giovedì 4 agosto 2011

CIRO de FALCO – Un ricordo appassionato

Sono ormai trascorsi quasi due mesi da quando, poco più che ottantenne, Ciro de Falco, dopo una prolungata agonia, si è spento nella sua casa di Via Bagnara, presso Piazza Dante a Napoli, e, nel silenzio quasi totale con il quale la città, ahimè, ha reagito alla sua scomparsa, riesco solo ora a scrivere due righe affinché la memoria del singolare personaggio che è stato e dell’insegnamento che ci ha tramandato con la sua vita ed il suo lavoro non cada troppo rapidamente nell’oblio.



Icaro liberato, 1976.

Lo conobbi cinque anni fa, nell’estate del 2006, allorché, poco più che neolaureato con una tesi su Hans Haacke (da cui qualche anno dopo sarei partito per scrivere la monografia), sentivo il bisogno di indagare le modalità attraverso le quali anche a Napoli ed in Italia, e non solo negli Stati Uniti e nel resto d’Europa (questi ultimi due, specie il penultimo, erano stati i contesti artistici per me oggetto preminente di studio fino ad allora) ci si era interrogati, tra gli anni sessanta e settanta, sui rapporti tra pratica artistica e dimensione socio-politica e su come l’arte dovesse e/o potesse cambiare radicalmente la sua funzione ed il suo statuto in un momento storico in cui una grande trasformazione sociale era sentita non solo come necessaria, ma persino come imminente. Da questa mia esigenza nacque il breve ma ben strutturato ed efficace, nonché per me eccezionalmente formativo, ciclo di incontri “Arte e impegno”, nell’ambito del quale tentai, invitando di volta in volta uno dei protagonisti napoletani dell’arte nel sociale degli anni settanta (oltre a de Falco parteciparono Riccardo Dalisi, Gerardo Di Fiore e Rosa Panaro) a parlare, col supporto di diapositive e video dell’epoca ed in dialogo con me, del loro percorso specificamente legato a quella stagione.



Icaro liberato, 1976.

Furono i mesi di lunga ed approfondita preparazione a quell’incontro(necessariamente lunga ed approfondita perché Ciro non tollerava inesattezze storiche, sia pur minime, né poteva permettere che qualcuno si ponesse ad analizzare la sua documentazione con distacco, senza farlo a poco a poco innamorare del suo lavoro con infiniti quanto appassionati racconti; ma la sua arte era stata ed era la sua vita) e, naturalmente, l’incontro stesso, che ora sappiamo essere stata l’ultima occasione di ascoltarlo in pubblico, a fornirmi la possibilità di conoscere tanto l’uomo quanto l’artista de Falco in maniera più profonda e di formarmi pian piano un’idea di cosa erano stati per lui, e non solo per lui, quei tanto discussi anni immediatamente precedenti la mia nascita. Azioni come la Liberazione di Icaro o la Processione laica (o Processione del cigno), da considerarsi quest’ultima l’autentico culmine dell’attività del suo Open Laboratory, sembravano ad un tratto materializzarsi davanti a me conducendomi in una dimensione che infondo non era tanto lontana nel tempo effettivo, eppure i circa trent’anni che ci separavano, durante i quali ogni tensione utopica sembrava essere stata sacrificata sull’altare dell’edonismo più ebete e becero, la rendevano ai miei occhi di una distanza siderale.



Icaro liberato, 1976.

Un brano, in particolare, che Ciro aveva scritto all’epoca a proposito dell’Icaro mi colpiva molto, e tutt’ora mi risuona spesso nella mente: «Icaro siamo tutti noi! Noi alla ricerca di quei valori che ci liberino dai tabù della cultura tradizionale, protesa solo a relegarci ad un ruolo subalterno, condizionato dalle classi dominanti. L’esigenza di uscire da tale condizione ha spinto le masse, acquisita coscienza della propria emarginazione, verso una sempre più qualificata capacità organizzativa per una lotta razionale contro i privilegi dei pochi» (C. de Falco, Icaro liberato in E. Crispolti e al., Open Laboratory. Attività estetica e territorio, Produzione culturale “Alzaia”, Roma, 1978, p. 53). Mi sembrava che più di ogni altro fosse in grado di restituire quello che era il clima di attesa di una palingenesi che in quegli anni si respirava, e tanto più mi colpiva allorché, col senno di poi, riflettevo quanto repentinamente, nel giro di pochi anni, quel sole dell’avvenire che si credeva di scorgere all’orizzonte avrebbe fatto spazio al più triviale e desolante degli scenari. «Il mondo moderno lascia insoddisfatti e dove esso pare soddisfatto di sé è volgare»: mai questo celebre pensiero di Marx ha trovato, a mio parere, un esempio più compiuto nella fase apertasi a partire dagli anni ottanta, la fase del riflusso.



Icaro liberato, 1976.

Ma quelle parole, al di là dello spirito dell’epoca, nonché l’operazione dell’Icaro stessa, racchidevano probabilmente anche l’indole più autentica di Ciro, erano leggibili quali emblemi e testimonianze dei suoi momenti di felicità più piena. Il processo di liberazione dell’Icaro, condotto con l’ausilio di uno sciame di euforici bambini al seguito, somigliava così ad una sorta di autoliberazione, lontana però anni luce da ogni forma di narcisismo, ed anzi assolutamente antitetica ad esso, in quanto libero librarsi in volo, ma alimentato dalla gioia della partecipazione e dello scambio. L’ispirazione innanzi tutto sociale dell’operazione si palesava del resto nelle sembianze muliebri dell’Icaro e qui vale riportare i pensieri immediatamente successivi a quelli sopra citati: «Nel contesto generale, oggi, la donna è protagonista in quanto più a lungo relegata a coprire un ruolo subalterno, per cui ha posto con accenti maggiori l’esigenza della lotta per l’emancipazione. Da qui si comprende il perché del mio ICARO donna» (Ibidem).



Processione laica (Processione del cigno), 1977.

Vi sarà chiaro a questo punto che per me l’artista Ciro de Falco è soprattutto quello della prima fase dell’Open Laboratory, quella del biennio ’75-’77, e ciò senz’altro a causa delle mie personali inclinazioni, ma un po’ anche, credo, perché è stato lui stesso a suggerire ed a suggerirmi tale predilezione. Già a partire dal 1978, infatti, con l’operazione Un tempio per Cavriago, nella quale era affiancato da Gerardo Di Fiore ed Enrico Viggiano, che da quel momento condivisero con lui il percorso dell’arte nel sociale fino al suo esaurimento definitivo, la musica parve cambiare radicalmente. Pur costituendo ancora esperienze di grande interesse, poco e nulla sembrava rimanere dello spirito originario dell’Open Laboratory, basato sul lavoro collettivo che non riguardava solo gli artisti, ma anche la “gente comune” (nel caso di Ciro quei bambini che lui tanto amava). Ora, benché ancora sopravvivesse il principio dell’arte come evento (e non meramente come oggetto) e dello spazio pubblico come luogo di creazione e di fruizione, gli spettatori recuperavano la loro tradizionale passività, preannunciando il non lontano “ritorno all’ordine”. Emblematica di tale passaggio, quanto inevitabile, fu la sostituzione dell’Open Laboratory con il più calzante appellativo, prontamente suggerito da Enrico Crispolti, di Laboratorio Tre.



Processione laica (Processione del cigno), 1977.

L’aprirsi del nuovo decennio segnò così anche per Ciro, così come per la quasi totalità di coloro che fino ad allora avevano operato nella direzione dello sconfinamento, un riparare nel chiuso dello studio e del cubo bianco e nella produzione individuale di oggetti. Egli, malgrado la gaiezza dei colori morbidi e chiari che caratterizzarono la sua pittura per tutto il resto della sua carriera (e della sua vita), non potè mai liberarsi pienamente dal senso di sconfitta, dal trauma che gli aveva procurato l’epilogo della vicenda dell’arte nel sociale ed il più generale cambiamento di clima all’interno del quale esso era andato maturando. Una insoddisfazione per ciò che avrebbe potuto essere (o per ciò che si credeva che sarebbe stato) ed invece non fu che Ciro, aspetto quanto mai meritorio, non tentava mai minimamente di dissimulare, come troppo spesso fanno coloro che proprio non riescono a sopportare il bruciore delle ferite ancora aperte e si abbandonano a revisionismi e cambi di casacca. Ammetteva bensì senza peli sulla lingua che per lui «ritornare alla pittura, nel senso di ritornare a dipingere e a creare nel chiuso del laboratorio, ha significato ‘arrendersi’ alle esigenze oggettive e pragmatiche di vita. In poche parole, arrendersi anche alle esigenze di mercato e di sopravvivenza. (…) Dar vita alle manifestazioni-opere come Processione laica, comportava sostenere delle spese che non venivano ammortizzate dall’eventuale introito di una vendita. Né tanto meno si poteva contare sull’interessamento dei fantomatici ‘cultori’ della cosa pubblica. Allo stesso tempo il “ritorno alla pittura” è stato un atto di “egoismo” da parte dell’artista: il voler riaffermare la proprietà ideologica delle proprie creazioni» (A. Iannaccone, Ciro De Falco: il sociale, il politico, il fantastico, Tesi di laurea, Relatore: Prof. Nicola Scontrino, Università degli studi di Salerno, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in Lettere Moderne, Anno Accademico 2000/2001, p. 118).



Processione laica (Processione del cigno), 1977.

La parabola di Ciro de Falco fa dunque pienamente parte di quella staordinaria quanto fallimentare vicenda dell’avanguardia artistica e politica che ha informato il secolo breve, spegnendosi prima del termine cronologico effettivo di esso. Oggi che ogni discorso fondato sui prefissi “post” e “trans” appare sempre più chiaramente nel suo carattere non meno ideologico e deleterio di quelli che lo hanno preceduto, ma con un surplus di nichilismo conservatore, è su esperienze come quelle di Ciro che bisogna ritornare a riflettere e studiare, sia pure, un po’ come la celebre figura kleeiano-benjaminiana dell’Angelo della Storia, continuando inevitabilmente ad incedere verso il futuro.

Stefano Taccone