Il testo costituisce il mio contributo a Mind the Map, mostre collettiva degli allievi del corso di fotografia digitale tenuto da Robert Pettena presso l'Accademia di Belle Arti di Firenze, inauguratasi il 23 giugno 2022 presso la Manifattura Tabacchi di Firenze .
Firenze,
come tutte le città italiane con un grande patrimonio storico-artistico - e si
sa che il capoluogo della Toscana è forse la più emblematica in tal senso -,
non è propriamente un centro dove un’arte declinata al presente può avere vita
facile. Intendo dire che troppo è il peso degli Uffizi, dei Medici, del David,
di Dante etc. perché Firenze possa essere guardata nel mondo e dal mondo con
altri occhi. E ciò naturalmente costituisce delizia ma anche croce per i
fiorentini autoctoni. Delizia perché nessuno mette in discussione il prestigio
e la bellezza di tale monumentale patrimonio – senza considerare quanto
l’economia cittadina e non solo sia strettamente dipendente dal turismo -, ma
anche croce nel momento in cui esso diviene necessariamente una sorta di katechon,
ma non ad una presunta apocalisse, bensì alla possibilità di produrre ed
accogliere – anche – un’altra bellezza.
È vero che Firenze è comunque ben più “autentica” di Venezia - che vive una condizione ormai drammatica per molti versi –, nel senso che a parte il centro storico persistono diversi quartieri non turistici dove i fiorentini possono vivere e muoversi senza soggiacere all’impressione di essere avvolti da un museo a cielo aperto. Tuttavia una diversa visione resta probabilmente una conquista.
Giuseppe Penone, Rovesciare gli occhi, 1970.
«Rovesciare gli occhi» è l’invito un po’ – ma non troppo - enigmatico che Giuseppe Penone rivolge nel 1970 indossando delle lenti a contatto specchianti. Non troppo enigmatico perché in quell’opera, e in considerazione del tempo storico e della poetica di Penone, ho sempre visto una sorta di dichiarazione alquanto precoce del consumarsi dei paradigmi moderni occidentali, l’additare il transito, sia pure lentissimo, in un’epoca ove le menti e i cuori più sensibili avvertono che è necessario quanto meno rivedere l’idea di progresso se non si vuole conoscere un regresso. È l’epoca di un certo Pasolini, degli hippies, del consolidarsi dei movimenti ecologisti etc., di una spinta che, pur zigzagando e senza alcun nitore di linea e uniformità di forze, arriva fino ad oggi ed è destinata a continuare chissà ancora per quanto, benché ciò non significhi affatto che essa contribuirà a salvare la vita dell’uomo sulla Terra – con tutta l’ambiguità che quest’ultima impresa del resto comporta. Nel suo solco, infatti, oggi si trovano infatti a convivere il veganesimo radicale e le strategie di Greenwashing delle multinazionali ma anche dei “grandi” della politica internazionale. E da una situazione così magmatica, e talvolta rasentante persino punte di evidente schizofrenia, non è facile prevedere cosa potrà scaturire.
Parco delle Cascine, Firenze.
La
stessa pandemia, con la trasformazione coatta di tutta una serie di abitudini –
per quanto mentre scrivo la percezione è che, almeno da noi e sia pure a
piccoli passi, il “nuovo galateo” sarà abbandonato -, è stata una occasione per
rovesciare gli occhi e Robert Pettena, in quanto docente di Fotografia
presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze con una forte vocazione
sperimentale, non poteva non coglierla, nella coscienza che per rivedere la
città in cui opera ed insegna così clamorosamente deserta e immota come tra
l’autunno del 2020 e l’inverno-primavera del 2021 presumibilmente passerà un
bel po’ di tempo. Questo il presupposto dal quale è partito il corso dello
scorso anno.
Duccio Franceschi, Boscolosco, 2022.
In
considerazione del sia pur parziale “ritorno alla normalità” degli ultimi
dodici mesi, il corso di quest’anno elegge invece un ambiente pure carico di
storia, giacché il primo nucleo del Parco delle Cascine è costituito dalla
tenuta delle Cascine dell'Isola, acquistata dal Duca Alessandro I de' Medici
(1531-1537) e incrementata da Cosimo I (1537-1574) con l'acquisizione di altri
terreni, tutti utilizzati a scopo agricolo e per la caccia, eppure sufficientemente decentrato
rispetto ai grandi itinerari del turismo e dei traffici cittadini in generale
per farsi territorio di interrogazioni pluridimensionali e plurilinguistiche, a
partire dalla sua controversa identità di polmone verde e di riserva di
biodiversità, ma anche di luogo di spaccio di droga, nonché già nel suo stesso
essere un bosco capace di evocare tutto un immaginario ancestrale non alieno da
timori e tremori. Quello che si manifesta peculiarmente in celebri fiabe come Cappuccetto
Rosso o Biancaneve, per intenderci. Ce ne sarebbe abbastanza dunque
per dare libero sfogo tanto a riflessioni di carattere sociale quanto a
fantasie di evasione.
Duccio Franceschi, Baccanale, 2022.
Nella direzione di una visione del bosco antiidilliaca va la “tuta mimetica” proposta da Duccio Franceschi, come il titolo stesso, Boscolosco, preannuncia. Egli insiste sul bosco come spazio franco della non legalità, lo pensa innanzi tutto come teatro di una tradizione che va dai riti orgiastici antichi ai rave post-moderni, e quale soluzione migliore dunque che vestirsi in maniera tale dal distinguersi il meno possibile dall’ambiente boschivo, portando impresso sul proprio abito i colori e le forme di esso? La domanda è retorica, ma anche no, giacché con l’altro suo abito, Baccanale, non fa che contraddire la logica mimetica del suo pendant. Riproducendo la visione al microscopio di alcune sostanze chimiche e stupefacenti e quindi denotante colori molto sgargianti – predominante violacea -, diviene vice versa l’espediente per una migliore visibilità finalizzata alla rivendicazione più spudorata del gesto di trasgressione.
Zhang Wenzheng, ALLORA, AMICO, AMORE(o Il picnic notturno), 2022.
Il tratto notturno del bosco è anche il target di Zhang Wenzheng, ma
persino il nero ha bisogno di un po’ di luce per scoprirsi inequivocabilmente come
tale: da qui il proposito di illuminare il perverso cortocircuito droga-mucche
attraverso piccole costruzioni di oggetti parimenti stranianti e conturbanti. Il suo
progetto è un autentico rompicapo tra polarità che paiono scambiarsi i ruoli
prima ancora che sia possibile metterle a fuoco. Gli africani dalla pelle scura sono
gli agenti visibili del traffico di droga, eppure la “mano nera”, ovvero invisibile,
è italiana e quindi bianca. I bovini come antichi produttori di cibi sani e “pacifici”
ora si trasformano in inconsapevoli veicoli di cibi ben altrimenti “energetici”.
L’anelito
verso un bosco come spazio della rigenerazione potrebbe essere, almeno nelle
intenzioni iniziali, quello di Elisa Scarnicchia, ma i continui starnuti che
turbano la visione del suo video Sneeze paiono ratificarne
l’impossibilità. Saranno le allergie di stagione dovute alla “troppa” non
antropicità del bosco oppure, vice versa, al nostro prolungato distacco da
tutti gli altri elementi della natura che ci ha resi apparentemente più a
nostro agio in un cubo di cemento? O non sarà piuttosto il fatto che quel bosco
è tutt’altro che un’eterotopia rispetto alla civiltà ed anzi sovente nelle immagini vediamo come esso sia invaso dai
segni, spesso macrosegni, della presenza umana, non di rado peraltro neanche
particolarmente propri di una scena campestre – il cavalcavia con le automobili,
i pali della luce… Non va poi tralasciato il surplus di inquietudine che uno starnuto
anche virtuale, tanto più se ripetuto, provoca fatalmente nel prossimo in era
post-Covid 19, al punto che lo spettatore – o almeno quelli che possiedono anche
solo una piccola punta di ipocondria – ha quasi l’impulso automatico a schermarsi
valentemente dalla potenziale aria infetta che quelle esplosioni respiratorie
emettono.
Tra artisti insomma che proprio nell’Arcadia non ci credono, come peraltro
non ci credevano pienamente neanche i poeti dell’antichità, tanto è vero che la
inventarono. Così come non ci credevano gli artisti visivi di epoche passate,
anche preindustriali. Chi non ricorda, ad esempio, Et in Arcadia ego (1618-1622)
del Guercino, ove i busti di due pastori sbucano dagli alberi di un bosco per
scoprire un incongruo teschio adagiato su di un muricciolo che reca appunto il
memento mori del titolo e rimangono naturalmente sgomenti?
Stefano Taccone