martedì 31 gennaio 2012

ACQUA, ARIA, TERRA, FUOCO, AMORE, ODIO, VITA, MORTE

(Testo per il catalogo rimasto inedito della mostra collettiva Acqua, aria, terra, fuoco,amore, odio, vita, morte, da me curata presso la Numen di Benevento dal 5 settembre al 14 novembre 2009).

È il filosofo presocratico Empedocle (ca. 450 a.C.), benché storicamente preceduto nella sua formulazione sostanziale dal Buddha, ad elaborare ed immettere nella tradizione occidentale la teoria dei quattro elementi, hydor (acqua), aer (aria), gaia (terra), heile (fuoco). Essi, permanendo eternamente uguali e indistruttibili, per mezzo del loro mescolarsi e dissolversi costituiscono le “radici di tutte le cose”.
Ma come e quanto la considerazione di tale teoria, evidente prodotto di un pensiero scientifico meno che embrionale, nel contesto di una concezione del sapere cui è ancora completamente estranea la divisione in branche, può suscitare un qualche interesse nell’uomo contemporaneo? Risulta intanto non privo di rilievo constatare come il percorso intrapreso dalla civiltà occidentale, a partire dall’antichità fino ai nostri giorni, risulti assai più improntato ad una fede nell’immutabilità e nell’incorruttibilità di tali elementi, che, come le attuali dinamiche ci mostrano (e l’odierna scienza conferma), alla coscienza della loro finitezza.
Anche se l’uomo occidentale continua ad attingere alla biosfera a mo’ di riserva di risorse illimitata, non vi è infatti chi non veda che come per Empedocle questi elementi, in virtù dell’azione rispettivamente aggregante e disgregante di philia (amore) e neikos (odio), sono all’origine della vita, così, nel nostro presente, il continuo sottoporli ad uno sperpero e/o ad un uso improprio, conseguenza, potremmo definirla adoperando un linguaggio un po’ fuori moda, del prevalere dell’odio sull’amore, potrebbe rappresentare, in un futuro non lontano, la fine della vita stessa.
Dalla presa di coscienza di tale situazione scaturisce l’idea di affrontare il tema dei quattro elementi da un punto di vista inedito, non indulgendo ad alcun substrato mitico o motivo alchemico, ma nemmeno concentrandosi sulla loro mera fisicità. La chiave di lettura prescelta è invece proprio quella del loro rapporto con la sostenibilità ambientale (e quindi con le possibilità di sopravvivenza delle specie viventi). La natura fluida, transeunte, effimera che impronta tutti gli interventi (quelli all’interno non meno di quelli all’esterno), le loro continue metamorfosi spazio-temporali potrebbero invece intendersi, continuando il parallelismo tra filosofia presocratica ed arti visive contemporanee, in quanto manifestarsi della convergenza tra la tradizione di alcune avanguardie del secolo scorso ed il panta rei (tutto scorre) eracliteo.

L’acqua sembra attualmente detenere il primato per grado di criticità ed urgenza. L’avvelenamento delle falde acquifere, ma soprattutto la crescita esponenziale del suo consumo nelle regioni più sviluppate, stanno determinando l’impossibilità per un numero progressivamente maggiore di persone di avere accesso all’acqua potabile. Gli ormai più che incipienti processi di privatizzazione, condotti naturalmente secondo il consueto copione in cui alla massimizzazione dei profitti dei pochi corrisponde il grave e ulteriore impoverimento dei molti, non potranno che aggravare la situazione.



Fin dal 2005 Domenico Di Martino, nella prima fase sollecitando il contributo di altri artisti, in seguito affidandosi al suo specifico apporto creativo, mette a fuoco la questione della sempre più spinta quanto paradossale trasformazione dell’acqua in un bene di lusso. In una sorta di “petrolio bianco” che nei prossimi anni possiede buone possibilità di rimpiazzare quello nero in quanto causa preminente dei conflitti bellici. È la tesi alla base di Water projection, trasposizione nella forma della videoproiezione di alcune immagini, già parte di un ciclo fotografico, cui se ne aggiungono di nuove. Nell’una, come nell’altro, migliaia di bicchieri-logo paiono comporre, come fossero pixel, tanto scene di bambini che trasportano acqua, quanto scene di soldati e carri armati. I bicchieri, funzionando da minimo comune denominatore delle intere vicende mostrate, evidenziano come ci si trovi di fronte a differenti atti del medesimo dramma.



Water action esemplifica invece la qualità dell’acqua solitamente a disposizione dei due terzi dell’umanità nel contesto della piazza principale di Benevento, piazza Santa Sofia, ovvero nel cuore della “meno campana” delle province campane: i passanti sono invitati ad abbeverarsi a due enormi bicchieri trasparenti. Se ognuno è naturalmente portato a fiondarsi su quello contenente acqua limpida, piuttosto che su quello contenente un sospettoso liquido virante sul marrone, la scoperta che al funzionale mestolo annesso a quest’ultimo fa da pendant un mestolo pieno di buchi che rende pressoché vano il tentativo di versare l’acqua alla quale siamo abituati noi occidentali, costringe a riaversi dall’impulso iniziale.



L’aria, se è possibile ancor più dell’acqua, viene tradizionalmente considerata un bene per sua natura non commerciabile. Eppure le minacce congiunte del disboscamento e dell’inquinamento atmosferico, nonché la facile analogia che è possibile formulare con il caso dell’acqua, fanno sì che anche la prospettiva di una privatizzazione dell’aria cominci a porsi come qualcosa di più che un’assurdità.



Come antidoto per un ipotetico futuro in cui l’aria dovesse divenire davvero un bene da razionare Alessandro Ratti propone Maleventum, do it yourself, un efficiente, ma anche paradossale dispositivo di scambio mutualistico tra uomo e pianta. Il processo di fotosintesi, oggi ancora percepito come qualcosa, è proprio il caso di avanzare questa similitudine, di naturale come il respiro, si trasforma così in un’operazione da laboratorio scientifico.



Malgrado il carattere interattivo, con il congegno di Ratti, come del resto avviene per Water action di Di Martino, il pendolo appare orientato assai più verso la pars destruens che verso la pars costruens. I manifesti “pubblicitari”, affissi lungo il vico in cui è situata la galleria, illustrando il corretto funzionamento del “prodotto”, amplificano il portato di sinistra ironia che già l’opera in sé comunica. La memorabile operazione beuysiana della piantumazione delle querce, accompagnata dalla celebre frase «noi piantiamo gli alberi, e gli alberi piantano noi perché apparteniamo uno all'altro e dobbiamo esistere insieme» sembra qui citata nella sua razionalità biologica, quanto svilita in un gingillo da salotto medio borghese.



La terra è oggetto, secondo una prassi simile a quella descritta per l’acqua, di una sempre più ingente appropriazione da parte delle multinazionali occidentali al fine di impiantarvi monocolture, cui corrisponde l’espropriazione delle popolazioni che su quella terra risiedono da millenni e da essa traggono sostentamento. L’esigenza di massimizzare i rendimenti immediati con ogni mezzo porta inoltre tali organizzazioni a riservarle trattamenti che conducono in breve a gravi fenomeni di depauperamento come la desertificazione.



Alla desertificazione appunto e ad altre cause di corruzione della terra e delle sue risorse sono dedicate le nove candele di Giuditta Nelli, ognuna delle quali rappresenta una Bougìe parfumée ~ bugìa profumata, fondata su di un doppio cortocircuito, quello insito nel titolo stesso e quello innescato dalla natura dei materiali e degli oggetti adoperati e dai diversi mondi cui sembrano appartenere. Se in italiano la parola “bugia” è sinonimo di “candela”, oltre che di “menzogna”, la volontà di alludere anche a quest’ultimo significato, e dunque alle distorsioni della verità atte a coprire i misfatti ecologici, magari camuffando i cattivi odori con un po’ di profumo, appare più che un’ipotesi remota. La dimensione di raffinatezza, da profumeria parigina, cui le candele rimandano è contraddetta dagli agenti di deterioramento che ognuna di esse accoglie. Le ricchezze del suolo, sembra chiosare la Nelli, si stanno consumando lentamente, ma irreversibilmente come candele.



Il motivo dell’ambivalenza del titolo ritorna in Earth in peaces, letteralmente traducibile come “terra in pezzi”, ma, attenendosi alla sola pronuncia, anche “terra in pace”, happening scandito in tre fasi differenti. Inizialmente l’artista chiede agli spettatori di scrivere con pennarelli indelebili su di un quadrato di stoffa una parola che definisca la terra; cuce poi insieme i vari quadrati intorno a dei palloni, fino a costruire guaine; lascia infine che i bambini si divertano a giocare a calcio in piazza con questi ultimi, calciando metaforicamente la terra.



Il discorso da riferire al fuoco risulta di natura un po’ differente rispetto a quelli precedenti, dal momento che non si tratta più di considerare l’effetto di deterioramento subito dall’elemento in sé, bensì il suo essere agente di deterioramento. Qualora inoltre si sostituisca la nozione concreta di fuoco con quella più astratta di calore viene immediatamente evocata la questione del surriscaldamento globale, effetto prodotto, checché ne dicano i detrattori del protocollo di Kyōto, dell’impennata delle emissioni di gas serra che il nostro pianeta ha conosciuto in questi ultimi decenni.



Un evidente rimando a tale fenomeno, in quanto causa dello scioglimento dei ghiacciai, è individuabile ne L’UCCELLO DI dIO di Ur5o, ispirata alla fiaba russa "L’uccello di fuoco", ma non si tratta che della sollecitazione più epidermica. L’ingegnosa struttura, un piedistallo marmoreo esagonale sormontato da un'asta che termina con un cerchio metallico necessario a sostenere una piccola gabbia in cui campeggia un uccello di fili metallici, tessuto e pece, essendo sostenuta alle quattro estremità laterali del piedistallo da altrettante forme ghiacciate ad imbuto rovesciato, il cui prossimo scioglimento minaccia naturalmente di destabilizzare il tutto, ma anche di rompere l’uovo che si trova al di sotto, assurge a metafora del più generale iato esistente tra edificazione umana di sistemi complessi ed effettiva capacità supportante che la natura possiede. Ad un tratto l’artista dà fuoco all’uccello, trasformandolo in una sorta di torcia che si consuma fino a carbonizzarsi; quindi esegue la correlata performance Fare Fuoco, ove se la lenta liquefazione di una pistola per mezzo della fiamma ossidrica annienta un possibile agente di morte, non può essere evitato lo sprigionarsi della nociva diossina. Un gesto per ricordare l’enorme impatto ambientale che i pur auspicabili processi di disarmo implicano.



Tuttavia l’anomalia del titolo, in cui, secondo il principio dell’inversione concettuale assai caro ad Ur5o, tutte le lettere sono maiuscole tranne quella che più di ogni altra ci si aspetterebbe tale, fornisce la chiave per una ulteriore e ancor più profonda lettura. «É l'uomo», sottolinea l’artista, «che crea l'uccello di fuoco, la figura fantastica nasce dalla volontà di un singolo individuo ed è una sorta di atto di fede». La libertà non consisterebbe dunque nel «superare la barriera che ci nega la simbiosi con l'immateriale, di sentirci fatti anche di materia indefinibile oltre che di carne», bensì nel «ripudiare l'idea stessa che possa esistere una tale barriera o che sia necessario rendersi meritevoli di un esistere più alto». Emblematico è in tal senso lo sportello della gabbia che si apre verso l’interno, nuovo fenomeno di inversione. Un monito a considerare che quello che appare lo spazio dell’affrancamento può in realtà essere lo spazio della reclusione e vice versa. Una visione, è evidente, rigorosamente immanentista.

Stefano Taccone

2 commenti:

  1. Bello ricordare di questa performance di Ur5o...
    ma che intendi per "l’enorme impatto ambientale che i pur auspicabili processi di disarmo implicano"?

    r:m

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  2. Esattamente quello che ho scritto: lo smaltimento degli apparati militari è un problema di non facile risoluzione, ma Ur5o ti saprà senz'altro raccontare meglio di me...

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