domenica 19 luglio 2020

DIECI ANNI DI "HANS HAACKE IL CONTESTO POLITICO COME MATERIALE" - Che dire ancora?

Nel luglio del 2010 - un tempo in cui l’estate era relativamente più “estate” di oggi – sia per il clima meno ballerino che per il fatto che già in quel mese si respirava molta più aria di “vacanza” in quanto sospensione delle attività ordinarie rispetto ad ora – usciva Hans Haacke. Il contesto politico come materiale (Plectica, Salerno, 2010) – la prima monografia sia per quanto riguarda me come autore sia per quanto riguarda Haacke in Italia -, prefata da Stefania Zuliani che mi aveva fortemente incoraggiato nell’impresa della pubblicazione, a sua volta derivante dalla mia tesi di laurea di quattro anni prima di cui ella esta stata relatrice (2006). A monte di tutto c’era in me uno zelo quasi missionario, sia perché ritenevo il lavoro di Haacke importantissimo sul piano della coerenza dell’incontro tra un linguaggio post-duchampiano e una attitudine di critica strutturale al capitalismo che partiva dal particolare dell’ambito artistico-culturale per poi allargarsi al generale dell’onnipervasività della ragione economica, sia perché ritenevo che tutto ciò fosse troppo troppo sconosciuto in Italia, e se nessuno faceva nulla per invertire quella tendenza non c’era che da rimboccarsi le maniche e agire in prima persona. In verità proprio quell’estate Haacke fu visiting professor del corso della Fondazione Ratti di Como, evento che mi permise finalmente di incontrarlo – benché dialogare con lui “in presenza” non fu impresa facile per svariati motivi – ed anche probabilmente in parte di colmare quella lacuna italiana che tanto mi affliggeva. 



Di ricordi e riflessioni più personali ne avrei tanti, ma non mi preme qui parlare ulteriormente in questa chiave. I piccoli accenni di cui sopra bastano ed avanzano. Quello che credo sia urgente domandarsi è cosa è cambiato in dieci anni rispetto all’opera di Haacke, e non mi riferisco tanto a quello che l’artista tedesco realizza nell’ultimo decennio. Piuttosto alludo alla percezione che può avere di tutta la sua opera un uomo del 2010 rispetto a un uomo del 2020, tenendo conto di quelli che sono stati gli enormi cambiamenti sul piano della comunicazione e delle relazioni cui questi dieci anni conducono, benché essi siano già più che in nuce all’epoca. 



Le opere della maturità di Haacke – alludo a quegli esatti trent’anni che idealmente si aprono con MoMA Pool (1970) e si chiudono con DER BEVÖLKERUNG e Sanitation (2000) – sono generalmente di una forza e di una complessità incredibile. Molto è stato scritto sugli strumenti attraverso i quali egli compie formidabilmente il suo lavoro di scavo e di nuova epifania – dal sottoscritto, ma tanto più da numerosi critici e studiosi in genere ben più eloquenti ed autorevoli di me: su tutti forse nessuno come Benjamin Buchloh (1 Cfr. B. Buchloh, Hans Haacke Memory and Instrumental Reason, in “Art in America”. New York, 1988) e Pierre Bourdieu (2 Cfr. P. Bourdieu, H. Haacke, Libre-Echange, Editions Seuil, Paris, 1994). Dunque non mi soffermo troppo. Basti osservare che la sua arma più potente è, da una parte, nell’accuratissimo studio di ogni aspetto di carattere storico, sociale, economico, ma anche linguistico-comunicazionale di quello che egli è solito denominare il “contesto” e poi di volgerlo da materiale grezzo in materiale plasmato. Quest’ultimo passaggio ha come fine quello di rendere evidenti, attraverso lo svelamento e poi la giustapposizione di fattori normalmente in ombra e considerati avulsi, non dipendenti, connessioni in grado di provocare stridenti cortocircuiti nel riguardante che o si sente attaccato – come molte delle multinazionali, delle banche e dei politici che divengono creta nelle sue mani – o si sente gratificato in una presa di coscienza che accende nel suo cuore il desiderio di cambiamento e la sensazione che esso sia a portata di mano – come accadeva a me e, ne sono sicuro, a tanti altri come me. 


Hans Haacke, A Breed Apart (part.), 1979.

Questo modo di funzionare delle opere mature di Haacke pur avendo una sua specificità non ha nulla di indipendente non solo dalla tradizione più propriamente artistica delle avanguardie - John Heartfield è giustamente il precursore più accreditato -, ma io credo sia necessario più latamente ricondurlo ad una linea controculturale e controinformativa che trova il suo apogeo intorno al Sessantotto – nei tanti scritti su Haacke non ricordo mai di aver trovato alcun tentativo di ricondurre le sue strategie al détournement situazionista -, ma che anche nei decenni successivi ha un suo spazio, benché sempre più eroso – e tanto più nell’ultimo decennio, come cercherò di chiarire tra poco. Una linea che confina con Haacke più di quanto l’artista appartenga ad essa, dato che la sua operazione è appunto liminare: porsi nel mainstream – gli spazi “alternativi” non sono mai invisi ad Haacke, eppure non sono la sua corsia preferenziale, neanche in giovane età – ma andandolo a perturbare con attitudini non sempre per esso accettabili. 


Hans Haacke, Taking Stock (unfinished), 1983-1984.


Il depotenziamento delle opere mature di Haacke – aspetto che dieci anni fa vedevo poco e niente ma ora mi sembra palese – agli occhi di noi uomini del 2020 ha a che fare purtroppo con la preveggenza delle teorie del suo antico “nemico” Jean Baudrillard, col quale l’artista tedesco intrattiene una polemica, specie negli anni ottanta, quando gli dedica anche un’opera satirica. Haacke non sopporta le teorie della derealizzazione baudrillardiane che tanto vanno di moda negli anni ottanta perché gli paiono sottilmente conservatrici, capaci, in ultima istanza, di condurre alla acquiescenza. Ad Haacke dà ai nervi l’atteggiamento di chi – come Baudrillard – sembra considerare una specie di Don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento chi invece si oppone all’oppressione del potere che ritiene assolutamente reale. Non è tanto importante ora stabilire se Baudrillard sia stato un conservatore o no e cose del genere, quanto riconoscere in che misura il suo discorso – come e più che nei decenni “eroici” della sua teoria – parli del nostro presente, ove non solo paiono fuori gioco le strategie dell’Haacke maturo, ma è proprio la stessa controcultura-controinformazione a vivere una agonia più profonda che mai. 


Hans Haacke, Baudrichard’s Ecstasy, 1988.


Quando Baudrillard scrive La sparizione dell’arte è ancora il 1988 (3 Cfr. J. Baudrillard, La sparizione dell'arte, Politi editore, Milano, 1988. Nuova ed. Abscondita, Milano, 2012) e, considerando i motivi per i quali secondo il filosofo francese l’arte sparisce, ovvero la sovrapproduzione di immagini artificiali che ormai caratterizza i paesi del capitalismo tecnologicamente avanzato, tutto appare ancora più clamorosamente precoce. Baudrillard scrive quando gli agenti di questa sovrapproduzione di immagini nella vita dell’uomo medio non possono essere ancora altro che la televisione, il cinema, la macchina fotografica e tutt’al più computer che oggi sono pezzi di modernariato. La tecnologia come dimensione in cui il produttore-trasmettitore è l’uomo medio rasenta la fantascienza. Baudrillard scompare nel 2007 e dunque può incrociare in seguito molto più di quello che era il suo orizzonte effettivo di fine anni ottanta, eppure ancora molto meno di quello che contempliamo oggi. Se, in altre parole, oltre trent’anni fa la sovrapproduzione di immagini ha già fatto giustizia dell’arte, cosa potrebbe dire oggi – tanto più dopo il giro di vite che la pandemia permette alla comunicazione elettronica - nell’era dei video su Youtube e delle conferenze su Zoom, delle dirette su Facebook e delle foto su Instagram? 


Hans Haacke, Helmsboro Country, 1990


Per quanto esista un uso qualitativamente sostenuto di tutto ciò, è sotto gli occhi di tutti più che mai – l’emersione ed il successo di partiti, movimenti e tendenze cosiddette populiste non è che un effetto che lo testimonia – quanto la scommessa benjaminiana di una politicizzazione dell’estetica che ha ragione sulla estetizzazione della politica sia definitivamente persa. Si ponga mente al terreno guadagnato dal complottismo, dalle fake news e da tutto quell’universo fatto di posticcia – benché a volte in buona fede e non sempre e per forza assolutamente lontana dal sollevare problemi concreti, per quanto spesso mal posti e peggio affrontati – opposizione al “sistema” infarcita di istanze contraddittorie, alimentate dal sentito dire (sui social) e spesso venate di pulsioni che poco hanno a che vedere con la democrazia e l’uguaglianza. Tutto questo mondo che fino a qualche decennio fa esiste forse più come bozzolo che alla luce del sole, che viene per lo più grossolanamente scambiato come ultimo colpo di coda di morenti nostalgie da ventennio, che vive comunque in sordina un po’ perché non esiste la rete di oggi e un po’ perché prova ancora pudore di ciò che nel profondo sente di essere, viene fuori in maniera progressiva ma prorompente almeno da un quindicennio a questa parte e mette in un angolo la linea della controcultura e della controinformazione in virtù di almeno due correlati ma distinti fenomeni. Innanzi tutto il senso comune comincia a confondere pericolosamente tale linea con la (sotto)cultura della fake news, e peraltro in parte casi di ibridazione tra la prima e la seconda sono facilmente verificabili. Inoltre una falsa controcultura-controinformazione – che parla di extraterresti, scie chimiche e quant’altro – non può non finire per conferire nuovo, sproporzionato credito al mainstream che è comunque espressione dei poteri dominanti, per quanto naturalmente si debba sempre stare a debita distanza da ogni meccanicismo e sarebbe oltremodo naive – tipico dei complottisti appunto - pensare che il mainstream è la menzogna e l’ingiustizia tout court e come tale va rigettato in blocco. (4 Cfr. N. Chomsky, E. S. Herman, Manufacturing Consent: the Political Economy of the Mass Media, 1988, trad. it. La fabbrica del consenso, Marco Tropea Editore, Milano, 1998).


Hans Haacke, DER BEVÖLKERUNG, 2000.

Le pletore di foto-testi e video in cui, specie nell’infosfera, inciampiamo quotidianamente, tanto più di successo se di breve ed immediata fruizione, se fondati su un lessico ridotto ed un messaggio univoco, appaiono così oggi come le versioni appiattite, ipersemplificate e standardizzate delle opere del “trentennio glorioso” (1970-2000) di Haacke, producendo naturalmente una ricaduta negativa su queste ultime stesse. Il metodo Haacke appare attualmente inservibile perché quella che è un tempo è lo spazio della voce davvero fuori dal coro oggi è talmente affollato di pseduo-critici della società da far nascere il  dubbio “para-complottista” che il complottismo sia una creatura dello stesso mainstream onde riguadagnare la credibilità perduta attraverso il lancio di nemici talmente ripugnanti da far rimpiangere la cultura e l’informazione ufficiali – e pensare che questo in una certa misura sia vero non è complottismo, giacché non si può essere ingenui pur di non essere complottisti. Tra le molteplici impasse in cui si trova così oggi più che mai il pensiero critico – ammesso che della sua esistenza si possa ancora parlare – vi è dunque una censura che non agisce più – o solo - con i metodi polizieschi tradizionali e neanche più – o solo – con la polizia delle leggi dell’economia – per cui se tu critichi il sistema ti oscura o comunque non ti finanzia facendo leva sul fatto che la visibilità è l’effetto del potere. Essa funziona al contrario come stimolo a far parlare tutti – si vedano i social –, ad una inebriante esaltazione delle facoltà di esprimersi, parlare, giudicare credendosi dotati di un potere comunicazionale sproporzionato rispetto alle proprie capacità – viene in mente l’espressione baudrillardiana “estasi della comunicazione” dalla quale peraltro Haacke procede per la sua opera satirica ed ancora una volta il francese appare nelle sue facoltà premonitrici. La piccola potenza impotente dei molti è però anche la potenza dei signori dello status quo che si giova della valvola di sfogo data da canali di facile (micro)autopromozione e, d’altra parte, questi, malgrado la babelica apparenza del “dibattito elettronico”, sono anche capaci di orientarlo significativamente, per cui nei fatti molti sono i “parlanti parlati” e pochi i “parlanti parlanti”. 


Veduta parziale della mostra personale The State of Union di Hans Haacke, Paula Cooper Gallery, New York, 2005.

A tutto ciò si aggiunge la caduta qualitativa che le stesse opere dell’Haacke tardo – che chiamo così in contrapposizione all’Haacke maturo – subisce evidentemente, della quale pure ero concio fin dal volume del 2010, ma che preferivo tenere un po’ in sordina, pur senza dissimulare. Difficile così non riconoscere la sostanziale fiacchezza di buona parte delle opere di Haacke degli ultimi vent’anni circa, un periodo che farei partire convenzionalmente con l’operazione Poster project commemoring 9/11 (2001-2002) che l’artista tedesco conduce insieme a Creative Time. Da allora in poi trovo siano poche le opere di Haacke realmente dotate di un qualche vigore. Tra esse senz’altro il monumento a Rosa Luxemburg (2006). Difficile però apprezzare più di tanto le opere della sua personale presso Paola Cooper del 2005, The State of Union (2005), e ciò malgrado le lodevoli intenzioni di attaccare le politiche militari aggressive della amministrazione Bush jr. Non particolarmente esaltante si dimostra neanche la sua mostra presso l’ex chiesa di San Francesco della Fondazione Ratti di Como – che resta la sua prima ed unica personale italiana - , compreso l’intervento site specific Once Upon a Time. Forse solo lo scheletrico monumento equestre del Fourth Plinth di Trafalgar Square (2015), Gift Horse, malgrado le recenti ironie di Francesco Bonami (5 Cfr. F. Bonami, Non scappate dall’arte politica, in “La Repubblica”, Roma, 27 dicembre 2019) – ma Haacke potrebbe considerarle una medaglia, esattamente come a suo tempo accoglie gli attacchi dell’ormai trapassato critico d’arte tradizionalista Hilton Kramer, direttore della rivista The New Criterion, finanziata da esponenti del Partito Repubblicano statunitense, ovvero come una medaglia. In questo “anti-monumento equestre” l’artista tedesco sembra infatti tornare alla complessità dello scavo delle fonti degli anni migliori, assesta un colpo deciso contro gli avversari di sempre – in particolare dai tempi della crisi del 2008 Haacke ironizza non solo sulla narrazione neoliberista, ma proprio sul liberismo classico, alludendo esplicitamente ad Adam Smith, e la sua presunta “mano invisibile” -, ma nello stesso tempo lascia uno spazio di apertura interpretativa che – a parte l’uso patetico che ne fa l’allora sindaco di Londra Boris Johnson – sembra garantirgli quella congrua distanza dalla falsa controcultura e controinformazione troppo assertiva e semplificata dei nostri giorni. Non che le opere di Haacke in passato siano state sempre e al 100 % monosemiche, ma qui mi pare di scorgere un sano surplus di inquietante mistero che tenderei a considerare relativamente inedito (6 M. Weaver, Fourth plinth: politically provocative Gift Horse is unveiled in London, in “The Guardian”, London, Tuesday, 5 March 2015. https://www.theguardian.com/artanddesign/2015/mar/05/fourth-plinth-provocativeartwork-gift-horse-hans-haacke-unveiled-in-london).


Hans Haacke, Gift Horse, 2015.

 Un’ultima considerazione non può infine non riguardare il rapporto di Haacke con i musei, ché la sua stessa identità di artista è inevitabilmente segnata innanzi tutto dal rapporto burrascoso con essi – l’ “ammonizione” del MoMA nel 1970, l’ “espulsione” del Guggenheim del 1971, la “guerra di carta” e non solo di carta ingaggiata con il Wallraf-Richartz Museum di Colonia nel 1974… La conflittualità non ha nulla di simulato, come troppo spesso avviene oggi: basti pensare che dopo lo scandalo del Guggenheim Haacke non tiene più alcuna personale in un museo statunitense per quindici anni - fino a quella del New Museum of Contemporary Art di New York (1986) – e nessun museo statunitense acquista più una sua opera per dodici anni, quando The Right of Life (1979) è acquistata dall’Allen Memorial Art Museum dell’Oberlin College in Ohio (1983). Sarebbe a dir poco miracolistico attribuire tutto ciò al caso piuttosto che ad un deliberato, generale ostracismo, se si considera che, qualora la mostra del 1971 al Guggenheim avesse luogo, Haacke, trentacinquenne, sarebbe uno dei primissimi artisti della sua generazione a ricevere un tale riconoscimento. Qual è la fortuna museale dell’Haacke dell’ultimo decennio, invece? Considerando la retrospettiva al Museo Reina Sofia di Madrid (2012), quella recentissima ancora del New Museum di New York (2019-2020), ma anche la retrospettive che di fatto gli dedica la Biennale di Venezia del 2015, nonché l’importante spazio dedicatogli dalla Documenta di Kassel del 2017, possiamo dire che il suo rapporto con le istituzioni non è stato forse mai così roseo, benché ancora resti lontanissimo – e si prevede che lo resterà – dall’onnipresenza istituzionale del collega e un tempo compagno di battaglie Daniel Buren, il quale, tra l’altro – a differenza di Haacke – consuma la sua riconciliazione col Guggenheim quindici anni fa (2015). 


Hans Haacke, Wir (alle) sind das Volk-We (all) are the people, 2003-2017. 


Il fenomeno Haacke ha dunque da tempo – malgrado qualche opera ancora degna – sostanzialmente esaurito la sua propulsione eccedente. Non è né presso di lui né intorno alle sue strategie – salvo che vengano profondamente reinventate – che si può pensare ad un controdiscorso politico e sociale dell’arte nel futuro prossimo, ammesso che sia ancora possibile. Tuttavia la sua testimonianza, il suo coraggio, la sua voce per lungo tempo nel panorama del sistema dell’arte e non solo scardinano certezze e normalità, accarezzando le ferite stridenti di tutti coloro che – malgrado le contraddizioni ed i compromessi cui nessuno può dirsi sempre e totalmente estraneo - non venderanno mai l’anima alla corruzione del mondo, ma crederanno sempre nella possibilità di non essere strumento totalmente passivo della perversa macchina del capitale. 

Stefano Taccone