lunedì 20 dicembre 2010

L'ARTE A UNA DIMENSIONE - Note dei critici

dal catalogo del Premio Mario Razzano per giovani artisti, Biennale di Benevento, 4ª edizione 2010, pp. 15-17.

Qualche mese addietro, all’indomani dei giorni più caldi della vertenza di Pomigliano d’Arco, un celebre e navigato giornalista d’arte napoletano osservava come se negli anni settanta praticamente tutti gli operatori artistici e culturali si sarebbero recati presso lo stabilimento Fiat, magari ponendosi al fianco dei lavoratori in lotta, a distanza di oltre tre decenni a nessun artista (e a nessun artista giovane) era venuto in mente di fare altrettanto.
Tale constatazione, pur facendo torto ad un artista come Salvatore Manzi, che a Pomigliano effettivamente ci è andato, ed a qualche altro artista del territorio campano che, pur non essendovisi recato, è comunque attento a certi fermenti (ma, si sa, una rondine non fa primavera), è sostanzialmente vera. I giovani artisti italiani, in media, non sono poi così diversi (negli stili di vita, nei modi di pensare) dai loro coetanei non artisti, benché, naturalmente, tra loro diversissimi (un giovane artista già relativamente affermato su di un piano internazionale e dalle promettenti quotazioni di mercato somiglierà assai più, ad esempio, ad un giovane yuppie rampante, mentre un giovane artista assolutamente marginale rispetto al “circuito che conta”, e dunque sostanzialmente privo di mercato, sarà piuttosto accostabile ad un giovane precario dei call-center), non rappresentano alcuna avanguardia intellettuale, sono piuttosto tesi in primis ad una lotta tutta individuale che, a seconda dei livelli, mira alla salvezza (se non alla sopravvivenza) o al successo (quello standardizzato che promette il sistema), atteggiamento quest’ultimo ancora una volta traducibile nell’intera realtà sociale occidentale, anche se ancor più in quella italiana.
Assodato tutto ciò è ora però necessario trovare non delle giustificazioni, magari consolatorie, che lascerebbero il tempo che trovano, ma delle cause che vadano ovviamente ad indagare i nessi storici, schivando la tentazione di fornire una spiegazione tanto intrisa di nostalgia e moralismo quanto incapace di cogliere la complessità delle vicende. Esse ci narrano di un mondo ove le tendenze alla reificazione ed all’istituzionalizzazione, strettamente connesse l’ una all’altra, non sono solo incoraggiate, ma considerate condicio sine qua non per accedere non dico ad un qualche beneficio e riconoscimento, ma ad un minimo di considerazione del proprio lavoro. Se le gallerie, che in Italia, ed ancor più nel Meridione, possiedono un potere fortissimo, più forte che in molti altri paesi europei, non possono naturalmente, data la loro natura sempre e comunque inscindibile dal profitto, che soddisfare fino ad un certo punto le istanze libertarie intrinseche nella pratica artistica, la mancanza di proposte autenticamente alternative che vadano non dico a sostituirsi, ma semplicemente ad affiancarsi agli spazi commerciali, fa sì che per tutte le altre componenti del sistema ritagliarsi spazi di autonomia dai parametri delle gallerie e dei musei divenga sovente un’impresa titanica.
Quanti giovani curatori saranno infatti disposti a seguire e sostenere giovani artisti in gruppo o singoli, ma, in ogni caso, in autonomia rispetto ad ogni istituzione pubblica o privata, che decidano di intraprendere, come presumibilmente si chiedeva a proposito del caso di Pomigliano, forme d’arte che privilegino il processo piuttosto che il prodotto materiale o che, in ogni caso, nelle loro sperimentazioni lascino entrare tratti poco consoni alle istanze del mercato e difficilmente integrabili nelle sue regole? E quanti giovani critici e giornalisti d’arte, anche qualora, cosa tutt’altro che frequente, fossero lasciati liberi dalla loro testata di decidere gli oggetti dei quali occuparsi, scriveranno di pratiche alle quali non viene riconosciuta alcuna dignità da parte di coloro che fanno girare l’economia, rischiando di attrarre il medesimo discredito su se stessi? E quanti giovani artisti, a questo punto, avranno il coraggio di intraprendere una strada così impervia e solitaria, mentre la loro prima preoccupazione, e non potrebbe essere altrimenti per chi, come la stragrande maggioranza dei giovani italiani e non, non ha una famiglia in grado o disposta a mantenerlo oltre una certa soglia di età, è come sbarcare il lunario?
D’altra parte, e qui introduco una motivazione in parte differente ma anche strettamente connessa alla precedente, dove dovrebbero trovare i giovani artisti gli stimoli a sperimentare quando le accademie, a parte qualche oasi rigorosamente collocata nel Nord Italia e spesso e volentieri rigorosamente a pagamento salato, sono per lo più appannaggio di insegnanti con una concezione dell’arte assolutamente impermeabile a tutto ciò che è successo negli ultimi decenni, quando non ancora esclusivamente ancorati ai generi tradizionali della pittura e della scultura, nonché penosamente carenti di materiali didattici?
Si replicherà ricordando che le gallerie commerciali non solo esistevano anche quarant’anni fa, ma che ebbero già allora un grande ruolo nella promozione di ciò che a quel tempo era comunemente detto neoavanguardia, compresa quella che si dichiarava più riluttante nei confronti dell’oggetto-merce, nonché che l’esigenza di apparecchiare la tavola era propria anche agli artisti dell’epoca. Ma accanto a tutto ciò si respirava anche un clima fin troppo noto nella sua diversità rispetto al presente, nella sua carica contestataria e nella sua proiezione utopica, che, permettendo tra l’altro l’esistenza, sia pur debole ed effimera, di strutture di riconoscimento in parte realmente svincolate dalle logiche dominanti, faceva sì che un operatore culturale che avesse inteso rifiutare di scendere a patti col circuito delle gallerie, avrebbe trovato un maggiore supporto se non materiale almeno morale. L’appeal della controcultura, d’altra parte, risultava tale da far sì che i meccanismi di valorizzazione capitalista stessi fossero paradossalmente pronti ad accogliere alcuni suoi principi, pur finendo, spesso e volentieri, per neutralizzarli. Il sistema mercantile dell’arte, infine, non appariva ancora probabilmente così forte e strutturato come adesso, non si presentava come quella fortezza inespugnabile che, malgrado la grave crisi del capitalismo in corso, tutt’ora rimane.
Ma chi sono i responsabili del successivo repentino riflusso che ha stroncato le promesse di felicità di quell’epoca? E chi sono dunque gli artefici di questo contesto così monodimensionale e cristallizzante in cui oggi siamo immersi, ove le ragioni del profitto, essendo abbondantemente preposte a quelle della vita umana, vengono inevitabilmente prima anche della libertà dell’arte? La risposta è amara, ma inequivocabile: essi provengono anche dalle fila di coloro che qualche decennio fa leggevano Marcuse e gridavano che “lo stato borghese si abbatte e non si cambia”.

Stefano Taccone

4 commenti:

  1. abbattere il sistema dell'arte...

    molti lo vorrebbero...
    pochi lo paticano...
    solo qualc uno lo fa...

    è facile addebitare lo stato delle cose ai nostri precedessori, ma la responsabilità è nostra...di noi contemporanei... noi che ci pieghiamo allo stato dell'arte senza neanche voler combattere

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  2. […] Quanti giovani curatori saranno infatti disposti a seguire e sostenere giovani artisti in gruppo o singoli, ma, in ogni caso, in autonomia rispetto ad ogni istituzione pubblica o privata, che decidano di intraprendere, come presumibilmente si chiedeva a proposito del caso di Pomigliano, forme d’arte che privilegino il processo piuttosto che il prodotto materiale….

    Vedo sempre più spesso un'apoteosi delle forme d'arte che privilegino il processo piuttosto che il prodotto materiale e spesso anche molto poco contenuto, è questo il futuro dell'arte? O abbiamo a che fare con un "Fluxus" permanente e strumentale proprio a quel mercato da cui qui, giustamente, si vorrebbe prendere distanza?

    […] insegnanti con una concezione dell’arte assolutamente impermeabile a tutto ciò che è successo negli ultimi decenni, quando non ancora esclusivamente ancorati ai generi tradizionali della pittura e della scultura...

    Gli insegnanti dai concetti impermeabili sono un aspetto... Se espressa in pittura o scultura si deve trattare inevitabilmente di arte quantomeno superata o addirittura di non più arte? Anche questo è uno dei tanti effimeri quanto attuali costumi di pensiero imperanti, molto alla moda: chi fino a ieri scolpiva o dipingeva senza qualità non può farsi mancare all'attivo una qualche installazione per stare al passo con i tempi. Bisogna fare attenzione ed essere più chiari su concetti che possono essere forieri di ulteriori mistificazioni ed ambiguità. La pittura o la scultura più che generi sono solo due dei tanti medium con i quali si può (e si potrà sempre) esprimere arte, saranno pure, ovviamente, modalità tradizionali, ma quante forme performative, quante installazioni, quanta arte digitale, quanta arte comportamentale e, cosiddetta, concettuale è intrisa di banalità, d'inconsistenza, di "accademia" e di tradizioni retrive, così come può capitare in pittura o scultura? Nessuna? Quanto di tutto ciò porta valori, idee, d'innovazione evolutiva nelle forme e nei contenuti, nell'indipendenza da sistemi speculativi di mercato che sempre poco o nulla hanno a che vedere con vera qualità e importanza artistica? Eppure sono convinto che qualche volta, anche oggi, l'arte si incontra, raramente come da sempre, ma sempre più invisibile, non per questo inutile, certamente sempre più inutile all'attuale sistema dell'arte. Sicuramente, quando c'è, l'arte la si può ancora incontrare in pittura come in scultura come in tutte le altre possibili forme, anche in espressioni multimodali ove non è facile, oltre che superfluo, distinguere singole categorie. L'arte, quando c'è, è tale anche per il tasso di libertà ed indipendenza che le è connaturato, è da ciò che essa riesce ad offrire il maggiore contributo all'intera società, in un tempo che travalica sempre se stesso, la storia (dell'arte) ce lo insegna.
    fabio

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  3. [...] I giovani artisti italiani, in media, non sono poi così diversi (negli stili di vita, nei modi di pensare) dai loro coetanei non artisti, benché, naturalmente, tra loro diversissimi [..]non rappresentano alcuna avanguardia intellettuale, sono piuttosto tesi in primis ad una lotta tutta individuale che, a seconda dei livelli, mira alla salvezza (se non alla sopravvivenza) o al successo (quello standardizzato che promette il sistema)...

    Quanto sopra potrebbe essere riscritto, sostituendo, di volta in volta, alla figura del "giovane" artista, quella del "giovane" curatore, del "giovane" critico, del "giovane" gallerista, rimanendo nel campo dell'arte se ci interessa. A tanti altri "giovani" estendendo sempre di più il campo.

    Si è sentito più volte parlare di questa assenza di impegno nella pratica di molti artisti "giovani" italiani: una riflessione fatta sugli artisti già nelle gallerie, già nelle riviste, già nelle nefaste selezioni dei pochissimi blasonati percorsi extra-universitari che questa piccola Italia ci propone, ma mai sul campo, un campo largo.

    Allora partiamo da un presupposto: una pratica artistica impegnata in Italia esiste, sopratutto da parte di molti "giovani" artisti.
    Concediamoci il lusso di questa certezza.

    Allora la sperimentazione dei formati da parte di critici e curatori ben venga. Ben venga il discorso autoreferenziale sulla natura della mostra, sulla pratica curatoriale, sulla figura del curatore e quella dell'artista. E' un percorso comune a tutti, quello dell'autoriflessione, è un fosso di passaggio. Dove passiamo tutti. Qualcuno si ci mette un divano e resta li, qualcuno passa e se ne va.

    Una sfida: il recupero della disarmante efficacia di certi formati, semplici semplici.
    Le studio visits, i testi e le mostre.

    Riorganizzare il materiale disperso della pratica di molti artisti non così tanto yuppie. Prendere il treno, andare a vedere i loro lavori, pensarci nel viaggio di ritorno. Che fatica! E chi mi paga per fare le studio visits? Prendere in mano la penna, accendere il computer, premere il tasto rec su un registratore, leggere quanto si è visto, rielaborarlo, collegarlo con altro. Che fatica! E chi mi paga poi questo testo? E i soldi per la mostra dove li troviamo? Con tutti 'sti sconosciuti (relativamente poi) al sistema dell'arte, chi se la caga questa mostra? Magari poi facciamo la figura dell'esercito degli sfigati? Magari 'ste cose danno pure fastidio, gli stanno sul cazzo al sistema, va a finire che mi brucio la carriera... mica devo risolverlo io questo problema, certo sono un critico, un curatore, un gallerista, e non mi piace fare le cose come fa il sistema, però non ho cazzi per farne altre, diverse. Eppure ci sarebbe da lavorare, gli artisti ci sono, loro ci credono, stanno li a fare la fame in cambio della sopravvivenza della radicalità della propria ricerca. In effetti, mica possono lavorare, scriversi i testi e farsi le mostre, dopo chi gli crede?

    Siamo qui a guardarci da una sponda all'altra del fiume, aspettando il primo che si tuffi.
    Sulla collinetta, in alto, in lontananza, i vecchi del mestiere, le istituzioni, il "sistema", i padri e le madri, che tremano, stanchi, severi, chiusi. Speriamo nessuno si tuffi pensano.

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  4. [...]gli artisti ci sono, loro ci credono, stanno lì a fare la fame in cambio della sopravvivenza della radicalità della propria ricerca[...]

    Grazie anonimo e grazie anche a Stefano Taccone.
    Penso che molti artisti siano andati almeno con il pensiero a Pomigliano e chissà quanti stanno elaborando progetti che parlano di una vicenda tanto travagliata per i lavoratori italiani.
    Io sono un'artista abbastanza cocciuta. Mi sono diplomata in accademia quando già avevo tre figli e durante il mio corso di studi sono andata in una fabbrica della mia città a intervistare gli operai durante la pausa mensa, realizzando poi un progetto in merito.
    Credo che Pomigliano sia cuore nevralgico di una crisi in atto, ma le voci che ho raccolto parlavano della stessa decadenza. Della difficoltà di condivisione, dell'individualismo, dell'indebolimento. L'ho fatto perché riguardava la storia della mia famiglia ma anche perché avevo capito che il mio modo di vivere come cosa intima l'arte andava sconfitto. Mi sono fatta aiutare dagli scritti di Zygmunt Bauman e di altri pensatori.
    Ora che sono diplomata e quindi non sono più all'interno di occasioni istituzionali come quelle accademiche, fatico a trovare il mio ruolo.
    Spero di incontrare persone in gamba. Spero che le mie riflessioni non rimangano solo nella mia testa o nelle cose che realizzo facendo fatica a condividere.

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