mercoledì 31 ottobre 2012

GIOVANNI FRANCO - Generazione del rifiuto

(Testo distribuito in occasione della mostra Giovanni Franco 1982-2012, da me curata presso l'ART.TRE di Salerno dal 13 al 21 ottobre).

L’artista, si sa, è figura inutile; è colui che porta l’utopia, il desiderio, il sogno, il gioco, la beffa. È un errore sociale. A frequentare i rifiuti – forse solo a considerarli -, non ci si allontana da essi intatti, immuni, né si resta come prima. Sappiamo anche che essi sono un viluppo di simboli: sono rischio e fascinazione, catastrofe annunciata e seduzione, bellezza del brutto e memoria dell’umano. Talvolta sono il segno di una creatività minacciosa quanto ambigua, giacché l’immondizia non è prevedibile e quindi non la si può eludere. Anarchico, il recupero delle deiezioni o dei rottami da parte dei pittori scultori, fotografi è anche un’utopia e, come tale, si coagula e si dissolve nel tempo: esso è come l’utopia, infantile, irritante, salvifico. Noi gettiamo via le nostre tracce, l’arte ne sbuccia l’aroma e ne suggerisce il destino.

Lea Vergine, Quando i rifiuti diventano arte


Nel solco di una tradizione ormai ultrasecolare - inaugurata da avanguardie storiche come il Cubismo, il Futurismo ed il Dadaismo per arrivare fino ai giorni nostri; senz’altro generata da affinità di sensibilità ed intenti, ma anche bisognosa di essere esplorata nelle varie e differenti accezioni che in essa trovano cittadinanza – si inscrive la mostra pseudocollettiva e pseudoretrospettiva di Giovanni Franco, allorché egli la fonda su due opere – sarei tentato, in considerazione della loro struttura e del loro autore, di definirle “iperopere” – in cui il rifiuto, essendo la materia prima, viene indagato tanto nella sua specifica fenomenologia, quanto in rapporto allo statuto dell’oggetto d’arte ed alla figura dell’artista e sceglie l’immagine della sua ombra – qualcosa di inutile, o apparentemente tale, al pari di un rifiuto, ma che, a differenza di esso, ci accompagnerà volenti o nolenti vita natural durante – per illustrare l’invito. Se peraltro la ricorrenza del rifiuto durante l’intero trentennio della ricerca di Franco si inscrive nella sua più generale tendenza a “ricondurre sulla terra” – come direbbe Walter Benjamin - l’oggetto d’arte – giacché ad una luce non differente va intesa, ad esempio, tutta la sua produzione prossima al paradigma del gadget -, la sua pressoché schizofrenica moltiplicazione di personalità artistiche, in quanto condotta accantonando consapevolmente ogni preoccupazione di riconoscibilità - fattore invece assolutamente indispensabile per il mercato -, costituisce probabilmente una delle poche autentiche ed attualmente realizzate deviazioni da quelle che sono le tipiche istanze del sistema relativamente alla figura del soggetto “produttore”.



                 Chi vive muore (particolari), 2012. 


Sorta di archivio in progress – ma anche in regress, ogni qualvolta un pezzo viene venduto – del rifiuto, costruito catturando i linguaggi attraverso i quali il prodotto è solitamente confezionato per divenire merce – dalle sue implicazioni accattivanti a quelle paradossalmente dissuasorie, come avviene sui pacchetti di sigarette -, ma anche detournato in virtù della sostituzione del prodotto da consumare col prodotto consumato – conformemente ai modi più peculiari della firma-identità “sarajevo supermarket” –, è Chi vive muore, moderno memento mori volto ad  additare la contraddittoria ed ambigua relazione vita-morte che pervade la società contemporanea, ove la morte è tabù innominabile, ma anche continuamente evocata, mentre la vita è spesso ritenuta piena se coincide con i piaceri, ma è proprio l’intensificazione di questi ultimi a condurla alla fine – e quindi alla morte. Con le loro sembianze enigmatiche, in quanto non immediatamente identificabili nella loro essenza ed origine, nonché per le loro fattezze spesso esteticamente gradevoli, i contenuti dei barattoli rischiano di possedere un appeal ancora maggiore delle merci reali, suggerendo tra l’altro la riflessione sull’affinità strutturale tra arte e rifiuto, entrambi “inutili” nell’ottica della teleologia economicista del capitalismo, ma entrambi da esso “recuperabili” entro il suo alveo - tanto nel segno di un abbinamento, quanto in rapporto ad i rispettivi business che notoriamente alimentano.


 

trash e no stars da tutti noi in famiglia (installazione + happening), 2012.


Gli aspetti del contemplativo e del finito che a conti fatti permangono nelle modalità di relazione al rifiuto adoperate in Chi vive muore sono posti in discussione con trash e no stars da tutti noi in famiglia, ove l’inerzia tipica del regalo-souvenir – che spesso non finisce nella spazzatura, o ci finisce più tardi, solo per una questione di pudore, creanza, educazione, ma il nostro hard disk mentale ha già provveduto a cestinarlo da tempo, giacché l’oggetto non rientra nel nostro immaginario, è dono di una persona che neanche ci ricordiamo più o che desideriamo dimenticare o, più semplicemente, già lo spazio e poco e sta lì a riempirsi solo di polvere – è fronteggiata attraverso il prezioso quanto inacquistabile ed inalienabile antidoto rappresentato dalla creatività che è propria dell’arte - al di là di ogni riconoscimento istituzionale - e costituisce il suo metodo privilegiato per esperire l’oggetto stesso, così come la realtà intera. Ognuno dei trenta oggetti incorniciati ed impacchettati – regali sottratti all’immondizia dunque – costituisce infatti un’opera in potenza, in quanto per l’artista – o meglio di volta in volta per uno dei membri della “famiglia di artisti” che alberga nel corpo di Giovanni Franco - stimolo originario allo sviluppo di un discorso che però non si è potuto – ancora - continuare per motivi logistici e si è pensato dunque di chiedere aiuto all’eventuale acquirente, il quale diventerà proprietario del pezzo solo se si impegnerà a supportare – economicamente - le successive fasi che condurranno al suo completamento, in un’ottica in cui la relazionalità dell’arte non afferisce più, come di consueto, alla totalità degli spettatori, ma, più specificamente, ai collezionisti, schivando tuttavia, per ragioni che a questo punto dovrebbero essere chiare, le tipiche connotazioni da merce di lusso che l’oggetto d’arte solitamente possiede – o quanto meno smorzandole.

Stefano Taccone

 

sabato 6 ottobre 2012

ENZO CALIBÉ - arte per natura vs natura per artificio

Una concezione improntata non tanto alla fusione tra arte e vita, né, tanto meno, alla dissoluzione della prima nella seconda – quasi alla stregua di quella che, a partire da Dada, costituisce la grande utopia delle avanguardie novecentesche -, ma certo ad una continua permeabilità tra le due - giacché se la vita è l’arena nella quale volenti o nolenti ci si misura attraverso le sue, e le proprie, insanabili contraddizioni, l’arte, più che ad una realtà oggettuale, può corrispondere innanzi tutto ad un’attitudine metodologica di approccio all’esistente, ad un apparato di codici in grado di permettere un più lucido esperire dei suoi nodi – sta alla base della ricerca di Enzo Calibé fin dalle prime opere, fin da quando è ancora – intorno al 2006-2007 – legato ai media tradizionali della pittura o del disegno, benché nell’ultimo biennio tale presupposto risulti ulteriormente chiarito e metabolizzato. Se il vivere implica inoltre per lui una continua interrogazione sulla propria origine e sul proprio agire - e quindi in sostanza sul rapporto tra l’uomo e la natura, rispetto alla quale l’uomo è insieme paradossalmente parte integrante ed altro da sé - e l’operare artisticamente, parafrasando una felice definizione di Vincent van Gogh - che va però interpretata in un’accezione che tenga conto del sopravvenuto scarto tra concetto di rappresentazione, cui ancora necessariamente pensa il pittore olandese, e quello di mera presentazione postduchampiana – significa aggiungere l’uomo alla natura, Calibé si trova in una peculiare condizione per tastare la strutturale vocazione dell’arte alla riflessione ed alla sperimentazione sulle modalità attraverso le quali tale incontro può avvenire sul piano della reciproca valorizzazione delle proprie facoltà, ma preservando costantemente un rapporto di equilibrio tra i due termini del discorso e quindi schivando ogni tentazione di dominio del primo sul secondo.


Joseph Beuys, Difesa della natura, 1984.

Negli ultimi tempi tuttavia egli appare concentrato piuttosto nel rilevare come tale dominio rappresenti tutt’altro che un’ipotesi remota, avendo anzi raggiunto un picco estremamente preoccupante, in grado di ritorcersi, secondo la sinistra profezia pronunciata da Joseph Beuys il 13 maggio 1984 a Bolognano, nell’ambito dell’operazione Difesa della Natura, allorché dimostra toni apocalittici in verità alquanto inconsueti nei suoi discorsi e per questo tanto più sconcertanti, contro l’uomo stesso - «Se gli uomini non possono far altro che rimanere imprigionati nella loro stupidità, se si rifiutano di dare considerazione all’intelligenza della natura e se si rifiutano di mostrare una capacità di entrare in rapporto di collaborazione con la natura, allora la natura farà ricorso alla violenza per costringere gli uomini a prendere un altro corso. Siamo giunti ad un punto in cui dobbiamo prendere una decisione. O lo faremo, o non lo faremo. E se non lo faremo ci troveremo a fronteggiare una serie di enormi catastrofi che si abbatteranno su ogni angolo del pianeta».


Hans Haacke, A Breed Apart (particolare), 1978.

Sorta di esemplificazione-denuncia della tracotanza dell’uomo, della sua concezione predatoria della natura - mai intesa però quale mero effetto della sua presunta irriducibile indole, bensì in quanto prettamente prodotto della storia, di una vicenda apertasi con la rivoluzione industriale all’insegna dell’accelerazione e proseguita, lungo i medesimi binari, fino ai giorni nostri, implicando un crescente oblio del proprio essere – va intesa così Una razza a parte (2011), il cui titolo suona come la traduzione in italiano di quella che è l’opera inaugurale della serie che Hans Haacke dedica alla questione della apartheid in Sudafrica a partire dalla fine degli anni settanta, ma che nel movente morale e politico si avvicina piuttosto ad un’operazione precedente dello stesso artista tedesco, Ten Turtles Set Free (1970), nell’ambito della quale egli, avendo acquistato dieci tartarughe appartenenti ad una specie in via di estinzione, le libera in un bosco della Francia meridionale, onde evidenziare la contraddizione esistente tra il fondamentale principio di etica ambientale, per cui ogni essere vivente ha il diritto di esistere, e la condotta dell’uomo a preoccuparsi dei diritti, sempre più limitati, degli animali – un atto col quale peraltro concorderebbe indubbiamente lo stesso Beuys ed anzi senza dubbio definibile come impregnato di un certo spirito beuysiano.

 
Hans HaackeTen Turtles Set Free, 1970. 

Se però Haacke in quella occasione sceglie la via del ripristino, sia pure simbolico, di un ordine infranto, Calibé punta sull’induzione alla replica metaforica del processo collettivo alla base della consolidata quanto non sempre lucidamente percepita prassi dell’allevamento intensivo, che prepone le esigenze mercantili di carattere quantitativo ad ogni minima considerazione sul benessere del bestiame, trattato quasi in conformità alla concezione cartesiana per cui gli animali, in quanto privi di ragione e di coscienza, non proverebbero dolore. Se a perpetuare il vigere di tale sistema produttivo non è che la domanda dei consumatori, essi, come gli spettatori-cooperatori di Una razza a parte, non fanno altro che comporre il puzzle che rappresenta una ammasso di maiali – ma potrebbero essere anche polli, conigli, vitelli, agnelli – sgozzati in un macello. La metafora di tale celebre gioco da tavolo è peraltro già attiva in alcune opere del 2009, cui manca però la componente relazionale, concetto che, costantemente inteso in antitesi a quello di consumatore passivo, sembra qui invece sovrapporsi ad esso, ma anche, in un secondo momento, investire il suo carattere di attivatore di coscienza in una possibile riflessione sul consueto ciclo di produzione-consumo, anche in virtù della sostituzione dell’immagine del succulento prodotto finito - talvolta comunemente inteso quasi come un qualcosa di autogeneratosi - con il suo inquietante quanto inestirpabile antefatto.

 
Enzo Calibé, Una razza a parte, 2011.
 
È vero tuttavia che non siamo più negli anni ottanta e novanta, quando il paradigma neoliberista appare ancora trionfante ed i valori della competizione, della ricchezza, ma anche del vigore sportivo e giovanile – si pensi ai marchi come la Nike, la Adidas… - dominano l’immaginario, quando, in altre parole, l’ideologia del logo è al suo culmine, ma ciò determina una parallela fioritura del suo controdiscorso che ne decostruisce la scala di valori e pian piano mostra, per dirla con Walter Benjamin, tutta la turpe barbarie che si nasconde dietro la fulgida civiltà di quello che Naomi Klein chiama “il nuovo mondo di marca” - una temperie della quale le opere di Haacke fanno pienamente parte – contribuendo infine a far sì che le stesse strategie di branding siano costrette a reinventarsi o quanto meno a correggere il tiro. Come spesso tuttavia storicamente avviene la ristrutturazione del capitalismo, resa necessaria dall’incalzare dal fronte che ad esso si oppone, finisce non solo per permettere il suo perpetuarsi, ma per garantirgli basi ancora più solide.

 
Enzo Calibé, Falso per natura (veduta della mostra), Di,St.Urb, Scafati, 2012.

In definitiva se - riferendoci ancora per un momento ad Una razza a parte di Haacke – la campagna pubblicitaria dal cui ribaltamento procede tale opera ci offre una lampante testimonianza della nascente ideologia neoaristocratica dello hiuppie - giacché ad “una razza a parte” per la British Leyland appartiene la sua prestigiosa Jaguar, la quale, stando al suo messaggio promozionale, avrebbe aperto «le porte ad un nuovo mondo… un mondo nel quale, per la sua sofisticazione e per la sua classe elevata, entreranno solo pochi eletti» -, oggi, a fronte dei fallimenti sempre meno occultabili e della conseguente perdita di appeal di un modello che è stato etico oltre che politico ed economico, quei pochi (auto)eletti sembrano paradossalmente rinvenire nella riproposizione teorica di quelli che sono pensieri e sensibilità nati in antitesi ai loro, o comunque - in ultima istanza – strutturalmente incompatibili con i propri, l’unica risorsa che, vice versa, permetta indisturbata la riproposizione pratica di quelle che sono le loro attitudini di sempre, in una forse quanto mai clamorosa scissione tra ideologia e realtà. Accade così, ad esempio, nel nostro paese, particolarmente funestato dalla corruzione in ambito sportivo, che un calciatore anche non troppo famoso, ma così onesto da rifiutare una cospicua offerta affinché truccasse una partita, divenga immediatamente – fattore impensabile fino non molto tempo fa – una figura particolarmente appetibile per i marchi aziendali.

 
Enzo Calibé, Senza titolo (dalla serie Ecobusiness Landscape), 2012.

Vero e proprio emblema di tale generale fenomeno di rebranding, per adoperare nuovamente un efficace termine caro alla Klein, è la pratica che va sotto il nome di greenwashing, in realtà tutt’altro che recente – mi viene in mente, ad esempio, lo spot televisivo, risalente agli anni ottanta, dell’orsacchiotto Coccolino, testimonial dell’omonimo ammorbidente, il quale apre la finestra e si compiace della natura rigogliosa, ma peccato che il prodotto sia di proprietà della Unilever, ovvero di una multinazionale anglo-olandese più volte accusata di scempi ambientali -, eppure senz’altro negli ultimi anni oggetto di una notevole accelerazione, e sull’analisi demistificante di essa si concentra naturalmente – è proprio il caso di adoperare questo avverbio - la ricerca più recente di Calibé, «adottando» - come correttamente rileva l’amica, collega e compagna Serena de Dominicis, curatrice della sua recente personale Falso per natura - «un modus vicino a quello del culture jamming», ovvero a quella peculiare forma di arte attivista che, rinvenendo le sue radici nel détournement situazionista, assurge ad una delle più tipiche armi della controinformazione nell’era della globalizzazione neoliberista - benché oggi appaia forse un po’ invecchiata – cui non a caso la Klein dedica in No Logo un intero capitolo.


Enzo Calibé, Senza titolo (dalla serie Ecobusiness Landscape), 2012.

Ci si accorge così repentinamente della sorprendente mole di pubblicità in circolazione che adotta a mo’ di sfondo ameni e talvolta paradossalmente quasi innaturali paesaggi, ma senza che si possa conoscere di volta in volta qual è il prodotto o il marchio che all’origine su di essi si staglia – chissà perché il primo prodotto che mi viene in mente è l’automobile, peraltro qualcosa di antiecologico per eccellenza…; forse perché, proprio in quanto tale, è una prassi ormai ampiamente consolidata quella di contestualizzare le loro presunte formidabili prestazioni entro le più suggestive vedute naturalistiche – dato che l’artista ha accuratamente provveduto a rimuoverli, sostituendoli con enigmatiche figure ottenute “per via di levare”. É un trattamento che, nel suo evidenziare il carattere superficiale e transitorio dell’immagine mediatica – come avviene non di rado, benché con strumenti differenti, nella Pop Art -, sembra asserire in definitiva – sempre al pari della Pop Art – l’equivalenza e l’interscambiabilità di ogni oggetto mercificato e, in definitiva, la sua irrilevanza qualitativa non solo per il consumatore, allorché l’acquisto è un venire incontro ad una frenesia indotta piuttosto che ad un bisogno reale, ma anche per il mercato, cui non interessa che venga acquistato un prodotto piuttosto che un altro - e dunque, entro certi limiti, persino i prodotti ad esso ostili, come appunto i libri di Naomi Klein, che in Italia, così come quelli della celebre trilogia di Michael Hardt e Toni Negri, sono editi dalla Rizzoli, appartenente alla RCS, ovvero al gruppo che pubblica anche "Il Corriere della Sera", notoriamente il quotidiano della borghesia liberale italiana e decisamente filomontiano -, ma semplicemente il fatto che le transazioni avvengano.

Stefano Taccone