domenica 5 maggio 2024

CRITICA ISTITUZIONALE E VIDEO MILITANTE IN ITALIA - Intervista a Stefano Taccone di Irene Follador

 

(L’intervista, con un altro titolo, è contenuta nella tesi di laurea di Irene Follador, Riscoperto il Corpo. Video militante, la Critica istituzionale in Italia dagli anni Settanta. Relatore: Vincenzo Estremo. Anno accademico: 2023/2024 Naba - Nuova Accademia di Belle Arti Milano)

 

I.F.: Perché la Critica Istituzionale ha avuto un percorso così arduo nel paese?

ST: Partirei dal presupposto che la critica istituzionale non è un movimento paragonabile ad altri ad essa contemporanei come il minimalismo o l’arte concettuale e non tanto per una questione di rilevanza storica, sulla quale si può sempre discutere, ma per lo scollamento, innanzi tutto cronologico, che esiste tra il nome e la cosa. Per altri movimenti più o meno ad essa contemporanei, infatti, l’etichetta e la prassi sul piano temporale coincidono. Carl Andre sa fin dall’inizio di essere un artista minimalista. Joseph Kosuth, ha scritto Adachiara Zevi, «è convinto di essere il depositario del credo concettuale» (1: A. Zevi, Arte USA del Novecento, Carocci Editore, Roma 2000, p. 184).  

Lo stesso atto di associare alcuni artisti per affinità poetiche - Michael Asher, Marcel Broodthaers, Daniel Buren, Hans Haacke – oltre un decennio dopo (2: Cfr. B. Buchloh, Allegorical Procedures: Appropriation and Montage in Contemporary Art, in “Artforum”, New York, 21, n. 1, September 1982, p. 48) nonché il fatto che il nome preciso di questo “gruppo”, che peraltro non espone mai collettivamente, si affermi pienamente soltanto nel corso degli anni Novanta, (3: Cfr. almeno B. Buchloh, Conceptual Art 1962-1969: From the Aesthetic of Administration to the Critique of Institutions, in “October”, Boston, 55, Winter 1990; J. Meyer, What Happened to the Institutional Critique?, exh. cat., American Fine Arts, New York 1993; Hal Foster, What’s Neo About the Neo Avant-Garde?, in “October”, Boston, 70, Fall 1994; Frazer Ward, The Haunted Museum: Institutional Critique and Publicity, in “October”, Boston, 73, Summer 1995)  senza dimenticare che tutta questa vicenda, storico-critica – benché non quella storico-artistica - ha come teatro esclusivamente gli USA, la dice lunga.

In Italia si comincia a parlare seriamente di critica istituzionale con riferimento alla prima ondata, ma anche alla seconda, non prima della metà del primo decennio del nuovo secolo. Come è lecito ipotizzare che la critica istituzionale di prima generazione sia stata individuata dalla seconda generazione - Mark Dion, Renée Green, Andrea Fraser - e dai critici ad essa vicini – Buchloh innanzi tutto, ma anche James Meyer, Hal Foster - attraverso una lenta gestazione tra anni Ottanta e Novanta, così è plausibile riconnettere l’interesse per la critica istituzionale in ambito italiano al fiorire dei musei di arte contemporanea nelle maggiori città del nostro paese almeno fino alla battuta d’arresto della crisi del 2008. Questo fa sì che, pur prendendo per buona – ma ci sarebbe da discutere – l’affermazione di Andrea Fraser (2005) secondo la quale la critica istituzionale non si è istituzionalizzata, ma è sempre stata istituzionalizzata (4: A. Fraser, From the Critique of Institutions to an Institution of Critique, in “Artforum”, New York, 44, n. 1, September 2005, trad. it. di una versione leggermente modificata dall’artista in S. Chiodi, a cura di, Le funzioni del museo. Arte, museo, pubblico nella contemporaneità, Le Lettere, Firenze 2009, p. 84), in Italia la essa è assunta in una dimensione che più istituzionalizzata non si può.

Emblematico di tale dinamica è il convegno Le funzioni del museo, a cura di Stefano Chiodi, che si tiene nel 2009 a Palazzo delle Esposizioni, ma è organizzato dal MAXXI, che ancora attende la celebre sede di Zaha Hadid. E ciò non solo e non tanto, come pure non manca di far notare, per la sede museale, ma proprio per i contenuti, i toni e le impostazioni generali dell’evento.

Non di meno il rapporto tra la critica istituzionale e l’Italia non può e non deve essere ridotto a tale esito. Esiste almeno un’altra chiave per approcciare alla questione italiana della critica istituzionale, validata proprio dal fatto che, come argomentato sopra, fin dall’inizio il riferimento sarà anche stato alle vicende artistiche effettive, ma la dimensione è quella del dibattito in ambito storico-critico. In altre parole, se il primo canone della prima generazione prevede Michael Asher, Marcel Broodthaers, Daniel Buren ed Hans Haacke e da allora in poi, attraverso varie altre occasioni – articoli, convegni, saggi – la critica internazionale propone integrazioni ora avanzando quello, ora avanzando quell’altro nome – e qualche volta lo fa anche qualche critico italiano, come si evince dal volume degli atti del convegno del 2009 -, (5: Cfr. in particolare G. Verzotti, Esperienza e spettacolo. Una “critica istituzionale” per i nostri tempi, in S. Chiodi, a cura di, Le funzioni del museo, cit., pp. 145-150) nulla vieta di proporre una possibile storia della critica istituzionale in Italia sulla falsa riga di quella internazionale, basandosi cioè sulle “griglie” tipologiche e cronologiche della prima, seconda e terza ondata, ma tenendo conto delle specificità del contesto italiano.

Tentativi in tal senso non esistono ancora, se non un abbozzo, per quanto non privo di preziose indicazioni, di Maria Grazia Messina, pure scaturito dall’episodio romano (6: Cfr. M. G. Messina, Modi italiani di critica istituzionale, in S. Chiodi, a cura di, Le funzioni del museo, cit. pp. 133-143). Non di meno sono convinto che una critica istituzionale con “caratteristiche italiane” sia assolutamente individuabile dalla fine degli anni Sessanta ed anche prima e che ancora oggi molti artisti italiani presentino tratti assimilabili alla critica istituzionale nelle loro opere.

Una importante intuizione di Messina, da cui ritengo si possa e si debba partire, è la qualità del potere artistico nell’Italia degli anni Sessanta, diversa da quello degli USA. In Italia, cioè, il potere non è allora rappresentato dai grandi musei di arte contemporanea, giacché, se si esclude la Galleria d'Arte Moderna di Roma, a differenza degli USA, non ne possiede. Il potere dell’arte contemporanea si identifica ancora assai più con la critica. In tal senso lo snodo fondamentale risiederebbe nel celebre conflitto tra Carla Lonzi e Giulio Carlo Argan, (7: Cfr. C. Lonzi, La solitudine del critico, in “Avanti!”, Roma, 13 dicembre 1963; ora in C. Lonzi, Scritti sull’arte, Et al./ Edizioni, Milano 2012, pp. 353-356) ed una storia della critica istituzionale in Italia dovrebbe pertanto individuare i suoi soggetti di punta non solo negli artisti, ma anche in alcuni critici, tra cui appunto Lonzi.



Andrea Fraser, Il piccolo Frank e la sua carpa, 2001, frame da videotape performance, Guggenheim Museum Bilbao.

 

IF: Nel contemporaneo quale è lo stato del movimento di critica in Italia? 

ST: Sul piano della ricerca storica e dell’analisi critica, dopo quel convegno del 2009 non mi pare si sia visto tanto altro. L’interesse, dopo qualche anno, non dico che è andato scemando, ma si è andato quanto meno stabilizzando. È probabile che ciò, come accenno sopra, sia da collegare ad una fase storica nuova, le difficoltà dei musei d’arte contemporanea – e non solo quelli – come conseguenza della crisi economica.  

Segnalerei certo il pregevolissimo studio su Marcel Broodthaers di Serena Carbone, uscito nel 2018. Per quanto esso possieda l’ambizione di essere ben più che una monografia su un artista, ma intenda fornire, come scrive la stessa autrice, «possibili chiavi di lettura ed interpretazione dell’arte di Broodthaers e di alcune tecniche, soluzioni e stratagemmi che da allora non smettono di ripetersi nell’arte contemporanea» (8: S. Carbone, Marcel Broodthaers. Poetiche dell’ombra, Mimesis, Sesto San Giovanni 2018, p. 19) - e dal mio puto di vista ci riesca anche -, non si tratta di un libro che affronta la critica istituzionale sul piano delle questioni generali, più di quanto non lo faccia il mio su Hans Haacke otto anni prima (2010) (9: Cfr. S. Taccone, Hans Haacke. Il contesto politico come materiale, Plectica Editrice, Salerno, 2010).

Tale avrebbe potuto – e voluto – essere probabilmente il libro Maurizio Coccia pubblica l’anno seguente (2019), da considerarsi comunque la prima monografia in Italia che possa dirsi dedicata al tema della critica istituzionale e precedente di ben tre anni la mia (2022), (10: Cfr. S. Taccone, La critica istituzionale. Il nome e la cosa, Ombre Corte, Verona, 2022) che comunque è molto diversa. Tuttavia, ai miei occhi, lo studio risulta ahimè inevitabilmente approssimativo innanzi tutto nella misura in cui pretende di far entrare troppe, troppe questioni in troppe, troppe poche pagine e, non dico di esaurire l’argomento, ma di fornire un contributo realmente significativo per ciò che sarebbe stato lecito attendersi. Sommari risultano così quasi tutti i territori da lui lambiti con una sorta di fretta che non si giustifica; generalizzazioni inique sono pronunciate sui movimenti di contestazione e sugli stessi snodi delle vicende storico-artistiche. Non si può tralasciare, in particolare, il carattere sbrigativo con il quale liquida la complessa questione italiana, non facendo che appoggiarsi all’autorità di qualche rigo del già ricordato saggio di Messina o a qualche parola di Pietroiusti, ma rinunciando praticamente apriori ad una verifica autonoma (11: Cfr. M. Coccia, Il leone imbrigliato. Artisti, istituzioni, pubblico, Castelvecchi, Roma 2019).  

Ancora una volta però non bisogna cercare la critica istituzionale solo nelle parole degli storici e dei critici, ma, ad esempio, nella prassi concreta degli artisti, per quanto non si richiamino per lo più esplicitamente alla critica istituzionale. Potrei fare assai più nomi, di quanti effettivamente ne tirerò fuori, di artisti italiani emersi nell’ultimo quindicennio-ventennio che vanno in questo senso, ma mi limiterò ad uno il cui lavoro è ormai tutto lì da studiare senza che, purtroppo, possa aggiungersi nient’altro al suo corpus, Chiara Fumai. Non penso tanto alle storie  reali sulle quali negli ultimi anni di vita concentra la sua attenzione, bensì al suo esplorare, tra il 2007 e il 2010, tutte le possibilità di una storia immaginaria intorno alla figura del padre, Nico Fumai, attraverso la produzione di tutta una documentazione giocosamente posticcia, ma assai verosimile, da cui si evincerebbe l’identità del cantautore italiano che, avendo esordito nel 1963 ed essendosi ritirato dalla scena musicale nel 1987, avrebbe contribuito al passaggio dalla canzone italiana romantica alla Italo disco, una operazione non priva di un certo sapore broodthaersiano (12: Per approfondire il suo lavoro liberamente ispirato alla figura del padre cfr. www.guidocostaprojects.com/it/mostre-e-artisti/194-chiara-fumai/462-nico-fumai-being-remixed.html).

Detto ciò, rimanendo ancora sullo specifico versante della produzione artistica, ci sarebbe da operare una ricognizione più accurata sugli artisti emergenti negli ultimi, ultimissimi anni, quelli nati mediamente almeno quindici-venti anni dopo Fumai (1978-2017). Potrebbe essere in tal senso produttivo esaminare il lavoro specificamente artistico che viene dai membri di punta di Art Workers Italia (AWI), oltre che le loro iniziative di gruppo, per quanto ammetta di non saperne molto e di non aver voluto approfondire molto la loro attività non solo per mancanza di tempo – che pure mi è mancato - in questi ultimi anni, ma anche per le loro attitudini troppo “sindacaleggianti”, sulle quali ho delle perplessità e che mi sembrano infine poco produttive sul piano di un esercizio critico che vada realmente alle radici, per quanto pongano delle questioni non certo infondate (13: L’attività di AWI è ben documentata sul sito www.artworkersitalia.it). Lo dichiaro a costo di provocare dissapori ed inimicizie. Si confronti il profilo e l’attività di AWI con quanto più o meno contemporaneamente è emerso negli USA: penso a StrikeMoMA, del quale in Italia si è parlato ben poco (14: Sul fenomeno cfr. S. Cavaliero e I. P. Rivas, a cura di, Dancing on the rubbles. Strategie plurali di riorientamento per il museo decolonizzato. Intervista ai membri di StrikeMoMA, in “hotpotatoes”, Milano, 5 agosto 2021, www.hotpotatoes.it/2021/08/05/dancing-on-the-rubbles-strike-moma/ ; Strike MoMA: Contesto e condizioni dello sciopero, traduzione in italiano del manifesto, in “hotpotatoes”, Milano, 5 agosto 2021, www.hotpotatoes.it/2021/08/05/strike-moma/). Mi limito a riportare una loro dichiarazione breve ma assai eloquente affinché si colga lo scarto di livello di radicalità che c’è tra il movimento italiano e quello statunitense:

 

Quando scioperiamo contro il MoMA, scioperiamo contro la sua modernità intrisa di sangue. Il monumento sulla 53esima strada diventa il nostro prisma. Vediamo le nostre storie e le nostre lotte riflesse nella sua struttura cristallina, e intravediamo futuri appena schiusi. Il museo si trasforma in un teatro di operazioni dove i movimenti interconnessi per la decolonizzazione, l’abolizione, l’anticapitalismo e l’antimperialismo possono ritrovarsi l’un l’altro. Perché Strike MoMA? Per far sì che qualcos’altro emerga, qualcosa che stavolta sia sotto il controllo dei lavoratori, delle comunità e dellз artistз, piuttosto che dei miliardari! (15: S. Cavaliero e I. P. Rivas, a cura di, Dancing on the rubbles, cit.)

 

D’altra parte, bisognerebbe capire anche, a quasi tre anni di distanza, cosa resta di StrikeMoMA, in quali esperienze è poi eventualmente confluisce o quali processi innesca, cosa che richiederebbe una ricerca ad hoc. L’esperienza di AWI, nato dalla spinta propulsiva della prima ondata della pandemia, mi pare ormai invece rifluita. O sbaglio?

Infine, qualche parola vorrei spenderla approcciando la questione da un terzo versante, quello dei musei come protagonisti della critica - o presunti tali. Sia quelli in senso stretto, sia quelli “pseudo”, sia quelli che fanno in qualche modo incontrare tali esperienze.

Nel primo caso penso al museo Madre di Napoli durante la direzione di Andrea Viliani (2013-2019), il quale dichiara di aver pensato fin dall’inizio a forme in grado «di ribaltare il punto di vista e dare quindi possibilità di interpretare il museo non solo all'artista – che pure rimane al centro della concezione di tutti i progetti –, ma anche al pubblico, affinché quest’ultimo diventasse un elemento di potenziale ridefinizione del museo», individuando in tutto ciò certo anche come una lontana genealogia nella critica istituzionale storica, ma di fatto approssimandosi al cosiddetto Nuovo Istituzionalismo, (16: Sul fenomeno cfr. almeno J. Ekeberg (a cura di), New Institutionalism, OCA/verksted, Oslo, 2003; OnCurating, “(New)Institution(alism)”, n. 21, December 2013)  ovvero quella attività che rinviene i suoi inizi nella metà degli anni Novanta, il suo epicentro nella Mitteleuropa, i suoi protagonisti nei curatori-direttori di museo e con la quale molti identificherebbero la terza ondata della critica istituzionale. Ma già nel 2017 riconosce, con grande onestà intellettuale, di non aver conseguito gli obiettivi previsti ed individua anche le cause: «il pubblico è stato condizionato dal fatto che il museo, con i suoi referenti operativi interni, fosse sia il proponente che l'esecutore di quel programma. Ad alcuni anni di distanza mi trovo ad osservare che un soggetto che interpreta la missione del museo dall'interno del museo stesso, per fornire servizi di efficienza, non è forse quello più adatto per mettere in crisi se stesso, o quantomeno per fornire delle alternative a se stesso». Diverso sarebbe stato, invece, conclude lo stesso Viliani, affidare il compito «a un curatore o a un collettivo curatoriale o a un artista (che) avrebbe potuto valorizzarne il potenziale alternativo» (17: Tutte le citazioni sono tratte da una intervista inedita rilasciata da Viliani al sottoscritto il 21 novembre 2017. Il progetto che inquadra tutti i dispositivi di “critica istituzionale” del museo ha per titolo Per_formare il Museo, evidentemente riecheggiante l’altro, più celebre, progetto di mostra in divenire Per_formare una collezione. All’epoca dell’intervista è ancora possibile trovare sul sito del museo tracce consistenti di Per_formare il Museo; ora naturalmente non più. Indicazioni per approfondire queste tematiche potrebbero però venire dal volume intitolato appunto Per-formare il museo, Electa Mondadori, Milano 2013, ma anche dalla lectio magistralis Per_formare musei tenuta da Vilani al Marco Asilo il 13 aprile 2019 e documentata al seguente indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=DyeBR-fF3jE).

        Nel secondo caso, penso al MAAM Museo dell'Altro e dell'Altrove di Metropoliz_città meticcia di Roma, inaugurato nel 2012 per iniziativa dell’antropologo, ormai a tutti gli effetti curatore, Giorgio de Finis, ma fondato sulla preesistente occupazione a scopo abitativo dell’ex salumificio Fiorucci, sorta fin dal 2009 grazie agli sforzi del collettivo Blocchi_Precari_Metropolitani (BPM), Space Metropoliz, e dimora di africani e sudamericani, di esteuropei e di italiani. La collezione, comprendente centinaia di opere, è pensata fin dal principio, stando alle parole dello stesso de Finis, come «una barricata d’arte a difesa dell’occupazione e dei suoi abitanti», nonché come antidoto per scongiurare «l’effetto enclave, un rischio che Metropoliz corre dovendo proteggersi dietro un cancello chiuso». Da una parte ne scaturisce «un “altro” modello di museo, un museo abitato e contaminato dalla vita», dall’altra l’insieme appare leggibile come «un’opera corale […] un grande “mosaico” alla cui realizzazione ciascun artista partecipa con la propria tessera» (18: G. de Finis, Il primo museo abitato del pianeta Terra della Luna, in Id., a cura di, Forza tutt*. La barricata dell’arte, Bordeaux edizioni, Roma 2015, pp. 8-9). Certo ormai gli “anni eroici” del MAAM sono trascorsi da un pezzo. Già con l’assunzione della direzione del Macro da parte di Giorgio de Finis a fine 2018 e con il conseguente spostamento del centro delle sue attività in quest’ultimo, essi sono ormai alle spalle; poi la pandemia e, fin dall’inizio, malgrado la presenza delle opere, la minaccia incombente di sgombero come una spada di Damocle su ciascuno dei suoi abitanti e indipendentemente dal colore politico delle amministrazioni. Ritengo pertanto, con tutti i suoi limiti e al netto del fatto che non conosco con precisione i suoi ultimi sviluppi, che il MAAM sia stata una delle esperienze più interessanti nel panorama dell’arte italiana dell’ultimo ventennio nel suo voler essere differenza ed all’interno della stessa costellazione, spesso un po’ malconcia, del pensare e vivere differente (19: Sul MAAM cfr. anche G. de Finis (a cura di), MAAM Museo dell'Altro e dell'Altrove di Metropoliz_città meticcia, catalogo del museo, Bordeaux edizioni, Roma 2017).

        Nel terzo caso, penso al già evocato Marco Asilo, ovvero al progetto di de Finis per il Macro che ha vita breve ma intensissima – si conclude con la fine del 2019. Non è qui mia intenzione pronunciarmi definitivamente sul valore di quella esperienza, a dir poco controversa, anche perché intrecciatasi con tutta una serie di contingenze politico-partitiche che non fanno che produrre ulteriore confusione. Credo però che ancora una volta de Finis, sempre fatti salvi tutti i limiti dati dall’inevitabile slittamento - se non vogliamo dire proprio corruzione di certi principi – che implica una cornice istituzionale in sé, e tanto più se si tratta di uno dei musei di arte contemporanea di maggior peso del nostro paese, abbia agito nel senso di una apertura degli orizzonti del possibile, cercando di mettere la sordina alle logiche mercantili, standardizzate ed impermeabili care a molti che, anche per questo, lo attaccano apriori (20: Di ciò testimonia, tra l’altro, un volume che lo stesso de Finis vuole fortemente con un gesto spiazzante. Esso raccoglie la pletora di articoli che escono a favore o contro la sua direzione prima ancora che gli siano materialmente consegnate le chiavi del museo, e questo già testimonia della straordinarietà del caso nel talvolta alquanto stagnante universo artistico italiano del contemporaneo. Cfr. C. Pecoraro, a cura di, Pro & Contro, Bordeaux edizioni, Roma 2018).  

        Potresti a questo punto rimproverarmi di aver parlato più del passato prossimo che del presente e forse avresti ragione. Ma anche le omissioni sono linguaggio. Forse è andata così perché in questo momento il grande episodio di critica delle istituzioni in Italia non saprei squadernartelo davanti. Forse perché non esiste, forse perché non me ne accorgo io che possiedo riferimenti ormai troppo vetusti, o forse ancora, meno drammaticamente, perché tra le mille faccende di cui mi sono occupato in questi ultimi anni – per amore e/o per forza – ho perso un po’ il polso della situazione. Tuttavia, ho tentato di dare delle tracce di studio da seguire. I germi di elementi di critica potrebbero ben essere in giovanissimi artisti che si sono più o meno formati in questi ultimi anni nell’ambito del WAI, e magari sono ormai anche maturati mentre ti sto scrivendo. Andrea Viliani è invece attualmente direttore del Museo delle Civiltà di Roma ed andrebbe verificato quanto dei propositi già esplicitati ai tempi del Madre sono trapassati in questa nuova esperienza. Conosco pochissimo, infine, dell’attività di Giorgio de Finis come direttore del Museo delle Periferie di Roma, ma per quanto ne so continua ostinatamente un percorso consolidato, un camminare domandando come insegnò l'EZLN.

 




Chiara Fumai, Chiara Fumai presents Nico Fumai, 2007-2010, performance.


IF: Una riflessione: accettare e esporre le critiche sembra essere una pratica sdoganata nel contemporaneo. Tuttavia, non è largamente praticata nelle istituzioni italiane, perciò viene da chiedersi perché sembra che i musei tollerino la Critica Istituzionale solamente quando diretta a altre istituzioni? Si tratta veramente solo di dimostrare i presunti valori progressisti?

 

ST: Beh, credo di aver già lambito – ma non certo affrontato – il merito di questa domanda nella risposta precedente, parlando del caso del Madre e di Viliani – un museo che tenta di fare critica istituzionale -, del MAAM e di Giorgio de Finis – uno pseudo-museo che già in quanto tale è critica istituzionale – e del Macro Asilo e ancora di de Finis – come tentativo di trasformare l’istituzione portandovi l’esperienza della “contro-istituzione”, e pure questa impresa, a prescindere da come possa essere giudicata, interroga immediatamente intorno alla nozione di critica istituzionale.

Detto ciò, devo ammettere che non so rispondere ai perché della tua domanda e ciò innanzi tutto a causa del fatto che non sono in grado di confermarne i presupposti. Per affermare con certezza che esiste uno scarto tra istituzioni italiane e istituzioni estere sul piano della pratica della critica istituzionale bisognerebbe operare una ricognizione a tappeto che richiederebbe un grosso lavoro, ma richiederebbe anche una premessa chiarificatrice su quale valore si intende dare alla critica istituzionale condotta dalle istituzioni stesse. Bisognerebbe chiedersi, cioè, se è davvero possibile una critica non di facciata che provenga dalle istituzioni e quale sia il suo orizzonte: una mera riforma oppure qualcosa di più vigoroso, fermo restando che, quando Fraser sostiene che mai la critica istituzionale – almeno i suoi esponenti di punta della prima generazione ed anche nei casi che potrebbero apparire più iconoclasti – intende abbattere il museo dice il vero (21: «[…] Comunque, chiunque conosca il suo lavoro deve ammettere che, lungi dal voler abbattere il museo, il progetto di Haacke è stato un tentativo di difendere l’istituzione arte dalla strumentalizzazione degli interessi politici ed economici». A. Fraser, From the Critique of Institutions to an Institution of Critique, cit., p. 85).

Personalmente resto abbastanza scettico anche su tutti i casi del Nuovo Istituzionalismo che si verificano negli ultimi decenni nei paesi europei che si è soliti citare come esempi virtuosi, e non solo per l’arte e la cultura - per quanto la mia conoscenza di essi non sia approfondita. Intendo dire che essi si iscrivono sempre e comunque, nella migliore delle ipotesi, all’interno di un paradigma riformista e socialdemocratico. In quanto tali, il rischio di recuperare gli elementi conflittuali, divergenti entro le maglie della normalizzazione, per quanto sia una normalizzazione “di sinistra”, è quanto meno una ipotesi. Del resto, non è un caso che il Nuovo Istituzionalismo prosperi proprio in quei paesi che pure, tanto più negli ultimi decenni, stanno mostrando che non è tutto oro quello che luccica – altrimenti non si spiegherebbero anche lì le avanzate delle destre populiste, per non usare aggettivi peggiori -, ma hanno comunque elaborato modelli di stato sociale molto efficienti, che però si radicano nella specificità di quei contesti e sarebbe ingenuo pensare di esportarli tout court in Italia e nei paesi mediterranei – infatti non ci si riesce. Ecco forse se vogliamo individuare un fondamento solido alla tesi dello scollamento sul piano della attività delle istituzioni intorno alla critica istituzionale tra Italia ed altri paesi dobbiamo seguire questa pista.

Potremmo poi seguirne anche un’altra molto più generale, risalendo fino alla fine degli anni Settanta per constatare come negli ultimi decenni l’Italia, anche in un quadro europeo che non è comunque poi così radicalmente diverso da come talvolta si voglia raccontare - il postmoderno, il riflusso, la “fine delle ideologie”, la shock economy (22: Cfr. N. Klein, The Shock Doctrine, 2007, trad. it. Shock economy, Rizzoli editore, 2007) c’è stata ovunque -, non abbia brillato sul piano del pensiero critico e dell’antagonismo in tutti i settori e in tutte le categorie, malgrado la grande stagione di fermento dei centri sociali negli anni Novanta culminata con i fatti del G8 di Genova, che comunque non sono la pietra tombale di quella parabola, come troppo spesso e disinvoltamente si vuole sostenere. Nella Prefazione alla quarta edizione italiana di La società dello spettacolo, Guy Debord scrive:

 

Gli operai d’Italia, che possono essere portati ad esempio ai loro compagni di tutti i Paesi per il loro assenteismo, i loro scioperi selvaggi che nessuna concessione particolare riesce a placare, il loro lucido rifiuto del lavoro, il loro disprezzo della legge e di tutti i partiti stalinisti, conoscono abbastanza il soggetto nella pratica per aver potuto trarre profitto dalle tesi di La società dello spettacolo, anche quando non ne leggevano che delle mediocri traduzioni (23: G. Debord, Prefazione alla quarta edizione italiana di La società dello spettacolo,1979 in Id., La Société du spectacle, 1967, trad. it. La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004, p. 38).

 

E ancora:

 

Essendo per il momento il Paese più avanzato nello slittamento verso la rivoluzione proletaria, l’Italia è anche il laboratorio più moderno della controrivoluzione internazionale (24: Ivi, p. 47-48.).

 

La prefazione è datata gennaio 1979, quindi precede di soli tre mesi quel cruciale 7 aprile ed il nefasto Teorema Calogero (25: Cfr. almeno Processo sette aprile. Padova trent'anni dopo. Voci della «città degna», Roma manifestolibri, Roma 2009). Se oggi non siamo come i francesi - che viceversa ci invidiano un Sessantotto durato un decennio, a differenza del loro - sarà anche per l’enorme apparato repressivo messo in campo che certo non comincia in quella data ma allora conosce una svolta, direi addirittura un salto di qualità, nei metodi? Dalla propaganda tossica, anche sotterranea, dei canali berlusconiani che infine “berlusconizzano” non solo anche tutti gli altri canali televisivi, ma proprio tutta la società italiana, tanto che gli stessi Ferragnez non sono che “nipotini” di Berlusconi, alla pavidità dei sindacati confederali, e non solo: tutto rinviene, a mio parere, un collegamento con quel 7 aprile e seguenti che asfalta gli ardori del dissenso italiano.

Un collegamento potrebbe stabilirsi anche con la relativa scarsa disponibilità di artisti e critici-curatori italiani a compiere scelte non strategiche e più attente non dico alle ragioni della critica, ma almeno alla qualità stessa, provando a resistere ai venti che soffiano in direzione contraria pur sapendo, in tal modo, di non poter mai salire sulla cresta dell’onda. Ma è anche vero che, per ragioni che ci riconducono al non essere la Mitteleuropa, in Italia, almeno nel campo delle arti visive, pare difficile portare avanti iniziative che siano davvero radicalmente autonome, indipendenti dalle logiche del mercato, e non solo sedicenti tali.

Infine, vale la pena interrogarsi su quanto le istituzioni italiane abbiano fatto per i principali esponenti della prima generazione della critica istituzionale in tempi relativamente recenti. Nel 2012 si apre una retrospettiva di Broodthaers al Mambo di Bologna, mostra che purtroppo non ho visto, ma che resta in ogni caso un contributo insufficiente a colmare il gap tra le istituzioni italiane ed un artista di tale portata. Haacke non tiene mai neanche una personale in una galleria italiana, figuriamoci una antologica in un museo pubblico! Solo nel 2010 inaugura la sua mostra alla Fondazione Ratti di Como ed è visiting professor nell’ambito del corso dedicato ai giovani artisti che allora è molto prestigioso, ma si tratta appunto di un ente privato. Di Buren manco vale la pena di parlare, perché quello che fa ora con la critica istituzionale degli anni caldi c’entra davvero molto alla lontana. Asher? È chi è questo sconosciuto che è pure morto più di dieci anni fa?

In generale pare che la critica istituzionale in Italia, almeno relativamente ai soggetti più legati alle istituzioni e all’ufficialità, sia un concetto che poco fortunato sul piano dell’approfondimento. Forse la si tira in ballo talvolta per abbellire qualche comunicato stampa, ma a partire da un grado di coscienza e di conoscenza abbastanza superficiale. Se si considera poi che il nome è tutto americano la circostanza genera anche un pizzico di sorpresa. Anche solo tenendo conto del filoamericanismo del nostro paese, ci sarebbe stato insomma da attendersi una sorte migliore.

 

Alberto Grifi, Dinni e la Normalina, ovvero la videopolizia psichiatrica contro i sedicenti gruppi di follia militante, 1978, frame da film, durata 28'.


IF: Nel mio progetto di laurea, tento di dimostrare che: “la videografia indipendente in Italia dagli anni Settanta è stata una vera e propria forma di Critica Istituzionale nel paese prima dell’arrivo ufficiale durante la seconda ondata degli anni Novanta”; cosa ne pensi? Quali sono i tuoi commenti a riguardo?

 

Nel 2005 si tiene la conferenza Institutional Crtitique and After, ospitata dal Los Angeles County Museum of Art (LACMA) e organizzata dal Soutehrn California Consortium of Art School (SoCCAS). Qualche anno dopo (2009) il curatore di tale evento, John C. Welchman, così si esprime nel volume derivante dal convegno del MAXXI di cui si è detto:

 

Una delle tesi avanzate in Institutional Crtitique and After, benché non in modo esplicito, come avrei preferito, è che sia pur “storicamente necessaria” (o “inevitabile”), la strategia piuttosto riduttiva e strumentale della prima generazione degli artisti della Institutional Critique (in particolare Michael Asher e Hans Haacke) ha condotto questa pratica critica nel cul de sac di un maldestro “rimedismo” decostruttivo che ha finito col far coincidere questioni politiche generali […] con le strutture finanziare e organizzative di musei e gallerie» (26: J. C. Welchman, L’arte e le istituzioni: riempire (e cancellare i vuoti), in S. Chiodi, a cura di, Le funzioni del museo, cit., p. 14).

 

Confesso che mi riesce difficile trovare una tesi con la quale sia maggiormente in disaccordo come questa espressa da Welchman. Non di meno essa costituisce il presupposto per avanzare una diversa accezione, in un certo senso più ampia ma anche meno specifica, di critica istituzionale, riallacciandola peraltro ai presupposti teorici non afferenti all’arte dalla quale, secondo alcuni, almeno in parte, discenderebbe: penso soprattutto a Michel Foucault e alla sua critica delle istituzioni totali. In altre parole, Welchman pensa ad una critica istituzionale che si rivolga contro – o meglio verso - tutte le istituzioni e non tanto contro – verso - il museo che ritiene una istituzione meno centrale nella vita di ciascuno rispetto ad altre.

I musei e le gallerie sono “un pesce piccolo” (27: M. Kelley, God, Family, Fun, and Friends: Mike Kelly in Conversation with John C. Welchman John C. Welchman, a cura di, Institutional Critique and After, JRP|Ringier, Zürich 2006. p. 350), osserva Mike Kelley echeggiando il pensiero di Welchman e conversando con lo stesso Welchman nel volume che rende conto della conferenza dell’anno prima. Fin da allora (2006) quest’ultimo concepisce l’artista californiano, in virtù della sua attenzione «alla partecipazione sociale nelle strutture istituzionali, come la famiglia e la scuola, attraverso le quali tutti noi siamo passati in un modo o nell’altro», (28: Ivi, p. 335) insieme come emblematico della alternativa alla critica istituzionale classica e della “vera” e più pregnante critica istituzionale, in quanto sensibilmente allargata.

        Prendendo a fondamento la seconda parte di questo discorso potrebbero dunque essere etichettate come critica istituzionale molte delle opere di “immagini in movimento” che tu analizzi. Un film come Anna (1972) di Alberto Grifi – che peraltro nel 1964 realizza Verifica incerta con Gianfranco Baruchello, ovvero con colui che è ritenuto tra gli artisti italiani più propriamente annoverabili nell’alveo della critica istituzionale, benché non in virtù di questo film – può essere inteso come una critica della famiglia e della maternità in particolare, contro gli stereotipi che vogliono l’una e l’altra immancabilmente felice, senza ombre. Il fanta-politico – ma neanche troppo - Dinni e la Normalina (1977) è ancora più evidente nel suo carattere di critica ad un sistema sociale che proprio in quegli anni, come sappiamo – peraltro sopra accenno al 7 aprile 1979 -, si prepara a mettere in atto un piano di “normalizzazione” che più spietato non si può. La lotta non è finita (1973) del Collettivo Femminista di Cinema pure assume come target le istituzioni tradizionali come la famiglia, ma acquista ulteriore senso rispetto al film di Grifi nella misura in cui la donna – ovvero il “sesso debole” entro un’ottica patriarcale – diviene ora autrice del racconto a tutto tondo, oltre che attrice. Il fitto dei padroni non lo paghiamo più (1972) del collettivo Videobase potrebbe essere letto come critica di quella istituzione che viene detta proprietà privata, tanto più quando essa mina il diritto ad un bene di prima necessità come la casa.

        È poi possibile evidenziare un ulteriore aspetto parlando di Anna: l’infrangersi della finzione filmica determina una messa in evidenza di ciò che c’è dietro la “macchina del cinema”, per quanto si tratti di cinema underground, e quindi il non detto, l’invisibile del film. Per quanto ciò possa accostarsi anche alle più o meno contemporanee ricerche dell’arte concettuale, specie americana, con la sua vocazione alla tautologia, ovvero alla riflessione dell’arte sull’arte stessa, sui suoi strumenti, tale portare alla luce ciò che normalmente è celato allo spettatore di un film pure ricorda assai da vicino la critica istituzionale più propriamente detta. Si pensi in particolare all’esposizione delle casse da imballaggio delle opere di Broodthaers, alla tendenza ad evidenziare, tramite le loro rispettive modalità, elementi dello spazio espositivo confliggenti con l’illusione del cubo bianco tipica di Asher e Buren o persino alle fotografie del giovanissimo Haacke del dietro le quinte della documenta di Kassel.

Non di meno assimilare tutti questi film alla critica istituzionale fondandosi sulla accezione che di essa propone Kelley – e Welchman – solleva delle perplessità. Se la specificità della critica istituzionale, come si evince, almeno tra le righe, dalle parole di Fraser, è criticare dall’interno, essere elemento di contraddizione, ma entro un contesto istituzionale, non essere semplicemente contro le istituzioni, tali opere – e i loro autori – si collocano, per quanto felicemente, troppo fuori. La nozione di critica istituzionale è in concorrenza con troppe altre modalità di definirli che probabilmente sono più calzanti e rispettose del loro tempo, del loro spirito e dei loro intenti, per esempio quella di mediattivismo, di guerriglia semiologica… Qui si misura, probabilmente, tutta l’estraneità che la critica istituzionale americana suscita su un corpo tipicamente europeo ed italiano.

 

Collettivo femminista di cinema, La lotta non è finita, 1973, frame da film, durata 28'.


IF: Il video è stato introdotto come uno strumento per la democratizzazione dell’arte e della comunicazione; così i primi artisti e filmmakers indipendenti hanno scorto una possibilità di critica non solo artistica ma anche sociale e culturale. Dunque, qual è il valore in epoca contemporanea delle immagini in movimento, che a partire dai primi anni Duemila hanno conosciuto una più vasta diffusione? La videografia ha perso la carica dirompente e di rottura che la caratterizzava in quanto strumento espressivo di una ristretta cerchia?

ST: La perdita di potenza delle immagini statiche è già evidente quasi un secolo fa, come testimonia il celeberrimo saggio di Walter Benjamin del 1936, benché il filosofo tedesco parli più specificamente di perdita dell’aura dell’opera d’arte. Egli, come è noto, imputa ciò alla riproducibilità tecnica, per cui le immagini in movimento non sono da lui intese come interessate a loro volta da questa perdita di potenza, ma appaiono, viceversa, in contrapposizione e causa della messa sotto scacco delle immagini statiche. Si pensi alla dicotomia da lui sollevata, parlando delle masse, circa «un rapporto estremamente retrivo, per esempio nei confronti di un Picasso» che «si rovescia in un rapporto estremamente progressivo, per esempio nei confronti di un Chaplin» (29: W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936, trad. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, p. 38).

D’altra parte, in Benjamin l’ambiguità tra la nostalgia per la perdita dell’aura e l’ottimismo per il dischiudersi di nuove potenzialità, tra l’estetizzazione della politica e la politicizzazione dell’estetica non permette nemmeno di descrivere univocamente la sua posizione come asserzione della svalutazione di tutte le immagini statiche, ché la fotografia, benché meno potente del cinema, pure è al fianco di esso quando si tratta di indebolire l’antico impatto delle opere prodotte con tecniche pre-industriali.

Benjamin è insomma univoco nell’affermare che si è entrati in un nuovo regime del visibile, ma non è altrettanto netto quando si tratta di preconizzare il destino positivo o negativo, dal punto di vista di un marxista, di tale regime, senza però per questo cadere naturalmente nell’errore di considerare la tecnica neutra, posizione ancora oggi assai diffusa nel senso comune malgrado gli sforzi critici di personaggi come Günther Anders (30: Cfr. in particolare G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen I, 1956 trad. it L'uomo è antiquato I. Considerazioni sull'anima nell'epoca della seconda rivoluzione industriale, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003; G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen II. Sulla distruzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003) o Jacques Ellul (31: Cfr. in particolare J. Ellul, La technique ou l'enjeu du siècle, 1954 trad. it. La tecnica. Rischio del secolo, Giuffré, Milano, 1969; J. Ellul, Le Système technicien, 1977 trad. it. Il sistema tecnico, Editoriale Jaca Book, Milano 2009), per non parlare di Martin Heidegger (32: M. Heidegger, Die Frage nach der Technik, 1953 trad. it. La questione della tecnica, goWare, Firenze 2017).

E così che l’ormai quasi ex marxista Mario Costa, fin dalla fine degli anni Settanta, può scrivere:

 

Benjamin è abbastanza consapevole delle trasformazioni antropologiche indotte, tra l’altro, dalle nuove tecnologie della visione e il fatto che egli ne abbia tenuto scarsamente conto nelle sue formulazioni politiche è, credo, imputabile all’urgenza della storia in atto che dovette impedirgli di vedere fino in fondo le sue linee di tendenza; e per questo stesso motivo egli non comprese di fatto che la trasformazione degli “apparati”, da lui richiesta agli intellettuali, non serviva affatto ad adattarli “agli scopi della rivoluzione proletaria”, ma semplicemente a modernizzarli preventivamente per renderli meglio rispondenti alle incombenti esigenze della società di massa (33: M. Costa, L’anima e le immagini, 1979, in Id., Le immagini, la folla e il resto. Il dominio dell’immagine nella società contemporanea, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1982, p. 17).

 

Costa rovescia quindi la scala di valori del marxismo stesso auspicando che l’uomo contemporaneo si liberi di ogni, peraltro tossica, tentazione di «sopravvivenza del passato», ché nulla gli vieta di «comodamente abitare nella sua alienazione, ed in essa realizzare, al limite, una forma paradisiaca di esistenza» (34: Ivi, p. 21). Conclusione cui giunge non senza risparmiarsi un attacco ai «francofortesi con la loro disperata nostalgia della morale» e allo stesso «millenarismo apocalittico di Baudrillard», (35: Ibidem).  malgrado il merito riconosciuto a quest’ultimo nel dimostrare «fino a che punto questo pseudo-ambiente di simulacri costituisca ormai l’unico ambiente effettivo nel quale attualmente si svolge la vita umana» (36: Ivi, p. 20).

        Proprio il celebre teorico della derealizzazione è un passaggio pressoché obbligato per comprendere come la riproducibilità tecnica, tranne che in iniziali, pionieristici momenti, conduca più alla esautorazione radicale del potere delle masse che al loro protagonismo, giacché tale riproducibilità giunge presto a saturare in maniera così ingente l’ambiente di immagini che esse perdono ogni potenziale scioccante che ancora è centrale ai tempi di Benjamin e si riducono così a meri significanti scevri di significato, simulacri è, appunto, il termine più celebre che il filosofo francese adopera per delineare tale condizione. Quanto all’arte ormai non è più questione di perdita dell’aura, ma della sua sparizione stessa come esito inevitabile del sovvertimento dell’estetizzazione generalizzata:

 

[…] la grande utopia dell’arte, la grande illusione, la grande trascendenza dell’arte si è manifestata ovunque. L’arte è passata ovunque nella realtà. Si dice che l’arte si smaterializzi. È esattamente il contrario: l’arte oggi è passata ovunque nella realtà. È nei musei, nelle gallerie, ma altrettanto è nei detriti sui muri, nelle strade, nella banalità di ogni cosa oggi sacralizzata senza altra forma di procedimento (37: J. Baudrillard, La sparizione dell’arte, 1988, nuova ed. a cura di E. Grazioli, Abscondita, Milano 2012, pp. 27-28).

 

All’invito alla politicizzazione dell’estetica pronunciato da Benjamin corrisponde una prassi che lo precede e lo segue cronologicamente, come ci accorgiamo se passiamo in rassegna tutta una serie di esperienze dell’ultimo secolo almeno. Dal Dada berlinese, specie quello rappresentato da John Heartfield, alla cinematografia indipendente di cui ti sei occupata, da tutta la costellazione dell’arte di azione politica o, usando una espressione di più recente conio, di arte attivista tra Americhe ed Europa – dal Guerrilla Art Action Group (GAAG) ai collettivi legati a Piero Gilardi, da Group Material a Tommaso Tozzi e Strano Network – alla stessa critica istituzionale – che è altro rispetto all’arte attivista! – fino alla memorabile esperienza di Indymedia, fondamentale anche per il movimento no global e per i giorni di Genova.

Naturalmente sul piano storico nessun processo comincia in un giorno preciso, ma resto convinto, confortato anche dall’età che ho, che mi permette di ricordare un bel po’ di mondo prima che la connessione telematica diventi una faccenda h24, che la vittoria, viceversa, dell’estetizzazione della politica, per muoverci ancora sulla falsa riga dell’alternativa benjaminiana, e quindi la radicalizzazione di ciò di cui Baudrillard parla da decenni prima e per decenni - quasi come un soggetto in preda alla sindrome del burnout – coincida, per motivi abbastanza evidenti, con l’affermazione dei social network e tanto più con la connessione internet a portata di taschino. Certo anche l’11 settembre è una data cruciale in tal senso, perché il problema non è solo la sovrapproduzione di immagini in sé, ma anche la restrizione delle maglie del controllo della rete, che, trovando nella minaccia terroristica un pretesto ideale per legittimarsi, tanto più si esercita attraverso i social network o piattaforme come Youtube.

L’oligopolizzazione di internet rappresenta una sirena cui pochi, pochissimi soggetti critici preferiscono non cedere, in quanto rende tutto più semplice, ma anche erode, piano piano, ogni spazio virtuale alternativo. Il problema è che, malgrado le impressioni, ciò non può che rappresentare uno scacco matto per un discorso di alternativa, perché esso viene completamente integrato – come mai sarebbe possibile nello spazio non virtuale – in un mega-servizio “ana-monopolistico” che ti fa esistere ma delimita anche i tuoi spazi, quando – ma in casi relativamente marginali – non ti censura. Oltretutto questo mega-servizio lucra sulla nostra attività e, nella stragrande maggioranza dei casi, assai più di quanto possiamo trarne vantaggio noi, che pure ci beiamo della sua apparente gratuità. Ce ne accorgiamo o no che siamo lavoratori senza stipendio, lavoratori volontari in una ottica assai più perniciosa e terrificante del “pesce piccolo”, come direbbe Kelley, del sistema dell’arte che pure si fonda sul lavoro non pagato? (Per un quadro a mio parere molto dettagliato e credibile di come si sviluppano e si conservano gli attuali assetti di potere della rete, su come questo oligopolio si appropri dell'esperienza umana adoperandola come materia prima da trasformare in dati sui comportamenti, alcuni dei quali servono poi per migliorare prodotti e servizi, cfr. S. Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism. The Fight for the Future at the New Frontier of Power, 2019, trad. it. Il capitalism della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma 2019).

C’è, infine, tutto il problema dei complottismi, delle fake news etc. Come distinguere la controinformazione attraverso il video ed altri media dalle folli teorie del complotto che girano in rete e che conquistano anche tanti cuori e cervelli in buona fede? Questo tipo di informazione pseudo-alternativa – siamo sicuri che in parte queste teorie del complotto non siano una invenzione sotterranea degli stessi poteri costituiti? Certo i media mainsteam ci mettono del loro facendo da cassa di risonanza, se si pensa a quanto spazio in questi ultimi anni dedicano, ad esempio, ai terrapiattisti – da una parte mette fuori gioco la controinformazione, rendendo i confini tra quella vera e quella farlocca troppo porosi ad occhi sempre meno avveduti, dall’altra non fa che rilegittimare in tal modo, indirettamente, i grandi colossi dell’informazione, ma pure gli “esperti”, i capi di stato, l’FMI, la BM, la BCE e così via dicendo… (39: Tanto sulla piaga del complottismo, quanto sulla crisi della controinformazione anche in rapporto al capitalismo delle piattaforme cfr. almeno Wu Ming 1, La Q di Qomplotto QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Edizioni Alegre, Roma 2021).