giovedì 29 luglio 2010

ARTE E CAMORRA – Prima e dopo Gomorra

Questi ultimi cinque-sei anni sono indubbiamente caratterizzati da una crescente attenzione nei confronti del fenomeno camorristico all’interno in primis della stessa Campania, ma anche, e soprattutto, a livello italiano ed estero. Il simbolo indiscutibile di questa stagione, quasi un pleonasmo scriverlo, è il giovane scrittore Roberto Saviano con il suo bestseller Gomorra (2006), che, a prescindere da come lo si giudichi sul piano letterario e/o su quello dell’impegno civile, costituisce, non solo e non tanto in sé, bensì insieme alle vicende del suo autore ed a tutto il contorno di discussioni che suscita fin dai primi mesi della sua pubblicazione (e ancora continua più che mai a suscitare) un caso di estremo interesse per chiunque voglia riflettere sull’odierna società italiana. Appena un gradino al di sotto, quanto a grado di rappresentatività di tale temperie e rilevanza socio-politica, si colloca il film omonimo di Matteo Garrone, premiato, tra l’altro, a Cannes, che dal libro di Saviano è appunto tratto.





Roberto Saviano, autore del bestseller Gomorra.

Difficile, come spesso accade, stabilire quanto Saviano e Gomorra siano il prodotto di un certo clima culturale e quanto, invece, abbiano contribuito ad istituirlo. Quello che però appare curioso osservare è che, nel momento in cui la questione criminale campana raggiunge una auge mediatica senza precedenti, scardinando in tal modo (o almeno dando l’idea di scardinare) quell’alone di omertà che da sempre permea di sé la malavita organizzata, non solo, in maniera non infondata, si pone il dubbio sull’efficacia di tale situazione, ma persino, in maniera altrettanto seriamente argomentata, si paventa che tutto ciò possa risultare nei fatti nocivo alla causa del bene comune. Senza necessariamente voler condividere tutte le tesi del sociologo della cultura Alessandro Dal Lago, al cui recentissimo Eroi di carta, energica decostruzione dei “meccanismi che hanno fatto di Gomorra uno straordinario successo editoriale e del suo autore un esempio di eroismo civico”, mi sto riferendo (come qualcuno avrà già intuito), credo che la lettura di questo controverso pamphlet possa aiutarci a non perdere di vista un concetto fondamentale: «Le mafie hanno un enorme potere (…) Ma non sono il potere» e pertanto esse (e tanto meno i soli casalesi) non costituiscono “il male assoluto”, come ahimé troppo spesso tra le righe o anche in maniera più diretta Saviano di fatto argomenta, ma vanno inserite in un contesto in cui «ci sono gli operai che bruciano negli altiforni, e intanto il governo annacqua le sanzioni alle imprese. Ci sono i migranti che annegano a centinaia davanti a Lampedusa e quelli schiantati nei campi, mentre da tutte le parti si grida agli zingari ladri e ai rumeni stupratori. Ci sono milioni di persone che perdono il lavoro e tirano la cinghia, mentre i ministri si sciacquano la bocca con l’economia sociale di mercato». (A. Dal Lago, Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, manifestolibri, Roma, pp. 99-100; p. 11). C’è un sistema, quello capitalista, aggiungo insomma io portando il discorso su di un piano di maggiore astrazione (e forse anche su di un piano di maggiore radicalismo), ove, parafrasando Pasolini, la giustizia non coincide in nessun modo con la legalità.





Alessandro Dal Lago, autore del pamphlet Eroi di carta.

Venendo dunque a riflettere in maniera tanto urgente quanto pionieristica su quale sia lo specifico contributo delle arti visive alla “stagione di Gomorra”, collocando però l’aprirsi di tale periodo circa un paio di anni prima dell’uscita effettiva del libro, facendolo convenzionalmente coincidere piuttosto con l’inizio della Faida di Scampia (ottobre 2004), terrò dunque pienamente conto del discrimine esistente tra uno sguardo sostanzialmente limitato alla dimensione più convenzionale ed epidermica del fenomeno ed uno sguardo che tenta di inquadrarlo in un discorso più ampio, cercando, esattamente come la migliore arte politicamente impegnata più e meno recente, di portare alla luce le trame sotterranee. Si tratterà di una breve carrellata che comunque non avrà pretese di completezza, ma vorrà essere un primo passo in vista della storicizzazione di una tendenza dell’arte campana recente per la quale, essendo essa ancora in pieno svolgimento, si possono necessariamente fino ad un certo punto spendere parole definitive.





Disegni realizzati rispettivamente da Ernesto Tatafiore e da Nino Longobardi per l’ "Osservatorio sulla camorra e sull’illegalità".

Fin dall’inizio del 2005 nasce, su iniziativa del “Corriere del Mezzogiorno”, l’ "Osservatorio sulla camorra e sull’illegalità", sorta di laboratorio in cui «si osserva il fenomeno camorra dai più diversi punti di vista, si costruiscono modelli di interpretazione e di conoscenza, si sperimentano percorsi di sensibilizzazione e di coinvolgimento di pezzi significativi della società, a cominciare dai giovani e dalle scuole, si promuovono iniziative di mobilitazione dell’opinione pubblica», che negli anni coinvolge praticamente tutti gli artisti campani, di varie generazioni e dalle poetiche più disparate, al fine di accompagnare i contributi scritti con disegni a colori. Il limite dell’operazione (non parlo ovviamente dell’Osservatorio in generale, sul quale non mi compete alcun giudizio, ma della modalità di coinvolgimento degli artisti) non risiede ovviamente nella richiesta di accordare la propria creatività agli spazi ed ai mezzi predeterminati dal foglio del quotidiano, ché anzi per alcuni può risultare persino uno stimolo ulteriore, ma dall’idea di fondo che l’affrontare certi temi si possa conciliare con la poetica di ogni artista e non richieda particolari inclinazioni e predisposizioni che magari alcuni possono avere ed altri meno.



Camorra, mostra collettiva a cura di Antonio Manfredi, CAM, Casoria, 2008.

Un rischio in cui pure talvolta incorre, benché in maniera assai minore, la collettiva Camorra, a cura di Antonio Manfredi, inauguratasi presso il sempre stimolante museo CAM di Casoria (lo stesso titolo intende rimandare con un gioco di parole al nome del museo) nel giugno del 2008, allorché l’emergenza rifiuti ha toccato il suo acme ed il neoeletto presidente del Consiglio, avendo promesso l’imminente “miracolo” della sparizione dei rifiuti, ha già militarizzato l’area della discarica di Chiaiano. Le opere appaiono per molti versi eterogenee (diversi media, diversa età degli artisti, diverso grado di pregnanza ed interesse, diversi gradi di allusione esplicita), ma il punto debole risiede piuttosto nel discorso con il quale si tenta di trovare un filo conduttore. Passaggi come «il controllo sulla vita, sui movimenti e sulla libertà dell’individuo da parte di una creatura dalle cui fauci sembra impossibile sfuggire» o «E chi meglio di un museo di frontiera, come il CAM, poteva concertare una mostra sulle accezioni sociali della malavitosa piovra che attanaglia gli uomini?» si iscrivono pienamente in quel filone retorico che intende tacitamente la dimensione camorristica più come un qualcosa di estraneo al genere umano che come un qualcosa di assolutamente radicato in esso e nella società che si è costruito attorno (e ben al di là della sua accezione letterale). Buona parte degli artisti, di contro, riescono sostanzialmente a schivare tale ottica.



Walter Picardi, Momy, 2010.

Ma gli esempi più interessanti si evincono probabilmente dall’analisi di alcuni singoli artisti che dedicano in questi ultimi anni (e stanno dedicando tutt’ora) un’attenzione più sistematica al tema e/o, più in generale, alla realtà del territorio. Al CAM è presente, tra gli altri, Walter Picardi che solo qualche mese fa (febbraio 2010) inaugura la personale Full Immersion, a cura di Micol Di Veroli, presso la Dora Diamanti di Roma, che in verità, dato anche il contesto, non è possibile leggere in un’accezione esclusivamente campana: essendo Camorra, Mafia, e ‘Ndrangheta intese come «parole diverse per una lingua comune» il riferimento va parimenti a queste ultime due organizzazioni. I parallelepipedi in cemento, benché derivazioni di un immaginario che affonda le radici nel contesto di Ponticelli, quartiere situato nella periferia orientale di Napoli dal quale l’artista proviene, assurgono così ad emblemi di tale koiné del crimine organizzato, inglobando ciascuno di essi un membro di una famiglia tipo: padre, madre, figlio e figlia. Una notevole forza espressiva deriva così dal cortocircuito tra elementi reali sfuggiti alla “cementificazione”, in grado di suggerire precisi quanto assolutamente comuni prototipi umani, e severo impianto stereometrico dei blocchi cementizi, che riduce i personaggi ad una condizione tanto grottesca quanto estremamente drammatica, a figure neomitologiche (mezzi uomini e mezzi parallelepipedi) di una epopea che ha però ben poco di eroico. Benché Walter dichiari di non intendere tale sventurato gruppo come un discorso esclusivamente riconducibile nell’alveo dell’illegale, ma, considerando che si tratta di una famiglia il cui padre ha “cantato”, ovvero, come suggerisce il microfono posto davanti al suo parallelepipedo, “ha parlato troppo” ed avendo in mente l’attuale minaccia della legge-bavaglio, lo riferisca a tutte le situazioni in cui si vuole annichilire la libertà di pensiero, di parola, di azione, in una sola parola l’autodeterminazione, esso non sembra in grado di supportare autonomamente tale ulteriore lettura, che rimane per ora in ombra rispetto a quella specificamente criminale.



Roxy in the box, Ce l’hanno tutti in bocca, 2009.

Allo scadere del 2006 Roxy in the box inaugura presso la galleria di Franco Riccardo la sua prima personale in assoluto a Napoli, Pulp…azioni, ed è probabilmente tale circostanza ad indurla a lanciare una vigorosa quanto spietata denuncia dei molteplici travagli che affliggono la città, ed in particolare al suo volto cruento, che i media, dopo oltre un decennio in cui è prevalsa la retorica del “rinascimento napoletano”, sembrano aver riscoperto. Sono i giorni in cui la stella di Bassolino si va offuscando a vista d’occhio, quando solo un anno prima risplendeva ancora più fulgida che mai, ma non si è ancora eclissata. Di lì a poco il presidente e tutta la sua ultradecennale narrazione finiranno sommersi sotto il peso delle tonnellate dei rifiuti dell’emergenza. Benché l’aura sinistra della Camorra paia aleggiare tra le righe dell’intero percorso, essa non viene mai nominata esplicitamente, intendendo forse Roxy delineare una visione generale ben più sottile della fin troppo vieta quanto inadeguata distinzione tra “bene” e “male”, “buoni” e “cattivi”, ché tali categorie non esistono mai allo stato puro. Il morbo di cui è vittima il popolo napoletano (e magari molte altre realtà italiane e mondiali), sembra dirci, ha senz’altro in buona parte origini di carattere socio-politico, ma esso non è polarizzato in una categoria, in un gruppo, in un clan…, bensì, un po’ come il potere per Michel Foucault, possiede uno statuto fluido e polimorfico. Pienamente consequenziale a tali assunti risulta così il dipinto presentato al Pan nell’ambito del progetto Emergency Room (marzo 2009), Ce l’hanno tutti in bocca, ove sono additati i limiti di ciò che invece solo qualche giorno dopo, per una curiosa coincidenza, Saviano, adoperando parole che, forse inconsapevolmente, sanno non poco di warholismo («Voglio essere un’operazione mediatica, voglio che se ne parli in prima serata») auspica parlando alla trasmissione di Rai Tre Che tempo che fa: che la lotta alla Camorra diventi una “moda”.



Rosaria Iazzetta, Per amore del mio popolo non tacerò (P.N.P.-Progresso Non Pubblicità, Ercolano), 2009.

Chi più di ogni altro artista ha legato ultimamente la sua ricerca alla questione in esame è però probabilmente Rosaria Iazzetta, malgrado ella non solo vi sia approdata seguendo il filo di un progetto dotato di un’ottica più generale, P.N.P.-Progresso Non Pubblicità, ma lo inquadri entro una precisa cornice etico-filosofica che le permette di trascendere certe contingenze. Se il “progresso”, in quanto miglioramento generalizzato delle intere facoltà umane, e lo “sviluppo”, in quanto crescita esclusivamente economica, non solo non coincidono, ma sono persino in contraddizione l’uno con l’altro, l’invenzione tardocapitalista della “pubblicità progresso”, allorché si consideri la pubblicità come detonatore insostituibile del consumo (e dunque, di conseguenza, dello sviluppo), non può che apparire un fastidioso ossimoro. Rosaria si situa appunto nel tratto di intersezione tra questi due termini antitetici, recuperando in pieno la tensione verso il progresso, ma declinandolo secondo una logica completamente ribaltata rispetto a quella della pubblicità. Alla dimensione pubblicitaria contrappone così quella puramente pubblica (manifesti relativi al progetto sono stati per ora installati su edifici pubblici di Ercolano e di Pompei, ma arriveranno presto in altre zone di Napoli e provincia), rendendo esplicito il carattere degenerato proprio della prima rispetto alla seconda. Se il pubblicitario si configura come violenta invasione di messaggi dettati dagli interessi unicamente privati del mittente, ma spacciati come realizzazione dei sogni più profondi del destinatario, il pubblico di Rosaria possiede forse una carica ugualmente violenta, ma finalizzata a veicolare pensieri incitanti costantemente ad un’etica della collettività, ovvero al contrario dell’individualismo accecante in cui l’induzione all’acquisto rinviene la sua inconfessata meta suprema. È innanzi tutto tale détournement di fondo a far sì che, anche laddove il riferimento contenutistico concerne la specifica realtà criminale, il discorso appaia leggibile in antitesi ai soprusi di ogni provenienza, e soprattutto alle insanie che vi sono a monte. La denuncia del potere malavitoso non appare inoltre mai disgiunta dai suoi calorosi inni ad un amore ultraviscerale, iperbolico, senza se e senza ma ed al coraggio intrepido ed alla felicità incontenibile che ne deriva, convinta che solo recuperando le sue più nobili facoltà l’uomo potrà fronteggiare il male che lo opprime.



Salvatore Manzi, Noitulover06, 2006.

Più “antica” di tutti i lavori fin ora analizzati, nonché, seppure di qualche mese, dello stesso Gomorra, in quanto esposto a febbraio del 2006, mentre il bestseller vede la luce solo in aprile, è però la videoistallazione Noitulover06, di cui si compone la personale omonima presso Villa Letizia a Barra, di Salvatore Manzi (l’ultima personale in cui adopera lo pseudonimo “Zak”), ove la peculiare lateralità dell’ottica di osservazione risiede all’origine della rara acutezza del messaggio. Detournando il motivo ispiratore di una collettiva di tre anni prima (2003), Controlled revolution n.4, a cura di Paolo Emilio Antognoli e Marco Scotini, cui egli stesso partecipa (da qui l’idea di far curare la mostra ad uno “Scotini apocrifo”, Salvatore riferisce il concetto di “rivoluzione controllata”, che per i due curatori toscani riguarda l’inedita ed enigmatica forma «disciplinata, pragmaticamente controllata e burocratica, ma sensazionale», con cui il discorso rivoluzionario sembra tornato in auge (si rammenti che siamo all’inizio del millennio, quando ancora la spinta propulsiva di Seattle e Genova è assolutamente tangibile), alle modalità d’azione tipiche della malavita campana. «La camorra», spiega Salvatore, «costituisce a tutt’oggi l’unica forza rivoluzionaria che agisca dalle nostre parti. La sua prassi appare nei fatti quella maggiormente vincente, quella capace di muovere più denaro e di modificare, nel bene o nel male, l’assetto del territorio. È in grado di rispondere a quel bisogno di rincorrere grandi obiettivi come nessuna istituzione oggi riesce a fare. La prospettiva di conseguire lauti guadagni impiegando tempo e fatica assai ridotti, facendo il palo o vendendo droga, è una tentazione alla quale è difficile resistere per un giovane che, spesso e volentieri, è ancora minorenne». Le due proiezioni gemelle a soffitto, ritraendo ciascuna una telecamera dalle fattezze richiamanti la segnaletica utilizzata in presenza di percorsi videosorvegliati, costituiscono un interessante dispositivo tautologico. Poiché esse, a rigore, non illustrano una telecamera, bensì l’icona alludente al proprio uso specifico, può tranquillamente dirsi che il proiettore, strumento attraverso il quale la funzione della telecamera si esplica, sia qui impiegato ai fini di comunicare tale funzione stessa. Il messaggio trasmesso da tali icone sembra entrare in violento contrasto con la «struggente traccia sonora», un’interpretazione in chiave musicale di un tipico agguato camorristico, composta da Gianni Iannitto, musicista elettronico a quel tempo leader dei Garage Valley, nonché fedele assistente di Zak-Salvatore in numerosi video. Ma come si concilia l’onnipervasività del controllo con il potenziale eversivo che implicherebbe l’operato di ogni criminalità organizzata? La risposta risiede nel fatto che siamo non di meno di fronte ad una “rivoluzione controllata”, anzi è difficile trovarne un’esemplificazione migliore: «Credere che la criminalità organizzata agisca in maniera incontrollata», continua Salvatore, «denota un’analisi alquanto ingenua. Le amministrazioni pubbliche ed i ceti imprenditoriali ne traggono evidentemente un tornaconto. Ecco perché malgrado ci si uccida di fronte alle telecamere non si trova mai un responsabile. La rivoluzione camorristica non è solo una “rivoluzione controllata”, ma si alimenta del controllo stesso e senza il suo appoggio non esisterebbe».





Domenico Di Martino, Scudi umani, 2008.

Alla dimensione occulta, invisibile, persino camaleontica del potere criminale, e, più in generale, di ogni gruppo sociale nell’esercizio del suo dominio, dal momento che «a Scampia, così come nei moderni conflitti mondiali, le popolazioni civili non sono più usate tanto come bersagli inermi, quanto come scudi difensivi appannaggio di pochi» fa riferimento anche Domenico Di Martino con la doppia proiezione Scudi umani (febbraio 2008), il cui titolo concide con la personale inserita nel ciclo Corrispondenze di frontiera da me curato, insieme a Pina Capobianco, appunto presso il Centro Hurtado di Scampia. Partendo da una sorta di icona-segnale prossima alla telecamera di Salvatore, ovvero la sagoma maschile tipica di una toilette o di qualunque altro servizio di uso pubblico, Domenico innesca così un progressivo e costante processo moltiplicativo fino a che il quadro non risulta totalmente riempito da tali prototipi. Alcuni di essi presentano un contorno enigmaticamente lampeggiante, ma l’anomalia va gradualmente scemando fino a scomparire definitivamente. Raggiunta l’acme delle presenze, ha inizio un parallelo e contrario percorso di sparizione, mentre nella proiezione attigua le sagome compiono un giro su se stesse a 360°. La sensazione generale parla di angoscia e straniamento, incrementati dal ticchettio, regolare come un metronomo, che scandisce ogni comparire, scomparire o rivoltarsi delle sagome. È l’inquietudine che comunica, quanto testimonia, la paratassi.

Stefano Taccone

4 commenti:

  1. wow! ho riletto il mio commento al post del 14 giugno e.... ma sono una profetessa??
    cmq stefano, credo che qualche volta potresti soprassedere al principio di non intervento... si potrebbe animare un po' la discussione...o magari l'autunno porterà + interesse..
    donatella

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  2. Ho letto con immenso piacere. Segnalo il bel libro di Gianni Solino, "Ragazzi della terra di nessuno", ed aggiungo che ci terrei a organizzare una qualche manifestazione/tavola rotonda nell'Università presso la quale sono Ricercatrice (Seconda Università degli Studi di Napoli, Lettere e filosofia, Santa Maria Capua Vetere). C'è ancora DAVVERO bisogno, in provincia di Caserta, di parlare con i giovani, di riflettere insieme su arte, camorra, letteratura, omertà, atteggiamenti criminosi di diffusa illegalità, anche all'interno delle istituzioni stesse. Teniamoci in contatto... ariannasacerdoti@libero.it

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  3. La pena, per il male commesso, non può cancellare il bene, che ancora, ed ancora, può essere praticato.

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  4. Un tema strepitosamente orrendo, diventa attraverso le tue parole e il tuo sentire qualcosa a cui non ci si può arrendere.La conoscenza, l' analisi,il dettaglio, le finezze, le profondità, la verità e il metodo del tuo dire sarebbero stati ricchi allo stesso modo se si fosse trattato di canzoni, di amore, di malessere, di viaggio o di cucina; Questo avviene perché il vigore che ti appartiene, e decisamente forte e vero.
    Straordinario testo, Complimenti.
    grazie per l' attenzione e l'inclusione.
    R.I.

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