sabato 24 dicembre 2022

L'ARTE SOCIALMENTE IMPEGNATA E LA SUA IMPASSE - A partire da un monumento antifascista di Nemanja Cvijanovic

 Il testo costituisce la versione integrale di quello poi apparso in versione ridotta – per motivi di spazio – e bilingue (croato e inglese) nella monografia Antifašizam kao samoobrambeni spomenik (Antifascismo come monumento all'autodifesa), dedicata ad un progetto del 2020 dell’artista croato Nemanja Cvijanovic, Spomenik crvenoj Rijeci – samoobrambeni spomenik (Monumento alla Fiume Rossa - Monumento all'autodifesa), e curata da Tevž Logar e Vladan Jeremic. La monografia è uscita nella seconda parte del 2022, mentre il mio testo è stato concepito più di un anno prima, come si può evincere dalla datazione in basso, e la distanza temporale si avverte in pieno (non c’è più il governo Draghi, la “nuova normalità” pandemica è in buona parte svanita, la Biennale di cui si discute il progetto si è ormai svolta etc.), tuttavia ritengo che il senso generale della mie argomentazioni resti – purtroppo – più che valido. 

«In ogni paese», afferma recentemente Pierre Dardot – filosofo francese tra i teorizzatori del neoliberalismo come strategia politica che accomuna liberali e populisti -, «la situazione è diversa. Questo è molto importante da dire perché a sinistra c’è la tendenza a considerare il neoliberalismo come un fenomeno unico. Esistono invece strategie differenti adattate localmente. Questa è la ragione per cui le correnti neoliberali hanno caratteristiche diverse. Ciò che però le accomuna è l’accentuazione dell’autoritarismo nel modo di governare e una tendenza a imporre una logica di governo che sottrae l’orientamento delle politiche economiche e sociali alla deliberazione pubblica» (1: R. Ciccarelli, Pierre Dardot: un abbraccio mortale per la gauche, in “Il Manifesto”, Roma, 16 giugno 2021, https://ilmanifesto.it/pierre-dardot-un-abbraccio-mortale-per-lagauche/?fbclid=IwAR1PaoQUJ48oObOH6X8U8W0WZWKZevrPonEHaJWTncvZkhN_THoRLQbFPY ). Una lettura del genere andrebbe intesa in stretta relazione con quanto accaduto il 19 settembre 2019, allorché il Parlamento europeo emana una risoluzione che, in diversi passaggi, equipara nazismo e comunismo (2: https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2019-0021_IT.html), fatto tanto più clamoroso nella misura in cui a favore, a parte alcune eccezioni, vota anche il Partito democratico – al pari del gruppo dei Socialisti e democratici di cui è membro -, ovvero una formazione che nel 2007, ai tempi della sua nascita, rinviene il suo socio di maggioranza nell’erede per linea diretta del Partito Comunista Italiano (PCI). 
Ma non è questo che l’episodio più emblematico della evidente tendenza, promossa dalle élite dell’UE, a riscrivere la storia identificando tout court capitalismo euro-atlantico e regimi democratici proprio nel momento in cui le tradizionali forme di democrazia rappresentativa paiono svuotate di peso come non mai. La rimozione della memoria - ben più complessa e contraddittoria della narrazione manichea che mira a saturare tutto lo spazio del dibattito pubblico sul tema - andrebbe intesa, in altre parole, nel complesso dei mezzi adottati di volta in volta, senza scrupoli di sorta, al fine di uniformare le politiche europee alla ragione neoliberista, e quindi a vantaggio delle sue classi dominanti. La stessa agitazione dello spettro di una destra venata di rigurgiti neofascisti o, come si usa dire da qualche anno, sovranista – senza per questo voler sottovalutare gli aspetti ripugnanti delle forze politiche più o meno riconducibili a tale area – pare rappresentare in fin dei conti l’unico vero appiglio a disposizione delle compagini progressiste per conferire un senso alla propria esistenza e chiedere “voti utili” che poi serviranno immancabilmente a portare avanti - benché con mano morbida e toni dolci – una agenda di fatto molto simile, ed in alcuni punti persino sovrapponibile, a quella degli avversari. 
Il caso italiano di questi ultimissimi anni è ancora una volta emblematico: tra i populisti “né di destra né di sinistra” che propongono un referendum sull’uscita dall’euro e poi improvvisamente si dichiarano atlantisti ed europeisti convinti ed i “sovranisti più duri d’Europa” che, sempre improvvisamente e al pari dei suddetti populisti, si scoprono desiderosi di divenire colonne portanti della Pax Draghiana, ovvero del governo retto da colui che è un’autentica icona dell’europeismo – a prescindere dal giudizio più o meno positivo che si voglia tributare al personaggio -, benché naturalmente senza rinunciare ad un po’ di innocuo teatrino ora su questo ora su quell’altro tema, con la complicità – e la benedizione - della “controparte” di sinistra – tra virgolette ben marcate tanto più finché fanno parte della medesima maggioranza e del medesimo governo. 


Il presente più immediato sembra insomma consegnarci un quadro in cui ogni spinta centrifuga conseguente alla recessione iniziata nel 2007-2008 - sia essa, come prevalentemente nei primi anni, ascrivibile ad una sinistra radicale antiliberista, sul genere di Syriza o Podemos; sia essa, come negli anni successivi, riconducibile ad una opposizione all’eurozona in nome di un a dir poco problematico concetto di sovranità nazionale; sia essa una sorta di curioso ibrido tra queste due ultime posizioni, ché così si potrebbe descrivere per certi versi l’italiano M5S – viene repentinamente assorbita nel momento in cui entra nella sfera di governo. Il fenomeno è stato certamente aiutato dalla grave crisi pandemica, ma non di meno appare difficile sfuggire alla tentazione di considerare che la situazione si sarebbe comunque evoluta nella medesima direzione e che ciò sarebbe avvenuto in virtù del mastodontico apparato di controllo tecnico la cui potenza non è stata altro che consolidata dalle restrizioni di questo ultimo anno e mezzo, ma certo non aveva bisogno di esse per prosperare. 
Non si tratta tanto, o solo, di descrivere la società contemporanea come soggiogata da una sorta di Grande Fratello orwelliano. Certo anche questo! È difficile, in altre parole, negare che tutte le nostre vite – i nostri gusti, le nostre idee... – non siano in qualche modo schedate anche se ti sei cancellato da tutti i social network ed anche se non hai mai aperto nessun account su di essi, ché bastano pochi minuti di navigazione per disseminare i tuoi dati in chissà quali mani, tanto più se – come quasi tutte le persone a me prossime ma a differenza del sottoscritto – possiedi uno smartphone! Il nodo più inquietante credo sia però nell’illusione della neutralità della tecnica, che pur – tra gli altri - magistralmente confutata a suo tempo da Günther Anders con la sua teoria dell’uomo antiquato (3: «Non basta affermare che bisogna utilizzare la tecnica per scopi buoni invece che cattivi, per compiti costruttivi invece che distruttivi. Tale argomento, che si ode fino alla noia sulle bocche di tanti uomini di buona volontà è indiscutibilmente miope. […] La credenza che esistano province libere di autocontraddizioni e di dialettica è puerile. G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen Bd. II: Über die Zerstörung des Lebens im Zeitalter der dritten industriellen Revolution, 1979, trad. it. L’uomo è antiquato II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, pp. 113-114), è oggi più che mai dura a morire. Cosa infatti se non la tecnica ha permesso di plasmare uniformemente le nostre opinioni ed i nostri desideri ad un punto tale da guardare al cambiamento non più come ad un passaggio verso un’era migliore in quanto qualitativamente diversa, bensì come un sostanziale ritorno a quando si stava meglio – per quelli che quell’ipotetico “meglio” lo hanno vissuto, i meno giovani, ma anche per quelli che non lo hanno mai vissuto, i più giovani -, nonché da lasciarci credere che tutto ciò possa venire da una sorta di “uomo della provvidenza”? Da qui il successo di Draghi – ma anche di alcuni suoi predecessori -, giacché per quanto il Recovery Plan venga presentato con toni “futuristici” – tanto è vero che è altresì detto Next Generation EU -, gli “ottimisti” non sanno immaginarselo che in maniera fin troppo simile a quel florido passato recente – forse un po’ mitico - in cui i ristoranti erano pieni, la merce si produceva e si vendeva, i posti di lavoro non mancavano e si arrivava alla fine del mese. Solo tutto sarà più digitale e più green, oltre che naturalmente più global! Niente a che vedere pertanto con ormai sbiaditi ricordi di “sol dell’avvenire”! 


Mi sembra chiaro pertanto che, senza in alcun modo voler sottovalutare la reviviscenza di sentimenti e movimenti neofascisti o parafascisti – un problema che però in questo momento appare forse più tangibile nell’Europa orientale che in quella occidentale o negli Stati Uniti, ove i cosiddetti sovranisti sembrano aver subito una battuta d’arresto, se non proprio un arretramento: la “normalizzazione” di Salvini, la stagnazione della popolarità della Le Pen, la tenuta dei partiti tradizionali in Germania e più di ogni altra cosa la sconfitta di Trump -, le pulsioni più tipicamente destrorse non possono essere intese correttamente se non si inquadrano entro il discorso della sempre più drammatica crisi delle forme tradizionali di democrazia rappresentativa, con – da una parte – la sempre più fiacca capacità di resistenza ed autonomia del politico rispetto alle grandi lobby, specie le grandi aziende che con la pandemia non hanno fatto altro che consolidare i profitti, ovvero prettamente quelle legate all’elettronica, e – dall’altra ed in stretta relazione - la sempre più preoccupante eclissi della autentica possibilità e capacità di elaborare un giudizio relativamente autonomo e fondato sui fatti del mondo e quindi dello spirito stesso dell’essere cittadino. E l’altra faccia della crisi della democrazia non è appunto che l’autoritarismo sociale ed economico in cui Dardot scorge l’autentica anima del neoliberalismo contemporaneo. 
Tale situazione non sfugge alla necessità di uno specifico discorso nel campo della produzione culturale ed artistica, includente anche la questione dell’arte “socialmente impegnata”, che non può più porsi nei medesimi termini nei quali ancora era possibile solo una decina di anni fa. Certo, i fatti che si sono svolti intorno al Monumento alla Fiume Rossa di Nemanja Cvijanović ci dicono che le arti visive contemporanee, ove i suoi linguaggi sono sapientemente padroneggiati, possono ancora essere politicamente molto incisive; possono, in altre parole, ancora essere picassianamente «uno strumento di guerra offensivo e difensivo contro il nemico» più che un oggetto decorativo – e il guaio è che i più grandi elementi di decorazione, come considereremo tra poco, stanno diventando proprio certe battaglie un tempo appannaggio di lotte politiche radicali. L’operazione dell’artista croato ricorda non poco le dinamiche innescate da Hans Haacke attraverso varie sue opere tra gli anni ottanta e i primi anni del nuovo secolo – fatto salvo naturalmente il particolare che all’epoca non esistevano i social network -, e più di tutte Und ihr habt doch gesiegt (Ed infine siete stati vittoriosi), installata nel 1988 nello spazio pubblico della di Graz, che, rinfrescando la memoria sul consenso che l’Anschluss riscosse in quella città a suo tempo, nonché su tutte le vittime del nazismo tra gli abitanti della Stiria - regione di cui Graz è capitale –, provocò non pochi malumori nelle frange più “nostalgiche” della popolazione, tanto da essere vandalizzata nottetempo (4: Per una ricostruzione dei fatti che si svolgono intorno a quest’opera di Haacke cfr. H. Haacke, La generazione delle immagini. Public art, http://1995- 2015.undo.net/cgi-bin/openframe.pl?x=/Pinto/haacke.htm, ma anche il mio Hans Haacke. Il contesto politico come materiale, Plectica, Salerno, 2010, pp. 110-114). Tuttavia la mia convinzione è che oggi il cuore della questione della relazione tra pratica artistica e impegno politico non si giochi più – almeno per il momento – sul piano dell’arte che interviene esplicitamente nelle questioni politiche di fatto, e ciò non tanto perché tutto ciò avrebbe finito sempre più per somigliare ad un “telegiornale creativo”. Il nodo cruciale va invece ricercato nell’operazione di “recupero” di certi motivi che il mainstream ha iniziato da diversi anni e che ormai mette in atto in maniera sempre più raffinata. 


In Italia la critica allo strapotere del mercato, ed alla sua capacità di fagocitare anche i messaggi politici dell’arte più radicalmente avversi alle sue stesse logiche è probabilmente incarnata innanzi tutto – pur non senza ambiguità - da una figura come Marco Scotini o da altri critici e curatori a lui molto vicini, come Elvira Vannini, recentissimamente intervenuta in tal senso con un articolo che si focalizza in particolare sulla cattura capitalista dei discorsi sul genere. Ella parte dal presupposto che c’è stato un tempo in cui la cultura sapeva anche porsi, all’interno del conflitto di classe – che beninteso è qualcosa che esiste oggi come ieri e il fatto che siano cambiati i termini o che i suoi esiti da decenni, almeno in area euro-nordamericana, si rivelino a senso unico (5: È ormai divenuta alquanto – tristemente – celebre questa frase del miliardario americano Warren Edward Buffett: «È in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo») nulla toglie al suo effettivo persistere -, dalla parte degli oppressi, e rievoca alcuni esempi prettamente legati al 1968 e alla contestazione della Biennale di Venezia. Subito dopo però chiarisce che «Le strategie con cui il sistema culturale ha estromesso e assimilato queste eccedenze – spesso attraverso l’istituzionalizzazione di pratiche ed enunciazioni che avevano criticato le istituzioni stesse – sono chiare: depotenziarle e re-immetterle nel ricchissimo e perverso ingranaggio economico dell’arte, per neutralizzare il valore sovversivo e le istanze di lotta da cui derivano. Nel solco aperto lungo questa strada il capitale ha performativamente indossato la maschera del genere o del colore intensificando, a seconda dei contesti, i meccanismi di cattura della conflittualità in una realtà fictionale dove non c’è più posto per alcuna verifica, né tantomeno per rovesciarne i rapporti di forza» (6: E. Vannini, Quando la fiction capitalista recita il genere, in “Machina”, Roma, 18 giugno 2021, https://www.machina-deriveapprodi.com/post/quandola-fiction-capitalista-recita-il-genere). 
Emblematica in tal senso diviene un’altra Biennale di Venezia, quella di Cecilia Alemani che verrà nel 2022, fermo restando che il suo impianto non è affatto una novità neanche limitatamente al settore culturale, ché «non si contano le tantissime narrazioni e produzioni (dai boschi verticali, i fashion show di maison del lusso come Dior, gli spot queer di Gucci, le innumerevoli sponsorizzazioni di esposizioni e progetti artistici, fino a trovare Black Lives Matter al primo posto nella classifica Power 100 - The annual ranking of the most influential people in art della rivista “Art Review” insieme a collezionisti, galleristi e altre potenti comparse del sistema): femminismo, radicalità politica ed ecologia vengono messi a soggetto ma, al di là di una superficiale tematizzazione – o forse meglio chiamarla appendice decorativa – i dispositivi di produzione, le economie, i canoni e le funzioni rimangono inalterati. Personaggi di potere che rappresentano la classe privilegiata si appropriano di parole, strumenti e istanze conflittuali che appartengono alle tante lotte transnazionali, ora recuperate, mercificate, messe a valore» (7: Ibidem). 
La Alemani è esattamente uno di questi personaggi e lavora in conformità con i gusti della sua classe. La Vannini lascia intendere questo pensiero con grande coraggio, infischiandosene di apparire “datata” agli occhi della cultura dominante che nega il suo carattere ideologico e naturalizza i rapporti di potere, nonché della possibilità di attirarsi quelle tipiche accuse di attaccare una collega per “invidia” che non possono che prosperare sempre più in un contesto di analfabetismo politico dilagante. Se Elvira Vannini – potrei metterci dieci mani sul fuoco – avesse desiderato a tutti costi curare grandi biennali internazionali avrebbe compiuto ben altre scelte e non da oggi, ma da almeno vent’anni! 
Avendo premesso che la sua «nomina in rosa» costituisce l’ «ultimo atto del presidente uscente Paolo Baratta, dopo un paio di decenni di dominio esclusivo e alla scadenza del suo incarico incontrastato»; che «Con la totale complicità della stampa di settore e insieme alla disarmante assenza di ogni critica o di qualsiasi forma di antagonismo dal mondo dell’arte, dopo quasi vent’anni di nomine politiche, in assenza di un consiglio direttivo trasparente o di un board (come avviene in altre biennali internazionali e come accadeva un tempo a Venezia), abbiamo la “prima donna italiana” a dirigere la kermesse lagunare, ampiamente accompagnata da unanimi esaltazioni identitarie», nonché che la Alemani è «conosciuta dagli addetti ai lavori più per essere la moglie di Massimiliano Gioni che non per il suo lavoro curatoriale, prevalentemente estraneo alla storia dell’exhibition-making», la Vannini lambisce finalmente quello che mi pare l’autentico cuore della faccenda: la futura curatrice della Biennale di Venezia «Non si è mai occupata di ecologia, tantomeno di femminismo, ma nel grande campo d’improvvisazione quale è il sistema dell’arte, questo non ha alcun rilievo, perché oggi questi temi cool sono strumenti immancabili nel kit di ogni artista, curatore o casa editrice al passo coi tempi» (8: Ibidem). 
Per una critica e curatrice che fin dai suoi primissimi passi si è interrogata sul rapporto tra pratiche artistiche e politica intesa come lotta per una società più giusta e che dai suoi esordi fino ad oggi ha lasciato ruotare tutti i suoi progetti e i suoi scritti intorno a tale dualità – fin dai tempi in cui, in altre parole, non erano così tanti, almeno in ambito italiano, gli artisti ed i curatori interessati ad affrontare tematiche legate all’ecologia, alle discriminazioni di etnia o di genere, all’oppressione dei lavoratori, allo strapotere dei media etc. –, il modo in cui la Alemani intende affrontare certe questioni, stando allo statement curatoriale ed al titolo della mostra – che «riprendono un libro di fiabe di Leonora Carrington Il latte dei sogni» - è inconcepibile: «Fecondità, simbolismo esoterico, sogno, divinità e creature femminili schiudono un immaginario e una cosmogonia che, in un momento storico di crisi irreversibile, in cui meglio non parlare della realtà, non poteva trovare miglior correlato nell’evasione dal reale. Ma, da una tribuna di tal rilievo, la prospettiva d’indagine, non può essere individuale, soggettiva e narcisistica. Cosa può ancora raccontarci l’imponente macchina espositiva veneziana? Senza dubbi Alemani incarna una visione manageriale, capitalista e liberale dell’arte. E sicuramente non possiamo che aspettarci l’ennesima mostra a cui l’industria culturale ci ha abituati». Il culmine dello sconcerto arriva però «quando leggendo il testo di Cecilia Alemani si scorge citata Silvia Federici, riferimento imprescindibile per intere generazioni di femministe e movimenti transnazionali, ma con l’accurata rimozione della dimensione immediatamente materialista e conflittuale delle lotte contro il capitale, la riproduzione delle nostre vite, il controllo dei corpi, evitando di usare parole come capitalismo, patriarcato, diseguaglianze e ingiustizie sociali, femminismo popolare, eludendo qualsiasi traiettoria del suo impegno teorico e militante» (9: Ibidem). 
Cosa intende del resto la Federici quando parla di “re-incantesimo del mondo”, ovvero l’espressione cui in particolare la Alemani attinge? Per la Vannini non ci sono dubbi: esso ha a che fare con la «scoperta di logiche diverse da quelle imposte dallo sviluppo capitalista: re-inventare e re-immaginare il rapporto con la vita, con la natura e con il nostro corpo; vuol dire recuperare il senso della creatività come qualcosa che appartiene a tutti, non a una ristretta cerchia elitaria che governa e amministra i capitali dell’arte». Senonché «quando è il padrone a citarla e senza un’analisi marxista di quei rapporti di forza e di classe che, se taciuti (e che la stessa Alemani incarna in un modello femminile manageriale, filoamericano e di potere), confondono il nemico con la controparte, diventano frasi espropriate di senso e direzione politica, un tentativo di glamourizzazione depoliticizzata e inaccettabile». Da qui l’invito ad usare semmai l’insegnamento della Federici «per distinguere tra i processi di soggettivazione e quelli di cattura del capitale, perché il “re-incantesimo del mondo” significa costruire un’alternativa al capitalismo, re-immaginare pratiche, saperi, forme di organizzazione contro il disincanto capitalista, colonialista e patriarcale», nonché la chiosa: «Perché rivendicare ancora un’arte separata dal sociale e come fuga nel mondo magico? È solo a partire dalle lotte che possiamo reincantare il mondo» (10: Ibidem). 



Pur provando grande simpatia per lo slancio altermondista della Vannini – mi permetto di chiamarlo così; del resto scrivo ormai a pochi giorni dal ventennale del G8 di Genova e chi non ricorda la potenza evocativa di uno slogan come «un altro mondo è possibile?» -, credo che, ai fini del nostro discorso, convenga focalizzarsi sulla deliberata separazione della questione femminile – meglio essere prudenti ed evitare l’aggettivo “femminista” – da una critica più ampia, che abbracci la logica capitalistica in generale con il suo produrre oppressione, alienazione e diseguaglianza così come si può evincere dall’analisi delle scelte della Alemani. Dopo di che tale dinamica, così magistralmente colta, va ulteriormente considerata in rapporto ad altri ambiti della società contemporanea e ad altri campi rivendicativi – e la stessa Vannini si dimostra consapevole di tale necessità, come risulta chiaro dall’esempio “virtuoso” della Biennale del 1968, da contrapporre alla Biennale futura, nonché dalla premura nell’aggiungere che la Alemani non si è mai occupata nemmeno di ecologia, oltre che di femminismo. Il punto fondamentale dal quale è necessario partire onde condurre eventualmente una battaglia che realmente incida sullo «stato di cose presente» - come direbbero Engels e Marx - ed a prescindere dal fatto che essa implichi poi i linguaggi artistici o meno, mi pare dunque quella che chiamerei una sorta di rialfabetizzazione politica. Non si andrà molto lontano finché non si prenderà insomma coscienza di come funziona tendenzialmente il capitalismo contemporaneo. 
La sua tracotanza non è più così facilmente associabile alla nozione di “potere bianco”, anzi si serve dell’immagine di una società multietnica, per quanto inesistente nella sua aura edenica, per vendere meglio i suoi prodotti. E questo punto specifico avrebbe dovuto essere chiaro fin dai tempi delle pubblicità della Benetton dei primi anni novanta ideate da Oliviero Toscani, benché la cronaca contemporanea non cessi di fornire spunti che avallano tale strumentalizzazione dell’antirazzismo. Basti pensare al polverone che ancora mentre scrivo si alza sulla Nazionale italiana perché i suoi calciatori non dimostrano solidarietà con il movimento Black Lives Matter (BLM), non inginocchiandosi o inginocchiandosi solo parzialmente prima degli incontri degli Europei di calcio 2021 – cui partecipano tutti soggetti che, inginocchiati o meno, incassano lauti stipendi annuali -, mentre Camara Fantamadi, bracciante ventisettenne originario del Mali, muore nelle campagne del brindisino spossato dal lavoro sotto il sole cocente. 
Se dall’antirazzismo passiamo all’ecologia il discorso si fa ancora più perverso – oltre che complesso -, ma anche qui purtroppo la sostanza non è diversa. Il capitalismo contemporaneo – anche se non da moltissimo – ha ormai abbandonato quasi del tutto le posizioni negazioniste sul surriscaldamento climatico e si è invece gettato a capofitto nella propaganda volta a far apparire non solo possibile ma persino idilliaca la prospettiva di un capitalismo colorato di verde. In Italia in particolare abbiamo assistito alla farsa del Ministero della Transizione Ecologica, di cui molti – troppi – si sono innamorati solo ad udire il nome, senza considerare che questo dicastero non ha fatto altro che sostituire il precedente Ministero dell’Ambiente o che colui che è stato scelto per guidarlo è un uomo come Roberto Cingolani, già Responsabile Tecnologie e Innovazione di Leonardo (ex Finmeccanica) - ovvero una delle maggiori imprese di materiale bellico che esista al mondo -, il quale si è presto dichiarato favorevole al ritorno al nucleare ed all’idrogeno alimentato a gas, e ci sarebbe da aggiungere ancora tanto altro. Resta ferma però, più in generale, la contraddizione tra un pianeta dalle risorse finite ed un sistema economico che ne presuppone invece di illimitate, come ha ben messo in evidenza – tra gli altri – il teorico eco-socialista belga Daniel Tanuro (11: Cfr. almeno D. Tanuro, L'impossible capitalisme vert, 2010, trad. it. L’impossibile capitalismo verde. Il riscaldamento climatico e le ragioni dell'eco-socialismo, Edizioni Alegre, Roma, 2011; D. Tanuro, Trop tard pour être pessimistes! Ecosocialisme ou effondrement, 2020, trad. it. È troppo tardi per essere pessimisti. Come fermare la catastrofe ecologica imminente, Edizioni Alegre, Roma, 2020). 
Non diverso – come un po’ abbiamo già considerato seguendo il discorso della Vannini – è lo scenario che si osserva se ci volgiamo infine al versante del sesso e del genere. Si può essere, ad esempio, così ingenui da non pensare che si sia cercata di arginare la cattiva nomea che nell’ultimo decennio si era giustamente guadagnata la cosiddetta Troika - Commissione europea, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale – anche attraverso la nomina di donne a capo delle istituzioni che la compongono (12: Nel giro di pochissimi anni la Troika è diventata tutta “rosa”. L’attuale direttore operativo dell’FMI è Kristalina Georgieva, ma a capo di esso vi era già una donna, Christine Lagarde, che dal novembre 2019 ha preso il posto di Mario Draghi come in qualità di presidente della BCE, mentre la sua eredità. Il mese successivo Ursula von der Leyen diviene invece presidente della Commissione Europea al posto di Jean Claude Juncker)? Cosa dire inoltre della valanga di sponsorizzazioni, provenienti delle peggiori multinazionali – Amazon, Coca-Cola, Nestlé, etc. –, che da qualche anno a questa parte accompagnano i Gay Pride italiani, benché il fenomeno abbia avuto inizio prima in ambito americano, tanto che sia Oltreoceano sia nel mio paese – e presumo anche in altre parti di Europa – cominciano a sorgere manifestazioni alternative?
Non sono questi che pochi, ma consistenti esempi gettati un po’ alla rinfusa eppure sufficienti ad enunciare una massima generalmente valida, e lo stesso mio commento del testo della Vannini non è servito che chiarire come essa non risparmi il settore della cultura e dell’arte contemporanea in generale, anzi… Il capitalismo del XXI secolo non solo non ostacola, ma addirittura promuove l’espressione di tutta una serie di istanze sociali e civili cui un tempo non troppo lontano tendeva ad essere ostile. Esso è probabilmente disposto a patrocinare, in una certa misura ed in certe condizioni, persino una critica di se stesso, purché appunto si rimanga sul piano teorico e non si traduca la teoria in pratica. Una multinazionale produttrice di armi, per formulare l’esempio più immediato, sarebbe forse pronta anche a sponsorizzare una mostra con opere che critichino le stesse guerre che essa rende possibili, purché possa continuare a vendere le sue merci. Una multinazionale responsabile di disastri ambientali, per formulare un altro esempio simile, sarebbe forse pronta anche a sponsorizzare una mostra con opere che additino catastrofi ecologiche, purché possa continuare indisturbata le sue politiche di depredazione ambientale. Una banca legata a disinvolte operazioni speculative, per essere ancora più chiari, sarebbe forse pronta anche a sponsorizzare una mostra con opere che stigmatizzino quello che viene chiamato il capitalismo tossico (13: M. Bertorello, D. Corradi, Capitalismo tossico. Crisi della competizione e modelli alternativi, Edizioni Alegre, Roma, 2011) o parassitario (14: Z. Bauman, Capitalismo parassitario, Laterza, Roma-Bari, 2009), purché a nessuno venga in mente di mettere davvero i bastoni tra le ruote alle sue strategie di gestione. Oggi più che mai l’ “artista politico” si trova così di fronte ad una impasse! 

                                                 Stefano Taccone, giugno 2021

venerdì 29 luglio 2022

L'IMPOSSIBILE ARCADIA - L'arte nello spazio pubblico alla coda della pandemia?

Il testo costituisce il mio contributo a Mind the Mapmostre collettiva degli allievi del corso di fotografia digitale tenuto da Robert Pettena presso l'Accademia di Belle Arti di Firenze, inauguratasi il 23 giugno 2022 presso la Manifattura Tabacchi di Firenze .
    
Firenze, come tutte le città italiane con un grande patrimonio storico-artistico - e si sa che il capoluogo della Toscana è forse la più emblematica in tal senso -, non è propriamente un centro dove un’arte declinata al presente può avere vita facile. Intendo dire che troppo è il peso degli Uffizi, dei Medici, del David, di Dante etc. perché Firenze possa essere guardata nel mondo e dal mondo con altri occhi. E ciò naturalmente costituisce delizia ma anche croce per i fiorentini autoctoni. Delizia perché nessuno mette in discussione il prestigio e la bellezza di tale monumentale patrimonio – senza considerare quanto l’economia cittadina e non solo sia strettamente dipendente dal turismo -, ma anche croce nel momento in cui esso diviene necessariamente una sorta di katechon, ma non ad una presunta apocalisse, bensì alla possibilità di produrre ed accogliere – anche – un’altra bellezza.



    È vero che Firenze è comunque ben più “autentica” di Venezia - che vive una condizione ormai drammatica per molti versi –, nel senso che a parte il centro storico persistono diversi quartieri non turistici dove i fiorentini possono vivere e muoversi senza soggiacere all’impressione di essere avvolti da un museo a cielo aperto. Tuttavia una diversa visione resta probabilmente una conquista.


        
Giuseppe Penone, Rovesciare gli occhi, 1970.

    «Rovesciare gli occhi» è l’invito un po’ – ma non troppo - enigmatico che Giuseppe Penone rivolge nel 1970 indossando delle lenti a contatto specchianti. Non troppo enigmatico perché in quell’opera, e in considerazione del tempo storico e della poetica di Penone, ho sempre visto una sorta di dichiarazione alquanto precoce del consumarsi dei paradigmi moderni occidentali, l’additare il transito, sia pure lentissimo, in un’epoca ove le menti e i cuori più sensibili avvertono che è necessario quanto meno rivedere l’idea di progresso se non si vuole conoscere un regresso. È l’epoca di un certo Pasolini, degli hippies, del consolidarsi dei movimenti ecologisti etc., di una spinta che, pur zigzagando e senza alcun nitore di linea e uniformità di forze, arriva fino ad oggi ed è destinata a continuare chissà ancora per quanto, benché ciò non significhi affatto che essa contribuirà a salvare la vita dell’uomo sulla Terra – con tutta l’ambiguità che quest’ultima impresa del resto comporta. Nel suo solco, infatti, oggi si trovano infatti a convivere il veganesimo radicale e le strategie di Greenwashing delle multinazionali ma anche dei “grandi” della politica internazionale. E da una situazione così magmatica, e talvolta rasentante persino punte di evidente schizofrenia, non è facile prevedere cosa potrà scaturire.


Parco delle Cascine, Firenze.

La stessa pandemia, con la trasformazione coatta di tutta una serie di abitudini – per quanto mentre scrivo la percezione è che, almeno da noi e sia pure a piccoli passi, il “nuovo galateo” sarà abbandonato -, è stata una occasione per rovesciare gli occhi e Robert Pettena, in quanto docente di Fotografia presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze con una forte vocazione sperimentale, non poteva non coglierla, nella coscienza che per rivedere la città in cui opera ed insegna così clamorosamente deserta e immota come tra l’autunno del 2020 e l’inverno-primavera del 2021 presumibilmente passerà un bel po’ di tempo. Questo il presupposto dal quale è partito il corso dello scorso anno.



Duccio Franceschi, Boscolosco, 2022.


In considerazione del sia pur parziale “ritorno alla normalità” degli ultimi dodici mesi, il corso di quest’anno elegge invece un ambiente pure carico di storia, giacché il primo nucleo del Parco delle Cascine è costituito dalla tenuta delle Cascine dell'Isola, acquistata dal Duca Alessandro I de' Medici (1531-1537) e incrementata da Cosimo I (1537-1574) con l'acquisizione di altri terreni, tutti utilizzati a scopo agricolo e per la caccia, eppure sufficientemente decentrato rispetto ai grandi itinerari del turismo e dei traffici cittadini in generale per farsi territorio di interrogazioni pluridimensionali e plurilinguistiche, a partire dalla sua controversa identità di polmone verde e di riserva di biodiversità, ma anche di luogo di spaccio di droga, nonché già nel suo stesso essere un bosco capace di evocare tutto un immaginario ancestrale non alieno da timori e tremori. Quello che si manifesta peculiarmente in celebri fiabe come Cappuccetto Rosso o Biancaneve, per intenderci. Ce ne sarebbe abbastanza dunque per dare libero sfogo tanto a riflessioni di carattere sociale quanto a fantasie di evasione.

    
                 Duccio FranceschiBaccanale, 2022.

Nella direzione di una visione del bosco antiidilliaca va la “tuta mimetica” proposta da Duccio Franceschi, come il titolo stesso, Boscolosco, preannuncia. Egli insiste sul bosco come spazio franco della non legalità, lo pensa innanzi tutto come teatro di una tradizione che va dai riti orgiastici antichi ai rave post-moderni, e quale soluzione migliore dunque che vestirsi in maniera tale dal distinguersi il meno possibile dall’ambiente boschivo, portando impresso sul proprio abito i colori e le forme di esso? La domanda è retorica, ma anche no, giacché con l’altro suo abito, Baccanale, non fa che contraddire la logica mimetica del suo pendant. Riproducendo la visione al microscopio di alcune sostanze chimiche e stupefacenti e quindi denotante colori molto sgargianti – predominante violacea -, diviene vice versa l’espediente per una migliore visibilità finalizzata alla rivendicazione più spudorata del gesto di trasgressione.



Zhang WenzhengALLORA, AMICO, AMORE(o Il picnic notturno), 2022.


Il tratto notturno del bosco è anche il target di Zhang Wenzheng, ma persino il nero ha bisogno di un po’ di luce per scoprirsi inequivocabilmente come tale: da qui il proposito di illuminare il perverso cortocircuito droga-mucche attraverso piccole costruzioni di oggetti parimenti stranianti e conturbanti. Il suo progetto è un autentico rompicapo tra polarità che paiono scambiarsi i ruoli prima ancora che sia possibile metterle a fuoco. Gli africani dalla pelle scura sono gli agenti visibili del traffico di droga, eppure la “mano nera”, ovvero invisibile, è italiana e quindi bianca. I bovini come antichi produttori di cibi sani e “pacifici” ora si trasformano in inconsapevoli veicoli di cibi ben altrimenti “energetici”.



                        Elisa ScarnicchiaSnezee, 2022. Frame da video.

L’anelito verso un bosco come spazio della rigenerazione potrebbe essere, almeno nelle intenzioni iniziali, quello di Elisa Scarnicchia, ma i continui starnuti che turbano la visione del suo video Sneeze paiono ratificarne l’impossibilità. Saranno le allergie di stagione dovute alla “troppa” non antropicità del bosco oppure, vice versa, al nostro prolungato distacco da tutti gli altri elementi della natura che ci ha resi apparentemente più a nostro agio in un cubo di cemento? O non sarà piuttosto il fatto che quel bosco è tutt’altro che un’eterotopia rispetto alla civiltà ed anzi sovente nelle immagini vediamo come esso sia invaso dai segni, spesso macrosegni, della presenza umana, non di rado peraltro neanche particolarmente propri di una scena campestre – il cavalcavia con le automobili, i pali della luce… Non va poi tralasciato il surplus di inquietudine che uno starnuto anche virtuale, tanto più se ripetuto, provoca fatalmente nel prossimo in era post-Covid 19, al punto che lo spettatore – o almeno quelli che possiedono anche solo una piccola punta di ipocondria – ha quasi l’impulso automatico a schermarsi valentemente dalla potenziale aria infetta che quelle esplosioni respiratorie emettono.


Guercino, Et in Arcadia ego, 1618-1622
 
Tra artisti insomma che proprio nell’Arcadia non ci credono, come peraltro non ci credevano pienamente neanche i poeti dell’antichità, tanto è vero che la inventarono. Così come non ci credevano gli artisti visivi di epoche passate, anche preindustriali. Chi non ricorda, ad esempio, Et in Arcadia ego (1618-1622) del Guercino, ove i busti di due pastori sbucano dagli alberi di un bosco per scoprire un incongruo teschio adagiato su di un muricciolo che reca appunto il memento mori del titolo e rimangono naturalmente sgomenti?

Stefano Taccone


 


martedì 13 luglio 2021

ARDITE APORIE - L’arte nello spazio pubblico in tempi di pandemia

 Il testo costituisce il mio contributo ad Archivi e topografie immaginarie e  Solo nel deserto, mostre collettiva degli allievi del corso di fotografia digitale tenuto da Robert Pettena presso l'Accademia di Belle Arti di Firenze. Inauguratesi il 18 giugno 2021 a Firenze, rispettivamente presso la PIA-Palazzina Indiano Arte e la Manifattura Tabacchi, la prima resterà aperta fino al 31 luglio, mentre la seconda ha chiuso il 10 luglio.

«A meno di non ricorrere a spazi sottovuoto», scrive la filosofa Donatella Di Cesare, «bisognerà vivere in un ambiente contaminato, infettato, avvelenato. L’integrità è un miraggio del passato. Per avere condizioni accettabili l’organismo deve votarsi a una veglia permanente, una sorveglianza insonne. Virus e batteri sono tra noi. Questi nuovi coinquilini aggressivi invadono anche l’intimità, insidiano l’antica dimora, dove tentano di stanziarsi. La società dell’igiene chiama a raccolta e l’immunità diventa un’ideologia. La cura di sé ossessiva e la medicalizzazione continua sono lo specchio della chiusura selettiva, del rifiuto convinto alla partecipazione, della conservazione caparbia. I sistemi immunitari sono i servizi di sicurezza specializzati nella protezione e nella difesa contro invisibili invasori, virus migranti che avanzano pretese di occupazione dello stesso spazio biologico. Il miraggio di immunità procede di pari passo con la globalizzazione». (1: D. Di Cesare, Virus sovrano? L’asfissia capitalistica, Bollati Boringhieri, Torino, 2020, pp. 86- 87). 



Federico Niccolai, Isolotto Firenze (Google search), 2021.
 

Quando sono state scritte queste parole? Considerando che la prima edizione del volumetto dal quale sono tratte, Virus sovrano? L’asfissia capitalistica, è del giugno 2020, presumibilmente poco più di un anno fa. Nel frattempo c’è stata la “grande illusione” dell’estate, quando non pochi sostenevano che il virus se ne sarebbe andato da solo col caldo e non sarebbe più tornato – possibilità alla quale evidentemente la Di Cesare non ha mai creduto, al pari, fortunatamente, di tanti altri, compreso il sottoscritto -; quindi la seconda ondata – che in Italia e non solo è stata peggiore della prima – e poi ancora la terza – costantemente accompagnata però questa volta dalla vicenda dei vaccini, i quali da mesi, e tanto più nelle ore in cui scrivo, suscitano insieme speranza e timore. Lo scorrere dei mesi se da una parte non ha fatto che esasperare, sia sul piano psicologico-emotivo che su quello socio-economico, la situazione di tanti individui che invece avevano affrontato la prima ondata con maggiore serenità - nella convinzione che non si trattasse che di sforzarsi di vivere diversamente per un paio di mesi e cosa avrebbe mai potuto costituire un sacrificio del genere rispetto agli anni di guerra e privazioni con cui ebbero a che fare i nostri genitori e i nostri nonni? -, dall’altra pure pare aver ingenerato in non pochi soggetti un certo senso di adattamento. 

                        Tang Xiaoyuan, Tunnel, 2021, stampa su PVC.


Lo si constata quando, in tempi di maggiore rilassatezza ed ottimismo, vengono poste domande circa il quali sarebbero le nuove prassi ed abitudini che, adottate durante la pandemia, potremmo continuare ad osservare in un mondo realmente e totalmente liberato dalla minaccia del SARS-CoV-2. Il primo punto in cima alla lista di politici, giornalisti, imprenditori, economisti e altri personaggi del mainstream sembra essere allora, senza troppe esitazioni, l’uso diffuso dei mezzi digitali, unito ad una particolare predilezione – bisogna aggiungere – a tirare in ballo il settore della scuola – una posizione peraltro che tende surrettiziamente ad una identificazione del tutto immotivata tra uso della tecnologia in ambito scolastico, che non si vede per quale motivo di per sé dovrebbe costituire un’alternativa alla frequenza in presenza al 100%, e didattica parzialmente a distanza. Se invece si sondano un po’ gli umori dei cittadini, l’impressione è che - tra l’altro – la prospettiva di abbandonare la mascherina susciti meno entusiasmo di quanto si possa credere e che anzi non pochi vi si siano quasi affezionati, tanto da dichiarare, non senza l’approvazione di alcuni virologi, immunologi, epidemiologi o, più semplicemente, di opinionisti, che d’ora in poi la porteranno per sempre. Le prime motivazioni addotte – ed è per questo che trovano il consenso di alcuni scienziati – sono naturalmente di carattere sanitario: dalla constatazione che l’uso della mascherina ha sensibilmente abbattuto i casi di influenze e raffreddori a quella per cui la mascherina proteggerebbe anche dallo smog e quindi dalla eventuale contrazione di altre malattie, come quelle tumorali. Dalla rivendicazione della libertà personale di indossare la mascherina anche in un contesto non pandemico, si passa poi abbastanza rapidamente ad osservare che - sempre in un ipotetico mondo senza più Covid -, la mascherina, almeno durante i mesi più freddi e nei luoghi chiusi, costituirebbe comunque una opportuna forma di rispetto nei confronti del prossimo, con tanto di domanda retorica del tipo: «Ma in definitiva è poi così fastidioso tenersi una mascherina?». Non mancano inoltre raffronti con i cinesi e i giapponesi, presso i quali, essendo guarda caso i popoli più civili – si dice –, l’abitudine di portare la mascherina vige da tempo (2: Il mio discorso sul favore con il quale una percentuale – non sappiamo quanto consistente – di individui vede l’uso delle mascherine anche dopo la pandemia si basa su dibattiti televisivi, su opinioni rinvenute attraverso vari socialnetwork e su conversazioni private, ma, qualora qualcuno nutrisse dubbi circa l’esistenza di certi orientamenti cfr. almeno. V. Aiello, Perché le mascherine potrebbero diventare “stagionali” dopo la pandemia di Covid, in “fangae.it”, Napoli, 10 maggio 2021, https://scienze.fanpage.it/perche-le-mascherine-potrebbero-diventare-stagionali-dopola-pandemia-di-covid/)

     Cao Zhihao, I testicoli di David sono stati finalmente appesi sotto il Ponte Vecchio, 2021, performance. 


Alle motivazioni sanitarie – discutibili o meno che siano – se ne aggiungono però altre di carattere palesemente differente, definibili piuttosto psicologico-emotive, come si evince, ad esempio, da un’inchiesta di The Guardian condotta circa un mese fa, all’indomani della fine del divieto di portare la mascherina all’aperto negli USA per coloro che hanno completato il vaccino. Alcune persone hanno dichiarato infatti al giornale «che preferiscono semplicemente indossare le mascherine per il viso in pubblico e che ciò non ha nulla a che fare con l'essere pro-scienza o anti-scienza, liberale o conservatore. Tale scelta è invece motivata del fatto che esistono più fattori che possono ferirli rispetto ai virus, inclusa l'attenzione aggressiva o sgradita di altre persone, o addirittura qualsiasi attenzione». Ecco qualche testimonianza più specifica: «Aimee, una sceneggiatrice di 44 anni che vive a Los Angeles, ha affermato che indossare una mascherina in pubblico anche dopo essere stata vaccinata le dà una sorta di “libertà emotiva”. “Non voglio sentire la pressione del dover sorridere alle persone per assicurarmi che tutti sappiano che sono amichevole e simpatica”, ha detto. “È quasi come togliere di mezzo lo sguardo maschile. C'è libertà nel riprendersi quel potere”»; «Per Elizabeth, una docente di 46 anni che vive vicino ad Atlanta, in Georgia, la mascherina ha avuto successo laddove anni di terapia e farmaci nulla avevano potuto: tenere a freno la sua ansia sociale e permetterle di sentirsi a proprio agio mentre è fuori nel mondo»; «Hartley Miller, un tecnico di 33 anni di San Francisco, ha affermato che l'ultimo anno di continue conversazioni su Zoom con telecamera accesa ha seriamente esacerbato il suo dismorfismo corporeo […] “Mi limito a fissare quella piccola scatola con la mia faccia dentro e a smontare il mio aspetto”, ha detto, notando che la sua angoscia sta influenzando le sue prestazioni lavorative. “Il mio doppio mento sembra sei volte più grande, le mie borse sotto gli occhi sono di un viola troppo profondo ecc.”». (3: J. Carrie Wong, The people who want to keep masking: ‘It’s like an invisibility cloak’, in “The Guardian”, Londra, Monday 10 May 2021, https://www.theguardian.com/usnews/2021/may/10/the-people-who-want-to-keep-masking-its-like-an-invisibility-cloak).

                                                       Chiara Salvini, Isolotto, 2021, carta.

 

La tentazione è di incrociare le dichiarazioni di “fedeltà alla mascherina” per motivazioni legate alla necessità di preservare la salute fisica con quelle che abbiamo appena ascoltato, che invece sono chiaramente legate alla sfera della salute dell’anima, in maniera tale da leggere le prime come spesso e volentieri assimilabili a nient’altro che ad un mascheramento delle seconde. Di supporre, in altre parole, che influenze, raffreddori, smog etc. non siano che più o meno inconsce bugie onde nascondere i reali, ma meno facilmente confessabili, moventi legati a fobie sociali e disturbi affini. Comunque stiano le cose, è certo che oltre un anno di, pur necessaria, reiterata coazione alla protezione ed al distanziamento nei confronti dei nostri simili, di continua, benché fondata, percezione del pericolo in qualunque altro luogo che non sia la nostra dimora non può non averci trasformato nel profondo – chi più e chi meno e, tendenzialmente, in particolare le generazioni più giovani, gli adolescenti in formazione – e di conseguenza aver trasformato, almeno per il momento, il nostro quotidiano modo di relazionarci, e ciò varrebbe anche qualora come per magia ci ritrovassimo in un ideale ambiente “Covid-free”. 


                       Davide Vaccaro, Orizzonte di attesa, 2021, tavolo di legno, terracotta, piante.

Tale scenario muta radicalmente anche i modi di pensare a tutte quelle forme di arte pubblica, partecipativa, relazionale etc. che, essendo significativamente emerse a partire dai primi anni Novanta, fornivano l’impressione, ormai da un bel po’ di tempo, di ripetere troppo spesso se stesse, non senza la complicità dei critici e dei curatori che pure le andavano presentando costantemente in termini assai stantii, come se fossero delle eterne novità, quando invece ormai l’effetto propulsore dell’uscita dagli spazi deputati e del coinvolgimento di nuovi pubblici pareva essersi per lo più consumato. Il merito di Robert Pettena e dei suoi studenti mi sembra pertanto individuabile nella caparbietà e nell’astuzia con la quale hanno cercato di introdursi negli interstizi della “vecchia socialità” rimasti accessibili – senza per questo fare a meno degli strumenti della “nuova” -, cercando di valorizzarli e goderne il più possibile, in un tempo in cui la cosa più semplice da fare sarebbe stata quella di rinchiudersi nei propri domicili ed accomodarsi davanti ad un dispositivo con connessione, attendendo che fuori cessasse la tempesta, sempre ammesso e non concesso che quel giorno sarebbe arrivato. In un momento in cui il terreno sembrava davvero mancare sotto i piedi, giacché i criteri attraverso i quali ci siamo più o meno fin dalla nascita relazionati con l’altro venivano meno, l’ostinazione di Robert e dei suoi ragazzi di cercare alternative non solo vietamente telematiche alla ricerca artistica, intesa peraltro come indagine sullo spazio sociale a trecentosessanta gradi, mi suscita una particolare simpatia e mi aiuta a continuare a credere in un futuro prossimo che – come spero tutti si augurano, ma non ne sono troppo sicuro – non sia fatto solo di social network e di serie tv, di compleanni festeggiati su piattaforme telematiche e di presentazioni di libri in streaming. 

                                                                                                                                              Stefano Taccone

giovedì 1 aprile 2021

LA COOPERAZIONE DELL'ARTE - La pratica artistica verso la vita in area campana


Da S. Taccone, La cooperazione dell'arte, Iod edizioni, Casalnuovo di Napoli, 2020, pp. 7-18.

Piantate in mezzo a una piazza un palo adorno di fiori, raccogliete intorno il popolo, e otterrete una festa. Ancor meglio: fate che gli spettatori siano lo spettacolo; rendete essi stessi attori, fate in modo che ciascuno si veda e ami se stesso negli altri, affinché tutti siano più uniti. 

 JEAN-JACQUES ROUSSEAU

«Tra la metà del decennio sessanta e i primi anni del decennio settanta» – scrivevo quasi sette anni fa nell’introduzione a La contestazione dell’arte (2013) – la pratica artistica verso la vita in area campana «ha senz’altro in Napoli il suo principale focolaio», pur interessando «costantemente anche centri limitrofi – Caserta e Scafati su tutti». Diversamente avviene – aggiungevo – «dopo la metà degli anni settanta – allorché sarà la provincia a essere il teatro d’azione preponderante» (1:  S. Taccone, La contestazione dell’arte, Phoebus, Casalnuovo di Napoli, 2013, Nuova ed. Iod, Casalnuovo di Napoli, p. 7).


Qualche pagina più avanti scrivevo inoltre che «la nozione che più coerentemente mi pare accompagnare» la vocazione allo sconfinamento dell’arte nella vita, nel primo dei due lassi temporali «è la contestazione», mentre «non altrettanto si potrà dire» del secondo, «allorché il concetto più pregnante da associare alle ricerche tra arte e vita si rivelerà invece […] quello della cooperazione, sulla quale appunto si fonda quella tendenza generalmente detta arte nel sociale» (2: ...). Essa potrebbe del resto essere intesa «come scaturente proprio da una sorta di rovesciamento delle attitudini contestatarie: è quello che avviene con Riccardo Dalisi al Rione Traiano, esperienza che pur collocandosi su di un piano strettamente cronologico nel periodo della contestazione, risulta già pienamente informata ai paradigmi della cooperazione, e anzi a essa apre letteralmente la strada non solo in Campania, ma in tutta Italia, ma questa è un’altra storia» (3: S. Taccone, La contestazione dell’arte, cit., 12-13).

                             

Enrico Crispolti affigge il Manifesto futurista ai pittori meridionali di Umberto Boccioni, Napoli Situazione 75, Marigliano, 1975.

Ebbene è arrivato finalmente il momento di raccontare quest’altra storia, e di raccontarla con un respiro e una complessità inediti, tanto più considerando che la situazione degli studi su questi temi non appare più semi-desertica come quella del 2013. Negli anni successivi, sia in Campania che nel resto d’Italia, sono infatti fioriti convegni, libri e nuovi giovani studiosi che hanno contribuito ad allargare la conoscenza e la riflessione sull’arte più eccedente degli anni settanta e su questioni limitrofe. Non di meno questo libro mantiene tutta l’urgenza di quando è stato concepito.

Crescenzo Del Vecchio, Muricciolaia, 1976, Bagnoli (Napoli).

Inevitabile, volendo affrontare l’arte dello sconfinamento della seconda metà degli anni settanta in Campania – probabilmente più che in ogni altra regione – non fare i conti costantemente con la figura di Enrico Crispolti – non così centrale, benché pure importante, risulta questo personaggio negli anni della contestazione. Non di meno, il mio studio tutto vuole essere tranne che una sorta di tributo al critico recentemente scomparso, quasi adottandone sostanzialmente il punto di vista. Esso intende restituire invece la complessità e la pluralità di voci, sguardi e azioni di quel periodo, senza disconoscere il ruolo di stimolo di Crispolti nella nascita e nello sviluppo di molte formazioni e iniziative, ma anche salvaguardando l’autonomia di ciascuna, ricusando una lettura assolutamente ingenerosa che vorrebbe tutti questi fermenti campani una sorta di invenzione crispoltiana. Crispolti è piuttosto un importante, imprescindibile attore, ma entro un humus più generale. Egli tenta, come sarà chiaro nel corso della narrazione, di elaborare una sorta di sintesi tra istanze e soggettività non antitetiche ma comunque meno uniformi di quanto nelle sue teorizzazioni appaiano. Egli pensa a una sorta di triangolazione tra base popolare, artista collettore di creatività e istituzioni governate dai partiti della sinistra – in primis il P.C.I. – come alternativa riformista al mercato, ma anche collocandosi a una distanza ormai siderale da una concezione avanguardista come palingenesi totale e superamento della divisione del lavoro tipica della sfera borghese. (4:  Cfr. S. Taccone, La radicalità dell’avanguardia, Ombre Corte, Verona, 2017, pp. 61-70). La più importante verifica – nei suoi punti di forza e nei suoi punti di debolezza – va identificata senz’altro nella biennale veneziana del 1976.


Gruppo Salerno 75, Gessificare, 1976, Venezia

Ancorando le sorti dell’arte nel sociale alle fortune politiche di una certa parte, lo stesso Crispolti, come è chiaro analizzando certe sue dichiarazioni ancora entro il decennio settanta, si trova spiazzato, contemplando un presente diverso da quello che solo qualche anno prima si è presupposto. Non è lecito intendere le opinioni di ogni singolo operatore in conformità assoluta con il maggior teorizzatore delle loro poetiche. Non solo esse sono molto più sfaccettate, ma non è lecito neanche tralasciare il peso dell’apporto teorico di altri critici, come Gerardo Pedicini o Enzo Di Grazia, benché, a differenza di Crispolti, troppo legati alle sorti di questo o quel gruppo per assurgere a teorici più compiuti. Inoltre la mia disamina comprende anche gruppi ed esperienze per le quali, per differenti circostanze e motivi, Crispolti non manifesta interesse. È il caso dell’Operativo Comunicazione Territorio (O.C.T.) di Scafati o dell’attività di Franca Lanni, cui a un tratto si associa Renata Petti. Promotori di un’operatività magari più o meno esplicitamente in polemica con la visione di Crispolti, ma pure assolutamente riconducibili entro una temperie che si descrive appunto trascendente la pur cruciale personalità del professore dell’Università di Salerno. Così come comprende, come già nel volume precedente, il racconto di soggetti che amano la dimensione evenemenziale dell’arte ma non per questo sempre e comunque l’operatività di gruppo: da Giuseppe Desiato a Giuseppe Pappa, da Enrico Bugli a Giovanni Tariello, da Lucio Felice Bifulco ad Annibale Oste. Questi ultimi due in particolare – per diversi motivi – quasi mai ricordati nell’economia della densissima storia che tento di restituire. Parimenti, giacché di origine lucana – e non campana – e giacché operante prettamente in Friuli, piuttosto che in Campania, eppure in strettissimo contatto con critici e operatori campani, spesso si dimentica l’interessantissima attività di Enzo Navarra, alla quale invece dedico un notevole spazio, ritenendo il suo apporto tanto qualitativamente sostenuto quanto storiograficamente obliato.

OCT (Operativo Comunicazioni Territorio), Carneval'è, 1976, laboratorio dell'immaginazione collettiva in azione urbana e territoriale, Scafati (Salerno).

D’altra parte non è minimamente lecito stabilire una connessione troppo solida tra la gestione del movimento da parte di Crispolti e il suo ascendere e declinare, sorprendenti nella loro rapidità, circostanza sulla quale si è dibattuto ma forse meno e meno efficacemente di quanto si sarebbe potuto e dovuto e, se lo si è fatto, è avvenuto più in tempi recenti che all’indomani dei fatti. In realtà la vicende non sono aliene da traumi e delusioni. Non sono pochi, in tale frangente, i progetti che sono rimasti tali, senza avere la loro corrispettiva, piena realizzazione. Pubblicazioni come Arti visive e partecipazione sociale (5: E. Crispolti, Arti visive e partecipazione sociale. 1. Da Volterra 73 alla Biennale 1976, De Donato, Bari, 1977) o Area di Base (6: Cfr. Area di Base. Uno, Carucci, Roma, 1978) – come testimonia il numero uno che accompagna entrambe – non sono pensate che come dei primi step – come si direbbe oggi – di un percorso che poi si arresta bruscamente per il cambiamento delle condizioni storiche oggettive che trascendono di gran lunga non solo le vicende della politica italiana, ma la stessa Italia, inquadrandosi in quel vastissimo, travolgente fenomeno che, agendo in tutti i campi della vita e del mondo, è stato chiamato riflusso.


Teatro Contadino, La pecorella smarrita, 1975, teatro di marionette, scuola elementare di Roccarainola (Napoli).

Nel corso della trattazione ascolteremo varie e a volte non sempre unanimi considerazioni sulla fine del movimento, sul quale io stesso non ho un discorso univoco da chiudere ma solo alcune considerazioni da formulare. Mi soffermerei piuttosto qui su alcune delle osservazioni espresse in merito alla questione da Crispolti negli ultimi anni. 


Gruppo Donne/Immagine/Creatività, Vaso di Pandora, 1977, San Giuseppe Vesuviano, Napoli.

Nel 2012, conversando con quest’ultimo in occasione della pubblicazione del catalogo che documenta gli Incontri di Martina Franca a più di trent’anni dai fatti – a proposito di progetti rimasti incompiuti – gli chiedo: «Nel 1994, riflettendo sulle ragioni della sua (del movimento dell’arte nel sociale) crisi, lei tira in ballo, da una parte, “l’assenza di un articolato supporto critico” – additando l’esiguità della “risposta critica nostrana”, specie se considerata alla luce dell’invece “assai notevole attenzione internazionale” – e l’arroccamento di fatto […] su interessi soprattutto connessi infine a un’idea tradizionale e borghese di confini della produzione e fruizione dell’arte, ricordando il suo essersi praticamente “trovato solo a combattere su questo fronte” – e, dall’altra, “l’inadeguatezza di una politica culturale, sia nazionale, sia soprattutto locale […], realmente capace di formulare una nuova e diversa committenza, di cui la città fosse termine referenziale distintivo”. Non tralasciando di ricordare in proposito le responsabilità della “sinistra stessa, istituzionale”, che “ebbe timore delle conseguenze di una espressione effettivamente di base, finendo le sue cautele per intrecciarsi nei fatti al rimontante conservatorismo centrista”. Considerando i quasi vent’anni di distanza che ci separano da queste sue riflessioni, nonché la sua senz’altro opportuna osservazione – ma non ulteriormente sviluppata in questo testo – che “non fu comunque tale crisi fenomeno soltanto italiano” – desidera formulare qualche altra considerazione sull’argomento?». Egli conferma sostanzialmente la sua disamina degli anni novanta, ricalcando in particolare solo la questione delle reticenze dell’apparato del P.C.I., che inizialmente avrebbero portato persino Renato Nicolini, l’inventore dell’Estate Romana, «sull’orlo della sconfessione e condanna». Se «Reagan e la Thatcher sono un grande e nefasto esempio di reazione e restaurazione politico-culturale», bisogna riconoscere «che il P.C.I. aveva allora timore di questi movimenti troppo di base, spontanei, di queste iniziative di sinistra incontrollate. […] L’animazione costituiva uno sconfinamento che burocraticamente, (partiticamente) non si capiva dove andasse a parare e c’era chi allora pensava che si potesse anche arrivare alla lotta armata…». Pertanto «L’errore politico fondamentale della sinistra istituzionale è stato allora, in Italia, quello di non aver cercato di acquisire e inglobare la vitalità dell’animazione, di base. Così arricchendosi di motivazione di capacità di presenza e azione, e tuttavia tenendo lo spontaneismo dell’animazione partecipativa entro sponde di legalità» (S. Taccone, Intervista a Enrico Crispolti, in L. Carrieri, A. D’Elia (a cura di), Dall’Arte nel Sociale al Teatro d’Artista. Incontri di Martina Franca’ 79/’80/’81, catalogo della mostra, Fondazione Studio Carrieri Noesi, Martina Franca (TA), 19 maggio – 28 luglio 2012, Artebaria Edizioni, Taranto, 2012, pp. 27-29). 


Anna Maria Iodice - Ambulanti, Banchetto del paradiso, 1976, Bagnoli (Napoli).

Cinque anni dopo, in occasione del più ampio dialogo con Luca Palermo, conferma sostanzialmente tali punti, insistendovi magari con più ampio respiro. Ricorda ancora, ad esempio, «Nicolini, nuovo Assessore alla cultura» di Roma, che «nella proprie iniziative, apriva a prospettive implicative e in certa misura spontaneisticamente partecipative», un’esperienza che «rappresentò sì nel tempo un modello, ma anche un’eccezione giustificata soltanto da calcoli di un riscontrato ritorno elettorale» (Come postfazione, un dialogo con Enrico Crispolti, in L. Palermo, Caserta 70. Movimenti artistici in Terra di Lavoro, Terre Blu, Caserta, 2018, pp. 235-239).

Gerardo di Fiore - A/Social Group, Vita vegetativa, 1975, Ospedale Psichiatrico Frullone, Napoli. 

Interessante considerare come l’evidente simpatia che Crispolti mostra per l’Estate Romana si concili con la specifiche caratteristiche di quella manifestazione, nella quale il “nemico” Giulio Carlo Argan è comunque implicato in quanto sindaco, mentre l’ancor più “nemico” Achille Bonito Oliva oggi non avrebbe parole meno positive per Nicolini – benché magari diverse da quelle di Crispolti – col quale, tra l’altro, collabora nel 1982 per la Avanguardia-Transavanguardia. Non si intende qui sminuire il valore culturale e innovativo dell’Estate Romana, né mettere in dubbio la dimensione autenticamente di base che essa accoglie, prima ancora che suscitare. Tuttavia, col senno di poi, è difficile non considerare quanto il suo modello di integrazione istituzionale del basso, che inevitabilmente si affianca e si contamina con l’alto, dell’élite che inevitabilmente si affianca e si contamina con la massa, abbia precorso i territori del quietismo postmoderno, fino ad arrivare all’attuale situazione in cui le considerazioni commerciali-elettoralistiche erodono ogni seria istanza di autonomia del politico e del culturale. 


Laboratorio Tre, Simbiosi, 1978, Incontri di Martina Franca (Taranto).

Le teorie e le pratiche avanzate dalle formazioni descritte in questo libro trovano invece il loro mento di “gloria” massimo nella Biennale del 1976, solo e soltanto in virtù dell’autorevolezza conquistata da Crispolti per altri motivi e subendo non di rado un trattamento non propriamente di favore – «[…] me ne furono dette di tutti i colori», ricorda il critico ancora in conversazione con Palermo, «da numerosi miei colleghi (qualunquisticamente formalisti in pectore), che mi inviarono, ironicamente, in proposito, condoglianze intellettuali» (9: Ivi, pp. 233), ma si potrebbero ricordare tanti altri particolari che non hanno per protagonista il curatore, ma gli operatori stessi. Insieme ad altre soggettività operanti contemporaneamente nella stessa penisola – rilevate o meno da Crispolti – restano pertanto – che io sappia – l’unico tentativo – almeno nel nostro paese e con tutte le sue inadeguatezze – di fornire una risposta autonoma e realmente alternativa sul piano della pratica artistica visiva contemporanea alle istanze governative delle sinistre parlamentari – in particolare il P.C.I. – che allora sembrano doversi finalmente realizzare. Se già a partire dalla fine di quel decennio tali teorie e pratiche entrano in crisi e negli anni ottanta sembrano ormai lontane anni luce, le politiche culturali della sinistra – specie, dagli anni novanta, dei partiti eredi in linea diretta del P.C.I. – si dimostreranno senz’altro più raffinate e decorose rispetto a quelle conservatrici – che non di rado guardano alla cultura stessa con diffidenza e inimicizia –, ma certo non meno subalterne alle logiche neoliberiste di quanto non lo siano le loro politiche economiche e tutta la loro linea in generale.

Stefano Taccone