chi, come quella che potremmo a buon diritto chiamare “postsinistra”, in quanto erede diretta di una identità un tempo effettiva, ma oggi, come sostengono Marino Badiale e Massimo Bontempelli nel loro amarissimo saggio La sinistra rivelata, assolutamente «priva di un contenuto preciso e quindi vuota» (M. Badiale, M. Bontempelli, La sinistra rivelata. Il Buon Elettore di Sinistra nell’epoca del capitalismo assoluto, Massari editore, Bolsena, 2007, p. 180), è pronto ad appropriarsi di qualsiasi argomento “politicamente corretto” pur di arginare la sua totale mancanza di reale motivazione, esclusa naturalmente quella di conquistare e/o rimanere al potere.
Nel mezzo del frastuono prodotto da tale antitetico ma infondo assai simmetricamente orientato dualismo (dal momento che se le contrapposizioni si manifestano in modalità anche molto accese e violente, il fine ultimo degli uni e degli altri è in definitiva il medesimo) ciò che viene posto tra parentesi non sono soltanto i reali, e certo più articolati, pensieri ed aspirazioni dei cittadini, e neanche i loro, e sempre più urgenti, bisogni materiali, bensì anche ogni seria e documentata riflessione di carattere storico volta alla comprensione dei fatti, nella loro ambivalenza e complessità, più che alla messa a punto di nuove ed immediate armi dialettiche (che peraltro di dialettico hanno davvero ben poco). Più che un tabù, infine, bensì un qualcosa di paleolitico verrebbe considerato un discorso che facesse appello alla preminenza di quello che un tempo si chiamava “internazionalismo proletario”, ma tanto il “pericolo” che qualcuno tiri fuori un rottame di tale risma è praticamente prossimo allo zero. Resta sempre da spiegare tuttavia per quale motivo la moltitudine dei giovani precari e sottopagati italiani ed europei debba sentirsi più vicina alla casta che guadagna in un giorno quanto loro non guadagneranno per un’intera vita ma appartiene, come loro, alla “nobile stirpe italica”, piuttosto che, ad esempio, alla coetanea moltitudine che in questi mesi sconvolge l’area magrebina.



A fronte di tale confuso quanto scarno dibattito Peppe Pappa recupera i modi e le ragioni del suo percorso recente e meno recente, compresi quelli esplicati in alcuni di quei frangenti in cui, come avviene da circa un anno e mezzo a questa parte, indossa le vesti del curatore, ruolo che peraltro ha ancora intenzione di ricoprire in futuro, oltre e piuttosto che come artista. Eludendo tanto l’acritica celebrazione quanto la becera svalutazione, nonché forte, per un verso, dell’ineludibile tensione morale che oggi come ieri non può risiedere al di fuori dell’orizzonte di colui che, per quanto sia titolare di un potere d’impatto assai limitato rispetto alla megamacchina del consenso plutocratico, si cimenta nella produzione autonoma di linguaggio (sono questi alcuni dei principi ispiratori della mostra curata da Pappa nel giugno del 2010, Moralità per il mondo), e conscio, per un altro verso, della condizione di particolare criticità che attraversa il nostro paese da tempo, ma che negli ultimissimi anni pare aver conosciuto una ulteriore radicalizzazione (uno scenario tale da indurlo ad intitolare la mostra da lui curata il mese immediatamente successivo Impeachment, l’Italia fatta a pezzi), il suo discorso intende porre l’oggetto della contesa su di un piano di problematicità.
Il motivo del frammento, della lesione, del parziale, dell’incompiuto è probabilmente, peraltro, la cifra stilistica maggiormente in grado di connotare la produzione visiva di Pappa in questi ultimi anni, come si può evincere, ad esempio, dalla grande installazione dedicata allo tsunami asiatico (2005), alla quale un critico di grande rigore come Mario Costa, sempre pronto a chiederci di “dimenticare l’arte” (Cfr. M. Costa, Dimenticare l’arte. Nuovi orientamenti nella teoria e nella sperimentazione estetica, Franco Angeli, Milano, 2005), rivendica un carattere di piena contemporaneità in ragione della “sterilizzazione” e del “surgelamento” cui l’artista sottoporrebbe i frammenti di rotocalchi in netta discontinuità con l’immaginario surriscaldato che prospererebbe nell’arte dell’era della non più vigente “società dello spettacolo” (M. Costa, Peppe Pappa o dell’immagine nel freezer, in Peppe Pappa - Tsunami: architettura di un'onda anomala, catalogo della mostra, Centro d’arte e comunicazione Riflessi, Villa Avellino, Pozzuoli, 2005). Eppure, come ci insegna il Socrate protagonista del Fedone di Platone, ogni cosa ha origine dal proprio contrario (Cfr. Platone, Fedone, a cura di A. Tagliapietra, Feltrinelli, Milano, 1994) e, nel nostro caso, se è vero che l’operazione di Pappa, attraverso una molteplicità di accorgimenti (Costa chiama in causa l’uso della “tela di plastica antivento”, il “lavorio del plotter”, i “gelidi, patinati e incongruenti pezzi di immagini prelevate da qualunque magazin”, la “disposizione dei pezzi” intervallati da “silenzi circostanti”…) (M. Costa, Peppe Pappa o dell’immagine nel freezer, in Peppe Pappa - Tsunami: architettura di un'onda anomala, cit.), persegue il raffreddamento delle immagini, queste ultime, essendo comunque rappresentazioni di membra vive, entrano in collisione con il trattamento al quale sono sottoposte, sprigionando così una sorta di tepore derivante dal repentino “contrasto di temperatura”, come quando un recipiente surriscaldato, essendo immesso nell’acqua fredda, comincia ad emanare fumo.
In Insieme, ove un frammento di volto umano, allegoria di un qualsiasi comune cittadino italiano, emerge squarciando parzialmente uno sfondo costituito da un tricolore rovesciato di 90º e di estrema piattezza cromatica, quella tipica della grafica digitale, può essere riscontrato un analogo “cortocircuito termico”, al quale si sovrappone lo iato esistente tra il significato del titolo, che, riportato nella parte inferiore, fa appello alla qualità di ciò che è unito, e quanto risulta effettivamente visibile, la lacerazione prodottasi all’interno della superficie stessa della bandiera e ricadente sul volto che si scorge attraverso i suoi lacerti. Il congelamento della visione si tramuta così in congelamento dello spazio-tempo al fine di permettere una più ariosa riflessione. Tale processo di solidificazione coinvolge innanzi tutto i “mal accesi ardori” della propaganda di regime, affinché i suoi clamori lascino il campo alla reale condizione di enigmatica sospensione in cui siamo immersi, alla contemplazione di un panorama, quello del presente del nostro paese, che non riusciamo a percepire con maggiore chiarezza di quanto il personaggio che ci sta di fronte, se fosse vivo, potrebbe percepire noi che lo osserviamo (anzi forse noi percepiamo ancor meno). La contemplazione di quest’opera prende così a funzionare per lo spettatore in maniera prossima ad uno specchio.

Stefano Taccone

mercoledì 6 aprile 2011

GIULIANA RACCO – Socializzare gli anni invisibili

Stefano Taccone: Cara Giuliana, la prima considerazione che mi viene da formulare sul tuo lavoro ormai in progress è che esso costituisce una visualizzazione particolarmente compiuta del principio di identificazione tra personale e politico. Partendo infatti da un oggetto di carattere burocratico, eppure inscindibile dalla nozione di individuo, ed integrandone opportunamente i dati, ci fornisci delle indicazioni che riguardano pienamente la tua singola persona, ma sono anche in grado di trascenderla per rimandare ad una condizione più generale e dunque di carattere assolutamente politico. Sia con I miei anni invisibili che con la sua futura versione socializzata porti alla luce (è proprio il caso di dirlo) la contraddittorietà strutturale del sistema capitalista, infrangi quel delicato equilibrio tra detto e non detto sul quale esso da sempre si regge. Il binomio legalità-illegalità, oggi tanto in voga, possiede proprio tale funzione: occultare la sostanza effettiva dei conflitti. La dimensione della legalità infatti non è realmente in opposizione a quella dell’illegalità, ma la prima trova piuttosto nutrimento nella seconda, così come, secondo Rosa Luxemurg, il capitalismo non è in grado di prosperare facendo a meno di aree in cui le sue logiche non vigono. Esso ha un bisogno continuo di terre vergini da depredare. La sua natura infatti, parafrasando un recente saggio di Zygmunt Bauman che proprio sulla scorta della Luxemburg si muove, è indiscutibilmente parassitaria.

Giuliana Racco: Sì, sono pienamente d’accordo che l’illegalità faccia comodo al sistema della legalità e che il secondo, appunto, si nutra dal primo. Parto dalla mia esperienza individuale per giungere a una situazione che ipotizzo generale. È una mia modalità di lavoro, perché ritengo che l’esperienza è fondamentale, vivere le cose aiuta a percepirle, e per me il personale è assolutamente il politico. Sono da molto tempo interessata ai linguaggi scritti (e non solo), per me sono uno strumento utile all’osservazione. Nel mio lavoro sono alla base di buona parte della ricerca. Per esempio, in questo caso, trovo che il linguaggio burocratico sia una zona fertile per comprendere il funzionamento di una società, perché, appunto, tocca sia il singolo che la collettività.



Stefano Taccone: A proposito di linguaggio burocratico mi viene in mente un passaggio della prefazione dell’ultimo saggio di Michael Hardt e Toni Negri, Comune (2009), tradotto in italiano solo da pochi mesi, che chiude la trilogia iniziata con Impero (2000) e proseguita con Moltitudine (2004): «il nucleo della produzione biopolitica non è tanto la produzione di oggetti per il consumo dei soggetti, come la produzione di merci, ma la produzione della stessa soggettività». Se la produzione della soggettività informata alle logiche di dominio imperiale, per riflettere adoperando categorie tipiche dei due autori di cui sopra, ha non poco a che vedere con la produzione di linguaggi, l’arte, in quanto territorio di una peculiare intersezione tra linguaggio e realtà, può costituire un dispositivo di resistenza particolarmente opportuno.

Giuliana Racco: Credo dipenda da ciò che intendi per “resistenza” e per “dispositivo”. Anche se cerco di lavorare il più frequentemente possibile fuori dai canali tradizionali dell’arte, sono pienamente consapevole che ciò che realizzo raggiunge solo un certo pubblico. Ma senz’altro creare spazi di riflessione attraverso modalità che non sono possibili in altre forme è ciò che l’arte può e deve fare. Non vi è alcuna resistenza senza riflessione, consapevolezza o problematicità. Ciò che mi interessa più di ogni altra cosa è mettere in luce come i linguaggi che adoperiamo incidono sulle nostre realtà e le riflettono. Per esempio, nel progetto delle cartoline, ho analizzato i termini che erano entrati in uso nel corso del periodo del razionamento durante il delirante sogno autarchico di Mussolini, al fine di rintracciare come questi stessi termini in seguito caddero in disuso o furono alterati di significato. Pur affrontando un particolare momento storico, non credo che sia così lontano da quello che viviamo oggi. Pensa soltanto al modo in cui i termini sono attualmente manipolati dai media. In Survival English, attraverso un manuale che sembra insegnare la lingua dominante contemporanea mondiale (l’inglese), ho creato dei problemi/esercizi, a volte cinici a volte ludici, dal finale aperto e relativi a cinque principale moduli/soggetti. In Buongiorno (il fotoromanzo che ho realizzato in collaborazione con Matteo Guidi), entrando in una fabbrica “x” in Veneto (su commissione) e intervistando i vari lavoratori sulla questione del tempo, sono venute fuori molte cose interessanti circa la modalità in cui i lavoratori si sono espressi.
In quest’opera, il progetto CV, mi interessa ciò che scriviamo/raccontiamo noi stessi, come cambiamo in base ai differenti scopi. Vedo i CV come ritratti scritti, naturalmente ciò che essi mostrano è solo una parte di una persona – la sua vita lavorativa – ma questa è una parte importante della vita di molte persone, forse per alcuni la più importante. Basti pensare che, quando veniamo presentati a qualcuno, quest’ultimo ci chiede che lavoro facciamo. Ci viene costantemente chiesto di definirci in base alla nostra professione. Sto chiedendo alla gente di scrivere TUTTO su di un foglio di carta A4, di non tagliarlo ed adattarlo per soddisfare una qualche idea che un potenziale datore di lavoro può desiderare di vedere – tutto, per quello che uno può ricordarsi, su di un pezzo di carta, senza abbellimenti ed indicando realmente se era legale o meno, se si trattava di uno stage o anche di qualcosa di difficile da definire. Dunque si tratta di un dispositivo di resistenza? La gente ha reagito in maniera molto diversa a questa “chiamata ai CV”. Alcune persone dicono che le fa male pensare a tutto quello che hanno fatto e preferirebbero non guardare all’indietro e ricordare. Altri, invece, trovano l’esperienza utile, una sorta di riaccendersi della consapevolezza di quanto hanno fatto, come l’hanno fatto e le condizioni in cui essi hanno lavorato e vissuto. Così, in questo senso, lavorando sulla consapevolezza, in particolare attraverso l’esperienza personale, mettendo in discussione e minando il linguaggio tecnico-burocratico che adoperiamo per definire noi stessi, viene prodotta, credo, una certa resistenza, ma è una resistenza in forma libera ed astratta ed è molto differente da un’azione diretta organizzata e finalizzata.



CERCO CURRICULUM VITAE

Il 31 maggio si concluderà la raccolta del primo libro di ritratti in Curriculum Vitae.

Chiedo, a chiunque possa essere interessato a partecipare al compimento di questa opera,
di INVIARMI un CV con tutte le proprie esperienze lavorative (svolte in qualsiasi settore) esprimendo sia quelle in REGOLA che quelle in NERO.

Ogni CV sarà pubblicato ANONIMO (come anche i nomi dei datori di lavoro).

PER ULTERIORI INFORMAZIONI SCRIVETE A:
anni.invisibili@gmail.com

martedì 1 marzo 2011

ARTE, ATTIVISMO E RETE - Appunti ed ipotesi per un percorso storico.

«(...) Avrei potuto adoperare espressioni come "net art attivista" o "arte hacktivista", ma se nel primo caso avrei accentuato il legame tra arte ed internet a scapito della componente attivista, nel secondo caso avrei, vice versa, anteposto la relazione tra attivismo ed hacking a quella con l'elemento artistico. Le pratiche cui intendo riferirmi risultano invece non meno improntate dell'arte attivista tout court all'obiettivo recentemente rivendicato da Oliver Ressler di contribuire a dissolvere i confini tra arte e attivismo più che a definire i rispettivi ambiti. D'altra parte se la loro specificità risiede appunto nell'assumere l'universo della rete come contesto ove esercitare, con tutte le implicazioni del caso nelle quali ci addentreremo di qui a poco, quell'«uso innovativo dello spazio pubblico per affrontare questioni sociopolitiche e culturali ed incoraggiare la partecipazione comunitaria o pubblica in quanto strumento di trasformazione sociale» di cui parla Nina Felshin delineando l'arte attivista così come si sviluppa a partire dalla metà degli anni '70, tali pratiche non permangono sempre e comunque entro i confini del virtuale (da qui la soluzione "...e rete" piuttosto che "...della rete). Tra spazio virtuale e reale sembra esserci piuttosto un confine estremamente labile e poroso e la nota di maggiore interesse pare anzi risiedere proprio nella continua, e a tratti sorprendente, ridefinizione dei rapporti tra i due ambiti, circostanza ben considerabile alla luce del principio del "se funziona, lo usiamo" nel quale Douglas Crimp scorge l'autentico fondamento della poetica dell'arte attivista, benché il suo riferimento originario siano i collettivi anti-Aids degli anni ottanta, ancora lontani dall'approdare al digitale (...)».

(S. Taccone, Arte, attivismo e rete. Appunti ed ipotesi per un percorso storico, in G. Di Rosario, L. Masucci (a cura di), OLE Officina di Letteratura Elettronica, lavori del convegno, PAN Palazzo arti Napoli, 20 -- 21 gennaio 2011, Atelier Multimediale edizioni, Napoli, 2011, p. 394).

venerdì 21 gennaio 2011

L'ESPERIENZA DI FRONTIERA – Riflessioni a freddo

Le domande posteci dalla giovane critica e curatrice Sara Errico, che sta conducendo alcune ricerche incentrate sulle pratiche artistiche nello spazio pubblico, ci forniscono l’occasione per tornare a riflettere su quella che è stata la nostra esperienza curatoriale nel territorio di Scampia tra il 2007 ed il 2009.

Sara Errico: Corrispondenze di frontiera è un dialogo con un luogo, un luogo che riassume in sé tutte le meraviglie e le contraddizioni di una città come Napoli. Cosa significa lavorare in uno spazio pubblico in un posto come Scampia, dove il pubblico è in realtà proprietà di tutti? Dove entrare in un parco somiglia molto ad entrare in casa altrui?



Rosaria Iazzetta, Parole dal cemento, 2007-2008.

Pina Capobianco: Meraviglie? Scampia ha ben poche meraviglie, tangibili ed immediatamente visibili. Ben poche; non nessuna.
Quanto al lavorarci è stato particolarmente stimolante per gli artisti, i visitatori e quanti, tra adulti e bambini, hanno collaborato alla creazione di alcune opere e partecipato agli incontri- dibattiti.
L’affluenza del pubblico è stata soddisfacente, apprezzabile; esso, tra l’altro è venuto anche da altri quartieri della città e dalla sua provincia.
Ciò nonostante e nonostante la volontà di uscire dal chiuso dello spazio espositivo di Corrispondenze di frontiera per “invadere” l’aperto dello spazio pubblico del quartiere con Incontri di frontiera – il tutto ha finito per configurarsi come un hortus conclusus. Il che, c’è da dire, è una caratteristica oserei definire genetica, autoctona del quartiere – a me tra l’altro inspiegabile – che finisce con l’essere tipica di qualsiasi attività (sociale, politica, culturale, sportiva, laica, religiosa) e di chiunque a diverso titolo lavora nel e per il quartiere. Le une e gli altri finiscono per configurarsi sempre i s o l a t i proprio come gli edifici di Scampia che sono per l’appunto di fatto e di nome i s o l a t i.



Antonello Segretario, LandEscape, 2008.

Stefano Taccone: In realtà Scampia, oltre a riassumere, per certi versi, «le contraddizioni e le meraviglie di Napoli», è un luogo che per la stragrande maggioranza dei napoletani residenti in altri quartieri (e forse anche per molti abitanti dell’hinterland) si colloca ad una distanza mentale assai maggiore rispetto a quella che fisicamente li separa nei fatti da essa. Molti napoletani, ad esempio, si meravigliano quando scoprono che Scampia è a soli cinque minuti di automobile da Capodimonte. Anche per me, provenendo da tutta un’altra zona della città, alcuni anni fa era così. Inoltre essendo abituato alla tangibile densità abitativa di certi tratti di Fuorigrotta, il quartiere dove ho vissuto gran parte della mia vita, quando camminavo per Scampia mi coglieva una sorta di horror vacui, misto ad una certa ansia connessa alla difficoltà di orientarmi (ci ho messo una vita per imparare le strade) ed alla coscienza di essere nel quartiere simbolo di Gomorra.
Credo che la visione più compiuta ed eloquente di cosa sia Scampia e di cosa significa lavorarci sia stata fornita da Antonello Segretario, autore dell’ultimo intervento di Corrispondenze di frontiera, che subito dopo però, ahimè, ma per motivi che nulla c’entrano con Scampia e con il suo contributo alla rassegna, ha smesso di fare l’artista. Antonello ha descritto il quartiere come una disseminazione di oasi verdeggianti, ma racchiuse in sfere di vetro e dunque non comunicanti tra loro. La risposta a quella sensazione di soggezione permanente, di confusione tra pubblico e privato che tu evochi, sembra essere dunque una sorta di polarizzazione. Il Centro Hurtado, in collaborazione con il quale abbiamo realizzato le due mostre, rappresenta uno di questi poli ove proliferano pratiche per così dire alternative rispetto a quanto offre prevalentemente il contesto: corsi, laboratori, caffè letterario e, con il nostro arrivo, anche mostre di arti visive.

SE: Come più volte tu ripeti, la mostra aveva come materiale il contesto politico, in questo caso di Scampia. Perché lo spazio pubblico non è stato anche il destinatario fisico dei lavori proposti? Perché non intervenire direttamente nel luogo?



Salvatore Manzi, Nascondiglio, 2007.

PC: Uscire dal chiuso dello spazio espositivo all’aperto dello spazio pubblico è stato per noi un secondo passo, realizzato con Incontri di frontiera (2009), prosecuzione naturale di Corrispondenze di frontiera (2007-2008), che ha voluto una maggiore osmosi con il territorio e ha cercato la partecipazione diretta del “contesto” al fare artistico.



Ur5o, Discorso sul silenzio, 2008.

ST: Premesso che quello che tu dici è valido solo per Corrispondenze di frontiera (2007-2008), ma non per Incontri di Frontiera (2009), la mostra successiva, nell’ambito della quale non solo praticavamo lo smarginamento, ma cercavamo anche l’interazione del pubblico, credo che non ci sia una sola risposta, ma diverse, alcune delle quali ho messo a fuoco probabilmente solo adesso, allorché mi è stata posta la domanda.
Innanzi tutto il concetto di “contesto come materiale” deriva, come puoi immaginare, da Hans Haacke, il quale ha realizzato anche importanti interventi negli spazi esterni, ma solo ad un certo punto della sua carriera e comunque senza che questi divenissero mai preponderanti. Per Haacke non si tratta tanto di innestarsi su di un contesto, quanto letteralmente di catturarlo, di integrarlo nell’opera e dunque essa può anche richiedere una certa collocazione di rispetto. In questi termini ragionavo (ed in parte ragiono ancora) anche io. A ciò si aggiungevano naturalmente tutta una serie di difficoltà che definirei di carattere tecnico ed istituzionale: la limitata disponibilità di fondi, la volontà da parte del Centro Hurtado di rendere manifesta la sua partecipazione ed il rischio di dispersione che la collocazione esterna, in un luogo ove si stentano a scorgere delimitazioni e confini, poteva determinare.

SE: Come si riesce a lavorare in un luogo mantenendo una totale indipendenza e senza farsi influenzare da quanto detto, visto e scritto? Come si riesce a non cadere nella retorica comune?



Giacomo Faiella, Caval-Cavia, 2008.

PC: L’antidoto risiede nell’esperienza diretta delle cose, dei luoghi, delle persone. Del quartiere nella fattispecie. Intelligenza, oggettività, profondità, volontà, perché non ci si accontenti semplicemente di far proprio la visione che del quartiere ne danno gli altri con i loro racconti, ma si cerchi di farne una propria di conoscenza, da mettere poi a confronto con quelle che ci vengono proposte e giungere così alle proprie conclusioni e visioni.
In fondo, passando dal particolare al generale, questa pratica andrebbe estesa praticamente a tutto onde evitare di essere semplici contenitori acritici di vissuti altrui.



Katia Alicante, www.nonmeloricordopiù.it, 2009.

ST: Credo che respingere in toto l’influenza di «quanto detto, visto e scritto» sarebbe stato un errore almeno pari all’assumere tutto ciò senza alcuna verifica, oltre che qualcosa di non realmente possibile. L’antidoto, secondo me, risiede proprio in un attitudine all’indagine che si basi sul continuo confronto tra narrazione dei media ed osservazione diretta dei fatti. Del resto molto spesso i media vanno più intesi come oggetto di studio di per se stessi che come veicolo di comprensione di ciò di cui parlano. In altre parole analizzare le modalità con le quali i media (e nei media ci metto, sia chiaro, anche la letteratura, il cinema, le arti visive stesse e persino la musica, che in questo frangente è rappresentata spesso dalle canzoni cosiddette neomelodiche) parlano di Scampia non serve tanto e soltanto a comprendere la realtà del quartiere tout court, quanto a conoscere appunto l’essenza di quelle modalità stesse ed individuare le finalità che ad esse sono sottese.

SE: Il risultato del progetto ha soddisfatto le vostre aspettative a questo riguardo, se mai ce ne fossero state?



Rosa Futuro, Connect the Dots#1, 2009.

PC: Per natura, ahimè, sono piuttosto critica e tendo a vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto. Ragion per cui – ed anche stavolta ho anticipato la risposta nella prima domanda – no. Perché si è trattato di momenti circoscritti, determinati, con una loro fine. Avrei voluto continuità, costanza, progetti a lunghissimo termine, che avrebbero portato poi e magari alla creazione sul territorio di un’officina artistica, intesa come spazio espositivo da un lato e luogo per avvicinare i giovani del quartiere ai linguaggi dell’arte contemporanea- attraverso la creazione di appositi laboratori- dal’altro. Avrei voluto concretamente tracciare servendomi delle arti visive quel limes che ci accompagnati graficamente in questi anni.



Alessandro Ratti, Oggetti di uso sociale, 2009.

ST: In parte sì, in parte no. Per me, ma credo anche per Pina e per tutti gli artisti, è stata un’esperienza estremamente formativa e, per certi versi, unica. Tuttavia il nostro lavoro, se si esclude l’enorme risultato raggiunto da Rosaria Iazzetta, che, dopo tante peripezie, è riuscita ad installare i suoi banner in maniera permanente sui palazzi, non ha rappresentato per il quartiere più di un episodio circoscritto, né, del resto, avrebbe potuto essere altrimenti. Affinché la nostra iniziativa lasciasse il segno in maniera più profonda ci sarebbe stato bisogno di una presenza costante e capillare sul territorio e di strumenti di comunicazione e promozione più efficienti, circostanze che, naturalmente, si sarebbero potute verificare solo se ci fosse stata tutta un’altra disponibilità di fondi.
D’altra parte tra i nostri intenti, oltre a quello di porre in dialogo gli abitanti di Scampia con le arti visive contemporanee (sia pure, naturalmente non quella prodotta da artisti dello star-sistem, bensì da artisti sempre assolutamente radicati nella realtà sociale quotidiana), vi era, vice versa, quello di porre il pubblico dell’arte, quello napoletano ma non solo, a confronto con Scampia. Naturalmente le fasce più “alte” ci hanno per lo più completamente ignorato. Per molti altri però le mostre sono state un’occasione per vedere per la prima volta Scampia ed anche diverse persone che non sono mai venute hanno comunque mostrato interesse verso la nostra operazione. In particolare, devo dire, essa ha riscosso più curiosità nell’ambiente artistico extranapoletano che in quello napoletano.

SE: Secondo voi il contesto utilizzato come soggetto definisce necessariamente il fare artistico in modo politico?



Giuditta Nelli, Osservatori per luoghi impossibili, 2009.

PC: Credo che a definire un fare artistico in senso politico sia la volontà dell’artista in tal senso e/o le letture che di esso se ne vogliono dare. Non è genericamente il contesto, dunque. Certo è che, inevitabilmente, l’opera tradisce certe formazioni e vissuti. Ma, assumere il contesto a materia prima della propria produzione artistica non significa di per sé essere a priori di un certo orientamento politico piuttosto che di un altro. E per essere più chiara, ti faccio un esempio: vedi Impossibile sites Dans la rue di Giuditta Nelli, artista che è stata presente in Incontri di frontiera con questo suo precipuo progetto che porta in giro tra il Sud ed il Nord dell’Italia e l’Africa. I diversi contesti utilizzati non definiscono minimamente il progetto in termini di un preciso orientamento politico. Che sia così emerge chiaramente anche dalle parole di quanti ad esso collaborano.



Rosaria Iazzetta e MaraM, Nozze di piombo, 2009.

ST: Se consideriamo il fatto che qualunque aspetto della vita possiede una dimensione politica, non posso naturalmente che risponderti di sì, ma se, come credo, con l’aggettivo politico intendi un orientamento di segno per così dire progressista (benché anche quest’ultima parola non mi appaia troppo felice) la risposta è un no secco. Dipende infatti dalle modalità attraverso le quali l’artista organizza gli elementi che trae dal contesto. Egli non tradisce la verità dei dati, ma non può esimersi dal fornirne una lettura specifica, che naturalmente avrà origine dal cumulo di conoscenze, emozioni, traumi, idiosincrasie che costituisce il suo retroterra. Una lettura sedicente “neutra, imparziale” non solo non ha nulla di artistico, ma inevitabilmente non denota altro che l’assunzione acritica dei presupposti della cultura dominante, al pari di quanto, come mostra eloquentemente Herbert Marcuse ne L’uomo a una dimensione, fa la filosofia analitica, che pure non riconosce il carattere ideologico dei suoi fondamenti.
Oggi sempre più artisti, specie tra i giovani, cadono nel meramente assertivo, in quanto le loro precipue facoltà non vengono assecondate nella loro necessità di venire fuori nel migliore dei modi, come farebbe una levatrice con una partoriente, ma vengono sopraffatte da un nuovo accademismo che non ha più l’esteriorità pompier di una volta ma non funziona, ad essere sinceri, in maniera troppo differente.