venerdì 25 settembre 2020

LO SPECCHIO “ROSSO-NERO” CHE SI ACCINGE A STRITOLARCI - Lettera aperta a Vincenzo Estremo a partire dalla sua Teoria del lavoro reputazionale. Saggio sul capitalismo artistico

Caro Vincenzo, ho letto e riflettuto circa il tuo Teoria del lavoro reputazionale. Saggio sul capitalismo artistico (Milieu edizioni, Milano, 2020). La prima osservazione che mi viene in mente è che si tratta di un lavoro che, attraverso un investimento biografico-esperienziale-emotivo assai consistente per chi sa leggerlo più o meno tra le righe – cogliendo qua e là qualche piccolo riferimento: dal tuo lavoro come da operaio all’Indesit alla “battaglia di Napoli” del 2001 -, delinea un ritratto in cui numerosi soggetti della nostra generazione potrebbero ampiamente rispecchiarsi, rinvenendo la parabola della loro vita in questo primo ventennio circa di maturità. Una parabola, come tu stesso dici, basata inizialmente sul primato del credere – “Un altro mondo è possibile!”, ricordi? – e poi piano piano è come se gli orizzonti di reale trasformazione si fossero sempre più chiusi di fronte a noi, fino a trovarci davanti ad un muro apparentemente invalicabile. Tu provi, ostinatamente, ad aprire qualche spiraglio nell’epilogo – e fai bene – anche se non eri obbligato a mio modo di vedere. Su questo punto sono abbastanza d’accordo con il compianto David Graeber, il quale proprio in Bullshit job - che so essere stato uno stimolo importante per Teoria del lavoro reputazionale – così scrive: «Di solito non mi piace inserire raccomandazioni di pratiche politiche nei miei libri. Una prima ragione è che, in base alla mia esperienza, se un autore è critico riguardo all’ordinamento sociale esistente, i recensori replicano di fatto con la domanda: “Che cosa proponi di fare allora?”, cercando nel testo qualcosa che assomigli a un suggerimento di politiche e comportandosi poi come se tutto il libro ruotasse in sostanza attorno a quello. […] Un’ altra ragione per cui esito a suggerire politiche è che io diffido della loro stessa idea, poiché esse implicano la presenza di un gruppo di è di élite – in genere funzionari pubblici – che prende decisioni su una questione (“una politica”) e poi fa in modo di imporle a tutti gli altri. Spesso cadiamo in una trappola mentale quando discutiamo di argomenti del genere. Diciamo per esempio: “Che cosa faremo per il problema X?”, come se “noi” fossimo la società nel suo complesso, in grado di agire in qualche maniera su noi stessi, mentre i realtà, a meno di far parte del 3-5 % della popolazione le cui opinioni condizionano veramente i decisori politici, si tratta soltanto di un gioco di finzione: ci identifichiamo con i nostri governanti quando siamo noi i governati» (D. Graeber, Bullshit job, trad. it. Garzanti, Milano, 2018, pp. 332- 333). Per quanto le tue parole – comunque poche e basiche – dedicate alla “pars costruens” siano a tratti toccanti – penso in particolare al finale: «[…] Si deve considerare la lotta come una modalità di essere nel mondo, qualcosa che avviene proprio per rinuncia ed elusione, quando il proprio lavoro è percepito come un danno al mondo condiviso e alla condizione di partecipazione. Rivendicare il diritto di non impegnarsi in pratiche distruttive, di non essere un oppressore e un carnefice, di non agire secondo norme e protocolli i cui obiettivi sono stati definiti per riprodurre quelle stesse strutture di cui si soffre a causa del regime capitalistico […]» (pag. 174) – non credo che siano da ricercare in esse le note migliori del tuo lavoro, benché proprio da alcuni motivi di questa conclusione partirei per parlarne. 


Il tuo desiderio di non fare il male al prossimo e di non subirlo che emerge dall’ultima pagina del libro, che ho appena citato, rimanda infatti a tutta una operazione di parresia che dall’inizio alla fine sembra pervaderlo. Di parresia tanto più coraggiosa in quanto parte da te, da una autocritica del tuo ruolo sociale e dell’ambiente nel quale ti muovi. Dopo tanti anni è come se le contraddizioni – che comunque non sono solo tue, ma di chiunque più o meno giovane di noi si ponga nell’ambito del lavoro artistico portandosi con sé una istanza di critica al sistema vigente – ti apparissero così palesi da non poter essere più intese come elementi laterali, contingenti superabili. Intuisci, in altri termini, che se «Negli anni, lavorando in maniera più o meno costante insieme ad una costellazione di figure che si occupano d’arte, ho preso parte a moltissime riunioni in cui si è discusso e ridiscusso sullo stato dei lavoratori e del lavoro artistico» e «Tutte queste riunioni mi davano l’impressione, e credo la dessero a tanti altri partecipanti, che il senso delle discussioni, a volte anche interessanti, non stesse nella risoluzione di un problema dato, ma della loro stessa circolarità», ci deve essere qualcosa di strutturale, di precipuo del nostro momento storico, e non può essere assolutamente imputabile alle capacità contingenti, più o meno scarse, dei tuoi interlocutori. Tu menzioni esperienze più recenti come W.A.G.E. e Jubilee, io posso ricordare di essere stato presente a riunioni di collettivi una decina di anni fa, che si verificavano a partire dalla spinta propulsiva delle rivolte arabe e degli indignados: una giornata di discussione in cerchio nello spazio allora sede della Galleria Artra di Milano dove ebbe inizio il percorso dei Lavoratori dell’arte che poi portò mesi dopo alla nascita di Macao, o un’altra giornata in cui il Museo Madre di Napoli – allora in un momento di gravissima crisi gestionale – fu occupato dal collettivo La Balena – legato però questo principalmente al teatro -, vicenda dalla quale di lì a poco scaturì l’esperienza dell’Ex-Asilo Filangieri. Nell’uno e nell’altro caso – premesso che non sono mai stato un assiduo frequentatore né di Macao, né dell’Ex-Asilo – direi che nella migliore delle ipotesi lo sbocco è stato una micro-utopia, ma mi sento di poter dire - con buone possibilità di non essere smentito - che le ambizioni di trasformazione radicale e generale del settore artistico-culturale che entrambi i collettivi si prefiggevano originariamente non siano andate in gran parte frustrate. Non si spiegherebbe del resto altrimenti la nascita di nuovi soggetti che ricordano quelli di allora, anche in Italia, come Art Workers Italia, ché il covid è solo la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo! 

                                             
                Striscione di Macao, Milano.

D’altra parte ritengo che le tue istanze siano mediamente più radicali di questi movimenti italiani, giacché la loro vocazione prettamente rivendicativa – parlo non solo di quello recente ma anche di quelli di un decennio fa – mi pare abbia sempre messo quanto meno in secondo piano aspetti più profondi che invece la tua riflessione lambisce. La richiesta di reddito e altri obiettivi affini finiscono infatti per lo più per porre quanto meno in secondo piano la terribile condizione di oppressione ed ingiustizia strutturale che permea il sistema dell’arte contemporaneo e non sempre lo ancora opportunamente a quella di tutto il sistema neoliberale nel suo insieme, di cui il sistema dell’arte è naturalmente parte ed anche paradigma, come ci ha insegnato più di ogni altro Paolo Virno (Cfr. P. Virno, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee, DeriveApprodi, Roma, 2003). E Virno ci ha appunto – purtroppo – insegnato anche un’altra cosa, correggendo in questo la tesi negriano-harendtiana sulla moltitudine -, ovvero il suo carattere non rivoluzionario che abbiamo potuto costatare nei nostri amici e colleghi più prossimi, oltre che in noi stessi, e prima ancora di uscire dalla nostra bolla per scoprire quanto cognitariato sia sostanzialmente più prossimo alla sensibilità di +Europa o Italia Viva, del populismo sedicente anticasta, se non proprio talvolta dei cosiddetti sovranisti. Senza arrivare appunto a soggetti lontani dalle nostre idee e dal nostro piccolo mondo, benché a noi socialmente affini, verifichiamo questa impossibilità di essere «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» proprio nel nostro vivere quotidiano. In quelle riunioni che tu hai descritto in maniera così icastica, ma nell’altrettanto eloquente tua descrizione del “black mirror” che ci pervade, facendo apparire obsoleto tanto il panottico benthamiano quanto il Grande Fratello orwelliano. Del resto se “black mirror” è forse per ora ancora un serial, nell’altro emisfero del mondo il “red mirror” è già in una fase avanzata di sperimentazione e, come racconta Simone Pieranni, trova anche un amplissimo consenso in quanto il sistema dei crediti sociali pare sia reputato dalla maggioranza dei cinesi meno un male che un’opportunità per garantire la sicurezza (Cfr. S. Pieranni, Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina, Laterza, Bari – Roma, 2020). Notizia di pochi giorni fa è poi il fatto che il modello cinese dei crediti sociali sembra già contagiare significativamente i regimi elettivi, sia pure con delle diversità corrispondenti appunto alla specificità del contesto e benché stiamo parlando ancora dell’Estremo Oriente. Alludo alla circostanza per cui tra pochi giorni a Singapore, in virtù della partnership tra il governo della città-Stato ed Apple, «Una camminata, una corsa in bicicletta, una nuotata. Ma anche una seduta di yoga, un pasto sano o una bella dormita», insomma ”vivere in maniera sana” «non garantirà solo benessere personale, fisico e mentale, ma anche un premio in denaro, fino a 300 dollari», alla faccia della buona e vecchia privacy (F. Santelli, Singapore, un premio in denaro per chi fa una vita sana, in “La Repubblica”, Roma 19 settembre 2020). 


Di questa tempra insomma probabilmente il mondo con il quale, volenti o nolenti, in un futuro prossimo ci dovremo confrontare e in una certa misura lo stiamo già facendo, senza dimenticare naturalmente tutte le emergenze ambientali che dai disastri dovuti all’innalzamento delle maree alle stesse pandemie – che non sono qualcosa di casuale, avulso, non determinato dai nostri modi di vita contemporanei, come ben si capisce leggendo il bestseller di David Quammen (Cfr. D. Quammen Spillover. L'evoluzione delle pandemie, 2012, trad. it. Adelphi, Milano, 2014) -, tutti fenomeni che non promettono d’altra parte che occasioni di ulteriore pervasività del “mirror”, qualunque colore gli si voglia attribuire. Tale condizione apre inoltre un forte punto di domanda circa la possibilità di poter parlare ancora di postfordismo, dubbio a mio parere già emerso con la crisi scoppiata nel 2007-2008, benché per motivi differenti. Quanto meno infatti sarebbe necessario parlare di una fase del post-fordismo nuova e assai distante, per molti versi, da quella “eroica” degli anni novanta. Una fase in cui tra l’altro l’aura utopica di quel tempo si volge sempre più nel suo contrario. Trovandoci a discutere di nomi da dare alle cose vorrei infine dire due parole sull’autodefinizione del tuo volume: «Una scrittura che ha la presunzione di aprire un dibattito sulla possibilità di fare art writing senza fare critica delle forme, leggendo l’arte come fosse una teoria critica e la teoria critica come fosse arte» (pag. 13). Non so se la locuzione che scegli è la più appropriata, forse si potrebbe trovare qualcosa di più collimante con la complessità di ciò che effettivamente compi. Ancora una volta devo premettere che la tua è una scelta coraggiosa tanto come critico-curatore quanto rispetto agli artisti e a tutti i soggetti del sistema dell’arte: si sa infatti che il mestiere di cui sopra è ormai in larghissima parte “promozionale” – e questa è una delle aporie nelle quali i gruppi di lavoratori dell’arte puntualmente inciampano, senza essere capaci di risolverla -, mentre la maggior parte degli artisti – e di tutti gli altri esponenti che intorno al sistema dell’arte ruotano – non lo intendono diversamente. Una scrittura sull’arte che non si muova in questa direzione pone pertanto già di per sé delle perplessità e talvolta delle vere e proprie incomprensioni ed idiosincrasie. Detto ciò descriverei il tuo volume come un insieme di piccoli itinerari (auto)critici che partono dai presupposti del “capitalismo artistico” e del lavoro come costruzione e gestione dell’immagine (reputazionale) - sulla scorta, prettamente, di Boltanski e Chiapello e dei teorici post-operaisti italiani – e non si servono di esempi artistici – prettamente cinema e videoarte, in conformità, credo, con i tuoi interessi di studio più tipici – se non appunto per rinforzare la teoria. L’uso dell’arte come teoria critica mi pare quindi prevalere sulla teoria critica come arte, e dal mio punto di vista ciò possiede anche un suo perché. 



David Graeber e Herbert Marcuse 

Buon cammino, caro Vincenzo! Libri del genere sono terapeutici tanto per chi li scrive quanto per chi li sa leggere, non malgrado ma proprio perché mettono di fronte alla realtà bruta! E non ti paia una diminutio la nozione di terapia! È quella che Herbert Marcuse riferiva alla filosofia! Marcuse? Sì, esatto! Io sono e voglio restare un po’ vintage!

                                                                                                                                           Stefano Taccone

domenica 19 luglio 2020

DIECI ANNI DI "HANS HAACKE IL CONTESTO POLITICO COME MATERIALE" - Che dire ancora?

Nel luglio del 2010 - un tempo in cui l’estate era relativamente più “estate” di oggi – sia per il clima meno ballerino che per il fatto che già in quel mese si respirava molta più aria di “vacanza” in quanto sospensione delle attività ordinarie rispetto ad ora – usciva Hans Haacke. Il contesto politico come materiale (Plectica, Salerno, 2010) – la prima monografia sia per quanto riguarda me come autore sia per quanto riguarda Haacke in Italia -, prefata da Stefania Zuliani che mi aveva fortemente incoraggiato nell’impresa della pubblicazione, a sua volta derivante dalla mia tesi di laurea di quattro anni prima di cui ella esta stata relatrice (2006). A monte di tutto c’era in me uno zelo quasi missionario, sia perché ritenevo il lavoro di Haacke importantissimo sul piano della coerenza dell’incontro tra un linguaggio post-duchampiano e una attitudine di critica strutturale al capitalismo che partiva dal particolare dell’ambito artistico-culturale per poi allargarsi al generale dell’onnipervasività della ragione economica, sia perché ritenevo che tutto ciò fosse troppo troppo sconosciuto in Italia, e se nessuno faceva nulla per invertire quella tendenza non c’era che da rimboccarsi le maniche e agire in prima persona. In verità proprio quell’estate Haacke fu visiting professor del corso della Fondazione Ratti di Como, evento che mi permise finalmente di incontrarlo – benché dialogare con lui “in presenza” non fu impresa facile per svariati motivi – ed anche probabilmente in parte di colmare quella lacuna italiana che tanto mi affliggeva. 



Di ricordi e riflessioni più personali ne avrei tanti, ma non mi preme qui parlare ulteriormente in questa chiave. I piccoli accenni di cui sopra bastano ed avanzano. Quello che credo sia urgente domandarsi è cosa è cambiato in dieci anni rispetto all’opera di Haacke, e non mi riferisco tanto a quello che l’artista tedesco realizza nell’ultimo decennio. Piuttosto alludo alla percezione che può avere di tutta la sua opera un uomo del 2010 rispetto a un uomo del 2020, tenendo conto di quelli che sono stati gli enormi cambiamenti sul piano della comunicazione e delle relazioni cui questi dieci anni conducono, benché essi siano già più che in nuce all’epoca. 



Le opere della maturità di Haacke – alludo a quegli esatti trent’anni che idealmente si aprono con MoMA Pool (1970) e si chiudono con DER BEVÖLKERUNG e Sanitation (2000) – sono generalmente di una forza e di una complessità incredibile. Molto è stato scritto sugli strumenti attraverso i quali egli compie formidabilmente il suo lavoro di scavo e di nuova epifania – dal sottoscritto, ma tanto più da numerosi critici e studiosi in genere ben più eloquenti ed autorevoli di me: su tutti forse nessuno come Benjamin Buchloh (1 Cfr. B. Buchloh, Hans Haacke Memory and Instrumental Reason, in “Art in America”. New York, 1988) e Pierre Bourdieu (2 Cfr. P. Bourdieu, H. Haacke, Libre-Echange, Editions Seuil, Paris, 1994). Dunque non mi soffermo troppo. Basti osservare che la sua arma più potente è, da una parte, nell’accuratissimo studio di ogni aspetto di carattere storico, sociale, economico, ma anche linguistico-comunicazionale di quello che egli è solito denominare il “contesto” e poi di volgerlo da materiale grezzo in materiale plasmato. Quest’ultimo passaggio ha come fine quello di rendere evidenti, attraverso lo svelamento e poi la giustapposizione di fattori normalmente in ombra e considerati avulsi, non dipendenti, connessioni in grado di provocare stridenti cortocircuiti nel riguardante che o si sente attaccato – come molte delle multinazionali, delle banche e dei politici che divengono creta nelle sue mani – o si sente gratificato in una presa di coscienza che accende nel suo cuore il desiderio di cambiamento e la sensazione che esso sia a portata di mano – come accadeva a me e, ne sono sicuro, a tanti altri come me. 


Hans Haacke, A Breed Apart (part.), 1979.

Questo modo di funzionare delle opere mature di Haacke pur avendo una sua specificità non ha nulla di indipendente non solo dalla tradizione più propriamente artistica delle avanguardie - John Heartfield è giustamente il precursore più accreditato -, ma io credo sia necessario più latamente ricondurlo ad una linea controculturale e controinformativa che trova il suo apogeo intorno al Sessantotto – nei tanti scritti su Haacke non ricordo mai di aver trovato alcun tentativo di ricondurre le sue strategie al détournement situazionista -, ma che anche nei decenni successivi ha un suo spazio, benché sempre più eroso – e tanto più nell’ultimo decennio, come cercherò di chiarire tra poco. Una linea che confina con Haacke più di quanto l’artista appartenga ad essa, dato che la sua operazione è appunto liminare: porsi nel mainstream – gli spazi “alternativi” non sono mai invisi ad Haacke, eppure non sono la sua corsia preferenziale, neanche in giovane età – ma andandolo a perturbare con attitudini non sempre per esso accettabili. 


Hans Haacke, Taking Stock (unfinished), 1983-1984.


Il depotenziamento delle opere mature di Haacke – aspetto che dieci anni fa vedevo poco e niente ma ora mi sembra palese – agli occhi di noi uomini del 2020 ha a che fare purtroppo con la preveggenza delle teorie del suo antico “nemico” Jean Baudrillard, col quale l’artista tedesco intrattiene una polemica, specie negli anni ottanta, quando gli dedica anche un’opera satirica. Haacke non sopporta le teorie della derealizzazione baudrillardiane che tanto vanno di moda negli anni ottanta perché gli paiono sottilmente conservatrici, capaci, in ultima istanza, di condurre alla acquiescenza. Ad Haacke dà ai nervi l’atteggiamento di chi – come Baudrillard – sembra considerare una specie di Don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento chi invece si oppone all’oppressione del potere che ritiene assolutamente reale. Non è tanto importante ora stabilire se Baudrillard sia stato un conservatore o no e cose del genere, quanto riconoscere in che misura il suo discorso – come e più che nei decenni “eroici” della sua teoria – parli del nostro presente, ove non solo paiono fuori gioco le strategie dell’Haacke maturo, ma è proprio la stessa controcultura-controinformazione a vivere una agonia più profonda che mai. 


Hans Haacke, Baudrichard’s Ecstasy, 1988.


Quando Baudrillard scrive La sparizione dell’arte è ancora il 1988 (3 Cfr. J. Baudrillard, La sparizione dell'arte, Politi editore, Milano, 1988. Nuova ed. Abscondita, Milano, 2012) e, considerando i motivi per i quali secondo il filosofo francese l’arte sparisce, ovvero la sovrapproduzione di immagini artificiali che ormai caratterizza i paesi del capitalismo tecnologicamente avanzato, tutto appare ancora più clamorosamente precoce. Baudrillard scrive quando gli agenti di questa sovrapproduzione di immagini nella vita dell’uomo medio non possono essere ancora altro che la televisione, il cinema, la macchina fotografica e tutt’al più computer che oggi sono pezzi di modernariato. La tecnologia come dimensione in cui il produttore-trasmettitore è l’uomo medio rasenta la fantascienza. Baudrillard scompare nel 2007 e dunque può incrociare in seguito molto più di quello che era il suo orizzonte effettivo di fine anni ottanta, eppure ancora molto meno di quello che contempliamo oggi. Se, in altre parole, oltre trent’anni fa la sovrapproduzione di immagini ha già fatto giustizia dell’arte, cosa potrebbe dire oggi – tanto più dopo il giro di vite che la pandemia permette alla comunicazione elettronica - nell’era dei video su Youtube e delle conferenze su Zoom, delle dirette su Facebook e delle foto su Instagram? 


Hans Haacke, Helmsboro Country, 1990


Per quanto esista un uso qualitativamente sostenuto di tutto ciò, è sotto gli occhi di tutti più che mai – l’emersione ed il successo di partiti, movimenti e tendenze cosiddette populiste non è che un effetto che lo testimonia – quanto la scommessa benjaminiana di una politicizzazione dell’estetica che ha ragione sulla estetizzazione della politica sia definitivamente persa. Si ponga mente al terreno guadagnato dal complottismo, dalle fake news e da tutto quell’universo fatto di posticcia – benché a volte in buona fede e non sempre e per forza assolutamente lontana dal sollevare problemi concreti, per quanto spesso mal posti e peggio affrontati – opposizione al “sistema” infarcita di istanze contraddittorie, alimentate dal sentito dire (sui social) e spesso venate di pulsioni che poco hanno a che vedere con la democrazia e l’uguaglianza. Tutto questo mondo che fino a qualche decennio fa esiste forse più come bozzolo che alla luce del sole, che viene per lo più grossolanamente scambiato come ultimo colpo di coda di morenti nostalgie da ventennio, che vive comunque in sordina un po’ perché non esiste la rete di oggi e un po’ perché prova ancora pudore di ciò che nel profondo sente di essere, viene fuori in maniera progressiva ma prorompente almeno da un quindicennio a questa parte e mette in un angolo la linea della controcultura e della controinformazione in virtù di almeno due correlati ma distinti fenomeni. Innanzi tutto il senso comune comincia a confondere pericolosamente tale linea con la (sotto)cultura della fake news, e peraltro in parte casi di ibridazione tra la prima e la seconda sono facilmente verificabili. Inoltre una falsa controcultura-controinformazione – che parla di extraterresti, scie chimiche e quant’altro – non può non finire per conferire nuovo, sproporzionato credito al mainstream che è comunque espressione dei poteri dominanti, per quanto naturalmente si debba sempre stare a debita distanza da ogni meccanicismo e sarebbe oltremodo naive – tipico dei complottisti appunto - pensare che il mainstream è la menzogna e l’ingiustizia tout court e come tale va rigettato in blocco. (4 Cfr. N. Chomsky, E. S. Herman, Manufacturing Consent: the Political Economy of the Mass Media, 1988, trad. it. La fabbrica del consenso, Marco Tropea Editore, Milano, 1998).


Hans Haacke, DER BEVÖLKERUNG, 2000.

Le pletore di foto-testi e video in cui, specie nell’infosfera, inciampiamo quotidianamente, tanto più di successo se di breve ed immediata fruizione, se fondati su un lessico ridotto ed un messaggio univoco, appaiono così oggi come le versioni appiattite, ipersemplificate e standardizzate delle opere del “trentennio glorioso” (1970-2000) di Haacke, producendo naturalmente una ricaduta negativa su queste ultime stesse. Il metodo Haacke appare attualmente inservibile perché quella che è un tempo è lo spazio della voce davvero fuori dal coro oggi è talmente affollato di pseduo-critici della società da far nascere il  dubbio “para-complottista” che il complottismo sia una creatura dello stesso mainstream onde riguadagnare la credibilità perduta attraverso il lancio di nemici talmente ripugnanti da far rimpiangere la cultura e l’informazione ufficiali – e pensare che questo in una certa misura sia vero non è complottismo, giacché non si può essere ingenui pur di non essere complottisti. Tra le molteplici impasse in cui si trova così oggi più che mai il pensiero critico – ammesso che della sua esistenza si possa ancora parlare – vi è dunque una censura che non agisce più – o solo - con i metodi polizieschi tradizionali e neanche più – o solo – con la polizia delle leggi dell’economia – per cui se tu critichi il sistema ti oscura o comunque non ti finanzia facendo leva sul fatto che la visibilità è l’effetto del potere. Essa funziona al contrario come stimolo a far parlare tutti – si vedano i social –, ad una inebriante esaltazione delle facoltà di esprimersi, parlare, giudicare credendosi dotati di un potere comunicazionale sproporzionato rispetto alle proprie capacità – viene in mente l’espressione baudrillardiana “estasi della comunicazione” dalla quale peraltro Haacke procede per la sua opera satirica ed ancora una volta il francese appare nelle sue facoltà premonitrici. La piccola potenza impotente dei molti è però anche la potenza dei signori dello status quo che si giova della valvola di sfogo data da canali di facile (micro)autopromozione e, d’altra parte, questi, malgrado la babelica apparenza del “dibattito elettronico”, sono anche capaci di orientarlo significativamente, per cui nei fatti molti sono i “parlanti parlati” e pochi i “parlanti parlanti”. 


Veduta parziale della mostra personale The State of Union di Hans Haacke, Paula Cooper Gallery, New York, 2005.

A tutto ciò si aggiunge la caduta qualitativa che le stesse opere dell’Haacke tardo – che chiamo così in contrapposizione all’Haacke maturo – subisce evidentemente, della quale pure ero concio fin dal volume del 2010, ma che preferivo tenere un po’ in sordina, pur senza dissimulare. Difficile così non riconoscere la sostanziale fiacchezza di buona parte delle opere di Haacke degli ultimi vent’anni circa, un periodo che farei partire convenzionalmente con l’operazione Poster project commemoring 9/11 (2001-2002) che l’artista tedesco conduce insieme a Creative Time. Da allora in poi trovo siano poche le opere di Haacke realmente dotate di un qualche vigore. Tra esse senz’altro il monumento a Rosa Luxemburg (2006). Difficile però apprezzare più di tanto le opere della sua personale presso Paola Cooper del 2005, The State of Union (2005), e ciò malgrado le lodevoli intenzioni di attaccare le politiche militari aggressive della amministrazione Bush jr. Non particolarmente esaltante si dimostra neanche la sua mostra presso l’ex chiesa di San Francesco della Fondazione Ratti di Como – che resta la sua prima ed unica personale italiana - , compreso l’intervento site specific Once Upon a Time. Forse solo lo scheletrico monumento equestre del Fourth Plinth di Trafalgar Square (2015), Gift Horse, malgrado le recenti ironie di Francesco Bonami (5 Cfr. F. Bonami, Non scappate dall’arte politica, in “La Repubblica”, Roma, 27 dicembre 2019) – ma Haacke potrebbe considerarle una medaglia, esattamente come a suo tempo accoglie gli attacchi dell’ormai trapassato critico d’arte tradizionalista Hilton Kramer, direttore della rivista The New Criterion, finanziata da esponenti del Partito Repubblicano statunitense, ovvero come una medaglia. In questo “anti-monumento equestre” l’artista tedesco sembra infatti tornare alla complessità dello scavo delle fonti degli anni migliori, assesta un colpo deciso contro gli avversari di sempre – in particolare dai tempi della crisi del 2008 Haacke ironizza non solo sulla narrazione neoliberista, ma proprio sul liberismo classico, alludendo esplicitamente ad Adam Smith, e la sua presunta “mano invisibile” -, ma nello stesso tempo lascia uno spazio di apertura interpretativa che – a parte l’uso patetico che ne fa l’allora sindaco di Londra Boris Johnson – sembra garantirgli quella congrua distanza dalla falsa controcultura e controinformazione troppo assertiva e semplificata dei nostri giorni. Non che le opere di Haacke in passato siano state sempre e al 100 % monosemiche, ma qui mi pare di scorgere un sano surplus di inquietante mistero che tenderei a considerare relativamente inedito (6 M. Weaver, Fourth plinth: politically provocative Gift Horse is unveiled in London, in “The Guardian”, London, Tuesday, 5 March 2015. https://www.theguardian.com/artanddesign/2015/mar/05/fourth-plinth-provocativeartwork-gift-horse-hans-haacke-unveiled-in-london).


Hans Haacke, Gift Horse, 2015.

 Un’ultima considerazione non può infine non riguardare il rapporto di Haacke con i musei, ché la sua stessa identità di artista è inevitabilmente segnata innanzi tutto dal rapporto burrascoso con essi – l’ “ammonizione” del MoMA nel 1970, l’ “espulsione” del Guggenheim del 1971, la “guerra di carta” e non solo di carta ingaggiata con il Wallraf-Richartz Museum di Colonia nel 1974… La conflittualità non ha nulla di simulato, come troppo spesso avviene oggi: basti pensare che dopo lo scandalo del Guggenheim Haacke non tiene più alcuna personale in un museo statunitense per quindici anni - fino a quella del New Museum of Contemporary Art di New York (1986) – e nessun museo statunitense acquista più una sua opera per dodici anni, quando The Right of Life (1979) è acquistata dall’Allen Memorial Art Museum dell’Oberlin College in Ohio (1983). Sarebbe a dir poco miracolistico attribuire tutto ciò al caso piuttosto che ad un deliberato, generale ostracismo, se si considera che, qualora la mostra del 1971 al Guggenheim avesse luogo, Haacke, trentacinquenne, sarebbe uno dei primissimi artisti della sua generazione a ricevere un tale riconoscimento. Qual è la fortuna museale dell’Haacke dell’ultimo decennio, invece? Considerando la retrospettiva al Museo Reina Sofia di Madrid (2012), quella recentissima ancora del New Museum di New York (2019-2020), ma anche la retrospettive che di fatto gli dedica la Biennale di Venezia del 2015, nonché l’importante spazio dedicatogli dalla Documenta di Kassel del 2017, possiamo dire che il suo rapporto con le istituzioni non è stato forse mai così roseo, benché ancora resti lontanissimo – e si prevede che lo resterà – dall’onnipresenza istituzionale del collega e un tempo compagno di battaglie Daniel Buren, il quale, tra l’altro – a differenza di Haacke – consuma la sua riconciliazione col Guggenheim quindici anni fa (2015). 


Hans Haacke, Wir (alle) sind das Volk-We (all) are the people, 2003-2017. 


Il fenomeno Haacke ha dunque da tempo – malgrado qualche opera ancora degna – sostanzialmente esaurito la sua propulsione eccedente. Non è né presso di lui né intorno alle sue strategie – salvo che vengano profondamente reinventate – che si può pensare ad un controdiscorso politico e sociale dell’arte nel futuro prossimo, ammesso che sia ancora possibile. Tuttavia la sua testimonianza, il suo coraggio, la sua voce per lungo tempo nel panorama del sistema dell’arte e non solo scardinano certezze e normalità, accarezzando le ferite stridenti di tutti coloro che – malgrado le contraddizioni ed i compromessi cui nessuno può dirsi sempre e totalmente estraneo - non venderanno mai l’anima alla corruzione del mondo, ma crederanno sempre nella possibilità di non essere strumento totalmente passivo della perversa macchina del capitale. 

Stefano Taccone

mercoledì 3 giugno 2020

QUANDO IL RISCHIO SI FA CONCRETEZZA - "La società del rischio" prima e dopo Codogno

(Il testo costituisce il mio contributo alla mostra collettiva La società del rischio, curata da Patrizia Bonardi in collaborazione con l'associazione artists.sociologists ed  allestita presso il BACS di Leffe - Bergamo - dal 7 dicembre 2019 al 20 agosto 2020. In mostra opere degli artisti Valentina Biasetti, Patrizia Bonardi, Enzo Calibè, Ciro Ciliberti, Franco Cipriano, Carla Crosio, Antonio Davide, Francesca Lolli, Daniela Di Maro, Francesca Marconi, Renata Petti, Elena Radovix).

Il 2019 è stato l’anno del green. Mai come in quei dodici mesi infatti probabilmente si è parlato di emergenze ecologiche - in particolare cambiamenti del clima, scioglimento dei ghiacciai e possibilità di inondazioni -, ma è anche apparso più che mai evidente tutto il grado di cattura spettacolare che il “discorso verde” ha subito. Così, accanto a pensieri e paure più o meno sotterranei, si è scatenata tutta una pletora di tossiche chiacchiere sloganistiche provenienti dai vari attori dello spettacolo contemporaneo dalla politica sedicente progressista alle aziende sedicenti illuminate; dagli eventi culturali a quelli sportivi, tutti venduti come irreprensibili modelli di “sostenibilità”. Così dalle Olimpiadi Invernali 2026, strombazzate come giochi che si sarebbero svolti quanto mai all’insegna del rispetto dell’ambiente, ma che Milano si è aggiudicata seguendo in diretta la cerimonia di assegnazione con assai poco sostenibili maxischermi – è proprio il caso di esclamare “Cominciamo bene!” – al neosegretario del maggior partito italiano dell’area della sinistra riformista che dedica la sua elezione a Greta Thunberg e poi come primo atto dopo il suo insediamento va a visitare il cantiere della TAV in Val di Susa, il green come foglia di fico per continuare a perpetuare di fatto le logiche predatorie del capitalismo ha di fatto messo nell’angolo i pur interessanti – ma quanto meno ambigui – fermenti del nuovo movimento ambientalista nascente. 


Daniela Di Maro, Il petrolio è finito, 2018, installazione luminosa.


Il 2020 si apriva in sostanziale continuità con tutto ciò. Si prevedeva infatti una impennata sempre meno sostenibile di retorica sulla “economia sostenibile”, mentre la prospettiva della catastrofe futura pareva tutto sommato ancora troppo lontana per fare paura davvero, così come appariva lontano il coronavirus, relegato nel “lontano oriente”. Fatti della Cina! Cosa anche buona del resto, così l’Occidente si toglie finalmente di mezzo un “competitor” che ci da filo da torcere da oltre un decennio, pensava qualcuno. Cosa hanno cambiato nella nostra vita quotidiana la sars, la mers o altre epidemie dell’ultimo ventennio? Hanno solo riempito le pagine di qualche giornale e alimentato gli incubi di qualche ipocondriaco, ma nulla più. Magari abbiamo preso spunto per fare qualche battuta divertente, intentare qualche barzelletta, qualche vignetta… Più che il virus – bisogna dirlo – facevano paura i cinesi in Italia, specie in territori ove ci sono comunità assai nutrite, e non sono mancati spiacevoli episodi di razzismo annessi. 


Patrizia Bonardi, Onde anomale, 2019, gesso sabbia e cera d'api.


Nell’insieme tuttavia vivevamo ancora una vita “normale”, finché non è arrivato quel giorno dell’ultima decade di febbraio in cui tutta l’Italia ha conosciuto il primamente oscuro paesino di Codogno. Di lì a poco la nostra vita, si è detto, è diventata simile ad un romanzo o ad un film distopico. Significativo il fatto che il paragone più facile e forse più calzante fosse proprio con situazioni di finzione. Significativo del fatto di quanto per decenni e decenni le paure para-apocalittiche abbiano ingentemente popolato una parte della nostra psiche e forse tutta la produzione creativa ha anche avuto la funzione di esorcizzarle – sia per i produttori che per i fruitori. Chissà se ad una sorta di operazione esorcistica non sia del resto assimilabile persino La società del rischio, apertasi presso il BACS di Leffe il 7 dicembre 2019. Un esorcismo collettivo, un toccasana contro le paure più o meno confessate cui si sono sottoposti con grande sollievo gli artisti e gli spettatori, ma anche i sociologi o intellettuali di altra formazione che hanno scritto i testi – io stesso mi pongo in questo novero! 


Antonio Davide, Affissioni, 2019.


Bisogna ammettere che le persone più sensibili e più coscienti su un piano politico-morale spesso percepiscono lucidamente la gravità di quanto potrebbe accadere in un futuro prossimo, ma insieme – proprio in virtù della loro lucidità – percepiscono anche la loro impotenza rispetto al branco di pachidermi che sta avanzando contro di loro. Non conosco testo o immagine che sia capace di descrivere questa sensazione meglio della poesia Privi di potere (1971) del celeberrimo scrittore tedesco – scomparso da qualche anno - Günter Grass, che vale la pena riportare per intero: 

Leggiamo «napalm» e ci immaginiamo il napalm. 
Dal momento che non possiamo immaginarci il napalm, 
leggiamo del napalm, finché possiamo 
immaginarci meglio il napalm. 
Ora noi protestiamo contro il napalm. 
Dopo la colazione, muti, 
vediamo in fotografia cosa può fare il napalm. 
Ci indichiamo l’un l’altro rozzi reticoli 
e diciamo: vedi, questo è il napalm. 
Presto ci saranno libri di fotografie a buon prezzo 
con foto migliori, 
dalle quali risulterà più chiaramente 
cosa può fare il napalm. 
Ci rosicchiamo le unghie e scriviamo proteste. 
Ma c’è, così leggiamo, 
qualcosa che è ben più terribile del napalm. 
Subito protestiamo contro questa cosa più terribile. 
Le nostre proteste giustificate, che in ogni momento 
possiamo stilare piegare affrancare, le sbattiamo in libri. 
Impotenza di cui si fa prova su facciate di gomma. 
Impotenza fa suonare dischi: canti impotenti. 
Senza potere e con la chitarra. 
Ma con il pugno di ferro e in piena tranquillità 
fuori agisce il potere. 

Ad essa accosterei soltanto un piccolo frammento dal poemetto Le ceneri di Gramsci (1957) di Pier Paolo Pasolini, in quanto testimonianza ancora di un simile stato d’animo: 

[…] Ma come io possiedo la storia, 
essa mi possiede; ne sono illuminato: 
ma a che serve la luce? […] 


Elena Radovix, Metà fisica e metà no, 2017, foto da una serie di tre.


Ma tornando al giorno del “caso Codogno” e seguenti, ciò che va rilevato è come una mostra come La società del rischio possa dirsi per un verso anticipatrice inconsapevole di tutto ciò che abbiamo vissuto negli ultimi mesi e per un altro verso assolutamente interna allo spiazzamento che ciascuno di noi – a cominciare naturalmente dai virologi – ha subito in questo frangente. Un conto, in altre parole, è il rischio inteso come preoccupazione affatto fondata più o meno a lungo termine; un altro conto è trovarsi nel bel mezzo dell’ “epifania” di quel rischio. Allora non si ha ancora certo l’effetto livellatore paragonabile alla morte secondo Totò, ma certo molte distinzioni cominciano a perdere di senso. Ci si ricorda ad esempio della propria vulnerabilità di esseri umani, mentre passa quanto meno in secondo piano la coscienza di essere artisti, poeti… o di esporre in mostre, pubblicare libri… I nostri progetti – prima ancora che i nostri corpi – vengono quarantenati. Persino, d’altra parte, gli “investimenti verdi” si chiede di accantonare, onde riservarli a “tempi migliori”, rendendo così palese quanto essi fossero davvero dettati da una effettiva esigenza di tamponare una emergenza. Non lo erano non perché la minaccia del surriscaldamento globale è una invenzione di complottisti contro il “progresso”, ma perché quanto meno inadeguati alla mole della catastrofe incombente, un secchiello per contenere il mare come nella leggenda che ha per protagonista Sant’Agostino e Gesù Bambino. Le ragioni di quegli investimenti erano dunque tutte interne alle logiche del greenwashing, ma le strategie di marketing sono come la moda e il vento: cambiando repentinamente direzione e intensità. 


Francesca Lolli, RiGenerazione, 2017, foto di scena di Judy QuianQuian dalla video-performance.


La crisi del Covid ci rivela insomma – mi guarderei bene dall’adoperare la locuzione “ci insegna” –, o quanto meno ci suggerisce, che le catastrofi globali sono relegabili nel cassetto del futuro remoto del nostro cervello assai meno di quanto ciascuno di noi – forse nessuno escluso, neanche Greta, Naomi Klein o i più grandi climatologi ed ambientalisti che da decenni ci allertano su certe minacce – potesse credere fino a poco tempo fa. Ho scritto “catastrofi globali” ma stavo per scrivere “catastrofi ambientali”. Crediamo infatti che il Covid sia “capitato”, così come più di una decina d’anni fa qualcuno osservò che la crisi finanziaria e quindi economica era “capitata”, come a dire che si trattava di un puro effetto casuale senza causa? Una spiegazione del genere mi pare quanto meno inadeguata. Se la pandemia ci ha fatto toccare con mano quanto la voce della scienza possa essere plurale e discordante, resta che molti scienziati da tempo allertano non solo sul cambiamento climatico, ma anche sui nuovi virus con cui l’uomo entra progressivamente in contatto, virus prima inaccessibili all’uomo perché ben “protetti” nel cuore delle foreste, ma ormai sempre più “a piede libero” nella misura in cui il comportamento umano si mostra quanto meno devastante nei confronti degli habitat naturali delle altre specie. (1: Su questi temi cfr. almeno K. Zimmer, Malattie infettive in aumento a causa della deforestazione, in “National Geographic”, Milano, giovedì 19 dicembre 2019; https://www.nationalgeographic.it/ambiente/2019/12/malattie-infettive-aumento-causa-della-deforestazione ) Tra lo stesso surriscaldamento globale e i “nuovi” virus esiste una sinistra connessione: molti virus sono infatti “tenuti a bada” da ghiacciai che hanno i giorni contati. (2: Su questi temi cfr. almeno F. Santolini, Il cambiamento climatico potrebbe “liberare” antichi agenti patogeni, in “La Stampa”, Torino, 14 marzo 2020. https://www.lastampa.it/tuttogreen/2020/03/14/news/il-cambiamento-climatico-potrebbe-liberare-antichi-agenti-patogeni-1.38578773  ) Si consideri inoltre la moltiplicazione degli spostamenti che l’ultimo decennio-quindicennio ha conosciuto, con la diffusione sempre più capillare – tra l’altro – dei voli low cost – low cost per le tasche, ma certo high cost per l’ambiente -, che per alcuni scienziati potrebbe essere un motivo non secondario della diffusione circoscritta delle epidemie del nuovo secolo. Già perché se le epidemie ci sono sempre state è anche vero che pare non siano mai sorte così tante in un arco temporale così ristretto come l’ultimo ventennio. Sarà anche questo un caso? (3: Per approfondire il rapporto tra nuove epidemie e devastazione ambientale cfr. ancora A. Pinchera, Il coronavirus e il nostro futuro prossimo, 17 maggio 2020; https://www.greenpeace.org/italy/storia/7098/il-coronavirus-e-il-nostro-futuro-prossimo/
)  

Stefano Taccone