lunedì 18 ottobre 2010

FONDATA SUL LAVORO – L’arte come svelamento dei cortocircuiti costituzionali

Stefano Taccone: Cara Francesca, due settimane fa hai inaugurato allo Spaziocorale di Milano la tua collettiva Fondata sul lavoro. Sabato scorso si è tenuta a Roma una grande manifestazione indetta dalla FIOM che non si è riferita soltanto alle vertenze più recenti, come quelle degli stabilimenti Fiat di Pomigliano o di Termini Imerese, ma ha inteso pronunciare un secco no nei confronti delle dottrine forse impropriamente dette neoliberiste che hanno dominato, in Italia, così come a livello globale, in quest’ultimo trentennio, erodendo gran parte delle conquiste che il movimento dei lavoratori aveva riportato durante la fase storica precedente. Quelle che hanno prodotto la crisi e quelle che, paradossalmente, malgrado certe apparenze, vengono sostanzialmente ancora una volta riproposte come antidoti per uscire dalla crisi stessa. Inaugurare proprio in questo periodo una mostra che analizzi i danni prodotti da tali politiche antisociali con particolare riferimento al contesto del nostro paese mi sembra dunque una scelta particolarmente propizia.



Francesca Guerisoli: Caro Stefano, l'idea della mostra è nata nell'ultimo anno e ho iniziato a lavorarci sei mesi fa, quindi nasce molto prima rispetto agli ultimi avvenimenti politico-sociali. Il concept che ne sta alla base non deriva da singoli eventi, ma vuole esprimere la situazione generale della condizione lavorativa nell'Italia attuale, di cui gli artisti hanno sentito l'esigenza di parlare attraverso specifici lavori. Da qui il titolo Fondata sul Lavoro, che cita il primo comma dell'articolo 1 della Costituzione: ogni lavoro in mostra fornisce un punto di vista sul tema affrontato, e la mostra nella sua complessità delinea una particolare visione sulla condizione lavorativa nel nostro paese. Il titolo evoca quindi uno dei principi fondamentali della nostra Repubblica, che risulta essere disatteso e, al tempo stesso, dice esattamente cosa il visitatore troverà in mostra, ovvero opere sul tema del lavoro in Italia.



In secondo luogo, credo sia importante dare subito qualche indicazione sullo spazio espositivo. Spaziocorale è situato su una ipotetica linea di confine tra spazio dell'arte e spazio destinato a una partecipazione più ampia, sorgendo nel complesso di un'associazione Arci e quindi rivolgendosi a un pubblico ampio ed eterogeneo. Una coincidenza (assolutamente esterna ai nostri programmi) è stata la presenza nei pressi di Spaziocorale, la sera dell'inaugurazione della mostra, dei sindacalisti della FIOM che distribuivano materiale informativo sulla manifestazione di Roma. La loro poteva sembrare una partecipazione da noi organizzata, ma non è così. E ci sono anche altre coincidenze, oltre a quella della manifestazione FIOM. Come l'uscita, proprio questo mese, del secondo numero di Alfabeta2, con un dossier a più firme sulla cosiddetta knowledge class e le situazioni paradossali del lavoro precario (scrivono a tal proposito Aldo Nove e Andrea Cortellessa: “tanto più quelle condizioni divenivano comuni tanto più mi faceva incazzare che che nessuno ne parlasse”). O la notizia uscita proprio pochi giorni fa (ma che già da anni i più disillusi immaginano) che i precari, i lavoratori parasubordinati creati dalle politiche neoliberiste non avranno la pensione.



Oppy De Bernardo, Cip & Ciop, working for peanuts, 2009.

Tutte coincidenze? Sì e no, nel senso che credo siamo arrivati a un punto in cui la riflessione, la denuncia e la ribellione verso l'attuale sistema del lavoro, in Italia, stiano divenendo ogni giorno più forti, più esplicite, più condivise. È evidente a tutti, ormai, la divisione sociale prodotta dall'organizzazione del mercato del lavoro, in Italia, tra assunti a tempo indeterminato e tutti gli altri; un sistema generato dall'introduzione della flessibilità “a senso unico”, non accompagnata da adeguati ammortizzatori sociali né da reali controlli sulla legalità dei rapporti di lavoro.



Alessandro Nassiri Tabibzadeh, Giubileo degli stagisti, 2005 (I).

Per Fondata sul Lavoro ho voluto mettere insieme opere su varie tematiche del lavoro nella sua complessità, che non parlassero solo delle categorie classiche, ma anche di quelle situazioni che soprattutto la generazione dei nati negli anni ottanta ha vissuto e sta vivendo. Nel 2005 Alessandro Nassiri Tabibzadeh realizzò Giubileo degli stagisti, un progetto costituito da un sito internet in cui il pubblico è invitato a partecipare inserendo il numero di ore di stage effettuato (o tirocinio, o lavoro sottopagato) e per quanti giorni è stato condotto. In base a un programma specifico, il sito indica quante calorie il lavoratore ha consumato senza essere retribuito, calorie di cui egli si riappropria in mostra sotto forma di tavolette di cioccolato. Un lavoro, quindi, tra denuncia e ironia che, sebbene sia stato realizzato cinque anni fa, rimane strettamente attuale. Proprio negli stessi anni in cui Nassiri concepì il suo progetto, la giornalista Eleonora Voltolina condusse un'analisi specifica sulla stessa situazione, quella dello stage e sul suo abuso da parte delle aziende (una tipicità tutta italiana), che oggi costituisce il libro La Repubblica degli stagisti. Oltre al tema dello stage, legato sopratutto ai giovani, si trova in mostra l'installazione di Giuliana Racco, che parte dalla propria esperienza, fatta di lavori regolari e in nero, spesso sottopagati, che la generazione che rappresento si vede costretta ad accettare. Perché... “c'è la fila”.

ST: So bene che la mostra è stata programmata prima che fosse ufficializzata la manifestazione, che peraltro, sia chiaro, è dalla FIOM nel senso che è stata indetta da tale organizzazione, ma è stata animata da buona parte delle forze (partiti, sindacati, movimenti, associazioni etc.) che attualmente si distinguono nelle battaglie contro le strategie neoliberiste. Rimane tuttavia per me una circostanza felice che i due eventi si siano svolti a pochi giorni l’uno dall’altro. La mia allusione, inoltre, non era semplicemente al 16 ottobre scorso, ma alle trentennali politiche cui ha fatto riferimento quell’appuntamento. Se appare davvero arduo smentire la tesi secondo la quale tutte le situazioni descritte dagli artisti in mostra (precarietà, morti bianche, lavoro sottopagato, stage non pagati e persino, malgrado l’apparenza possa indurre a pensare il contrario, il lavoro sommerso) non rappesentino gli effetti delle ricette di cui sopra, il dilemma risiede piuttosto nella possibilità o meno di imboccare altre vie, nel credere che il neoliberismo, malgrado tutto, sia il “male minore” o, vice versa, che esistano altri paradigmi.



Salvatore Manzi, Informazione, 2010.

Credo da lungo tempo che al discorso estetico sulla dimensione politica si addica particolarmente la strategia del cortocircuito, che io concepisco come una sorta di traduzione nell’opera del principio della dialettica negativa adorniana. Dico ciò anche se mi rendo conto che, data la nota avversione di Adorno nei confronti dell’arte engagé, questa mia ultima riflessione può apparire un paradosso. Ciò che mi sembra unifichi le sei opere in mostra, al di là della tematica, è proprio il pullulare, in ognuna di esse di tali cortocircuiti: il valore di status simbolo della pelliccia, legata alla sua derivazione animale, alla radice della sua rarità, e lo svilimento dello stesso attraverso la sostituzione della “materia prima animale” con una “materia prima peluche” di qualità peraltro bassissima in Oppy De Bernardo; il piglio compassato ed incline ad omissioni dell’informazione televisiva e la virulenza della verità scomoda quanto sottaciuta di colui per il quale la lotta di classe non è un concetto da seminario sul biennio rosso, ma una condizione che volente o nolente vive da decenni, parafrasando Chomsky, “sulla sua pelle” in Salvatore Manzi; lo scarto tra la pesantezza di una certa condizione e la leggerezza della paradossale soluzione avanzata per farvi fronte in Alessandro Nassiri Tabibzadeh; il genere della natura morta inteso tradizionalmente come raffigurazione di gruppi di oggetti e non di figure e le odierne nature morte che oltre a rimandare al significato tipico del linguaggio storico-artistico divengono anche i residui di esistenze umane stroncate in NoiSeGrUp; la realtà puramente formale, legale, ma palese della pratica lavorativa quotidiana e quella assolutamente sostanziale, illegale, ma latente in Giuliana Racco; la gradevolezza decorativa dei festoni, che rimanda al ruolo di collezionista ed i giornali usati come materia prima per i festoni stessi, dai quali si apprende del terribile incidente che nel dicembre del 2007 costò la vita a sette operai in Carlo Steiner.



Carlo Steiner, Festhyssen, 2008 (I).

FG: Ogni progetto tra quelli in mostra nasce nel contesto dell'Italia attuale, quindi rappresenta gli effetti di certe politiche sociali, credo sia evidente. Ma io – come gli artisti stessi – posso portare solo il mio punto di vista, la mia esperienza. Che comunque non significa che non contenga verità. È la visione personale di una situazione, la narrazione di un aspetto della realtà che si manifesta con il discorso artistico.I lavori esposti parlano di temi scottanti, tracciando un quadro desolante del mondo del lavoro. Politico-sociale è il tema. Si tratta di un'arte critica, un'arte come agente dissensuale che – come dice Jacques Rancière – promettendo un'umanità non alienata, mette in discussione lo stato delle cose presente; un'arte che deve negoziare tra la tensione che la spinge verso la “vita” e quella che separa la sensorialità estetica dalle altre forme d'esperienza sensibile, con lo scopo di trasformare il pubblico in attore consapevole.



Carlo Steiner, Festhyssen, 2008 (II).

Venendo alla tua seconda riflessione, trovo che sia particolarmente calzante l'esempio dei festoni di Carlo Steiner. Festhyssen è stato costruito secondo la logica dello choc dei contrari: l'artista ha realizzato festoni assemblando pagine di quotidiani recanti articoli sull'incidente della Thyssenkrupp. Il dualismo prodotto è la chiave di lettura dell'opera. Si tratta di un lavoro che, con Rossella Moratto, ho presentato lo scorso anno nella mostra Spazi di Confine / Spazi di Conflitto, dove i festoni di Steiner rappresentano precisamente sia l'idea di confine sia di conflitto: essi innescano un cortocircuito nel pubblico, che si trova improvvisamente catapultato dal concetto di festa (veicolato dall'oggetto “festone”) a quello di morte (veicolato dal materiale con cui questo è realizzato). Decorazione da un lato e riflessione su un tema terribile dall'altro: il pubblico, acquisita consapevolezza dell'ambivalenza su cui è costruita l'opera, non può che rimanere scioccato.



Alessandro Nassiri Tabibzadeh, Giubileo degli stagisti, 2005 (II).

Alessandro Nassiri Tabibzadeh, come ho citato prima utilizza invece i dispositivi dell'ironia e del gioco, già evidenti nel titolo del suo progetto (Giubileo degli stagisti), dove il termine Giubileo indica una redistribuzione di energie e un azzeramento di debiti delle aziende verso i lavoratori, come in origine indicava la redistribuzione delle terre e l'azzeramento dei debiti della comunità. L'artista istituisce uno spazio nel quale accoglie il visitatore e lo pone di fronte al tema dello stage e del suo abuso, tra l'ironia e la presa di coscienza della situazione. Il calcolo delle energie spese gratuitamente e la conseguente distribuzione delle tavolette di cioccolato come “ricompensa dovuta” delle ore di lavoro regalate innesca anche qui un cortocircuito.



Giuliana Racco, I miei anni invisibili, 2008.

L'installazione I miei anni invisibili di Giuliana Racco è giocata tutta sul contrasto a livello formale, esprimendo in questo modo il divario tra come è trattato ufficialmente il tema del lavoro e come invece, nei fatti, esso si presenta oggi. La terminologia del libretto di lavoro, proiettato nel video che costituisce parte dell'installazione, si scontra con il linguaggio comune delle didascalie con cui lo commenta; l'inchiostro nero utilizzato per elencare i lavori in regola nel curriculum cartaceo posto accanto alla proiezione entra in netto contrasto con l'inchiostro lumix (trasparente) per le esperienze abusive.



NoiSeGrUp, Natura morta, 2010.

Aggiungo inoltre che due tra i lavori in mostra si riferiscono espressamente anche all'arte stessa, al sistema e ai generi. NoiSeGrUp attualizza e trasla l'iconografia della natura morta, sostituendone i classici elementi simbolici con strumenti da lavoro edile per evocare le morti sul lavoro; Carlo Steiner conduce una critica al sistema dell'arte (un po' alla Hans Haacke), dove – denuncia l'artista – chi finanzia il sistema è lo stesso colpevole di morti evitabili, dovute all'incuria. Una doppia lettura, complementare, che riflette sul tema sociale del lavoro e al tempo stesso si riferisce al sistema dell'arte.