giovedì 29 luglio 2010

ARTE E CAMORRA – Prima e dopo Gomorra

Questi ultimi cinque-sei anni sono indubbiamente caratterizzati da una crescente attenzione nei confronti del fenomeno camorristico all’interno in primis della stessa Campania, ma anche, e soprattutto, a livello italiano ed estero. Il simbolo indiscutibile di questa stagione, quasi un pleonasmo scriverlo, è il giovane scrittore Roberto Saviano con il suo bestseller Gomorra (2006), che, a prescindere da come lo si giudichi sul piano letterario e/o su quello dell’impegno civile, costituisce, non solo e non tanto in sé, bensì insieme alle vicende del suo autore ed a tutto il contorno di discussioni che suscita fin dai primi mesi della sua pubblicazione (e ancora continua più che mai a suscitare) un caso di estremo interesse per chiunque voglia riflettere sull’odierna società italiana. Appena un gradino al di sotto, quanto a grado di rappresentatività di tale temperie e rilevanza socio-politica, si colloca il film omonimo di Matteo Garrone, premiato, tra l’altro, a Cannes, che dal libro di Saviano è appunto tratto.





Roberto Saviano, autore del bestseller Gomorra.

Difficile, come spesso accade, stabilire quanto Saviano e Gomorra siano il prodotto di un certo clima culturale e quanto, invece, abbiano contribuito ad istituirlo. Quello che però appare curioso osservare è che, nel momento in cui la questione criminale campana raggiunge una auge mediatica senza precedenti, scardinando in tal modo (o almeno dando l’idea di scardinare) quell’alone di omertà che da sempre permea di sé la malavita organizzata, non solo, in maniera non infondata, si pone il dubbio sull’efficacia di tale situazione, ma persino, in maniera altrettanto seriamente argomentata, si paventa che tutto ciò possa risultare nei fatti nocivo alla causa del bene comune. Senza necessariamente voler condividere tutte le tesi del sociologo della cultura Alessandro Dal Lago, al cui recentissimo Eroi di carta, energica decostruzione dei “meccanismi che hanno fatto di Gomorra uno straordinario successo editoriale e del suo autore un esempio di eroismo civico”, mi sto riferendo (come qualcuno avrà già intuito), credo che la lettura di questo controverso pamphlet possa aiutarci a non perdere di vista un concetto fondamentale: «Le mafie hanno un enorme potere (…) Ma non sono il potere» e pertanto esse (e tanto meno i soli casalesi) non costituiscono “il male assoluto”, come ahimé troppo spesso tra le righe o anche in maniera più diretta Saviano di fatto argomenta, ma vanno inserite in un contesto in cui «ci sono gli operai che bruciano negli altiforni, e intanto il governo annacqua le sanzioni alle imprese. Ci sono i migranti che annegano a centinaia davanti a Lampedusa e quelli schiantati nei campi, mentre da tutte le parti si grida agli zingari ladri e ai rumeni stupratori. Ci sono milioni di persone che perdono il lavoro e tirano la cinghia, mentre i ministri si sciacquano la bocca con l’economia sociale di mercato». (A. Dal Lago, Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, manifestolibri, Roma, pp. 99-100; p. 11). C’è un sistema, quello capitalista, aggiungo insomma io portando il discorso su di un piano di maggiore astrazione (e forse anche su di un piano di maggiore radicalismo), ove, parafrasando Pasolini, la giustizia non coincide in nessun modo con la legalità.





Alessandro Dal Lago, autore del pamphlet Eroi di carta.

Venendo dunque a riflettere in maniera tanto urgente quanto pionieristica su quale sia lo specifico contributo delle arti visive alla “stagione di Gomorra”, collocando però l’aprirsi di tale periodo circa un paio di anni prima dell’uscita effettiva del libro, facendolo convenzionalmente coincidere piuttosto con l’inizio della Faida di Scampia (ottobre 2004), terrò dunque pienamente conto del discrimine esistente tra uno sguardo sostanzialmente limitato alla dimensione più convenzionale ed epidermica del fenomeno ed uno sguardo che tenta di inquadrarlo in un discorso più ampio, cercando, esattamente come la migliore arte politicamente impegnata più e meno recente, di portare alla luce le trame sotterranee. Si tratterà di una breve carrellata che comunque non avrà pretese di completezza, ma vorrà essere un primo passo in vista della storicizzazione di una tendenza dell’arte campana recente per la quale, essendo essa ancora in pieno svolgimento, si possono necessariamente fino ad un certo punto spendere parole definitive.





Disegni realizzati rispettivamente da Ernesto Tatafiore e da Nino Longobardi per l’ "Osservatorio sulla camorra e sull’illegalità".

Fin dall’inizio del 2005 nasce, su iniziativa del “Corriere del Mezzogiorno”, l’ "Osservatorio sulla camorra e sull’illegalità", sorta di laboratorio in cui «si osserva il fenomeno camorra dai più diversi punti di vista, si costruiscono modelli di interpretazione e di conoscenza, si sperimentano percorsi di sensibilizzazione e di coinvolgimento di pezzi significativi della società, a cominciare dai giovani e dalle scuole, si promuovono iniziative di mobilitazione dell’opinione pubblica», che negli anni coinvolge praticamente tutti gli artisti campani, di varie generazioni e dalle poetiche più disparate, al fine di accompagnare i contributi scritti con disegni a colori. Il limite dell’operazione (non parlo ovviamente dell’Osservatorio in generale, sul quale non mi compete alcun giudizio, ma della modalità di coinvolgimento degli artisti) non risiede ovviamente nella richiesta di accordare la propria creatività agli spazi ed ai mezzi predeterminati dal foglio del quotidiano, ché anzi per alcuni può risultare persino uno stimolo ulteriore, ma dall’idea di fondo che l’affrontare certi temi si possa conciliare con la poetica di ogni artista e non richieda particolari inclinazioni e predisposizioni che magari alcuni possono avere ed altri meno.



Camorra, mostra collettiva a cura di Antonio Manfredi, CAM, Casoria, 2008.

Un rischio in cui pure talvolta incorre, benché in maniera assai minore, la collettiva Camorra, a cura di Antonio Manfredi, inauguratasi presso il sempre stimolante museo CAM di Casoria (lo stesso titolo intende rimandare con un gioco di parole al nome del museo) nel giugno del 2008, allorché l’emergenza rifiuti ha toccato il suo acme ed il neoeletto presidente del Consiglio, avendo promesso l’imminente “miracolo” della sparizione dei rifiuti, ha già militarizzato l’area della discarica di Chiaiano. Le opere appaiono per molti versi eterogenee (diversi media, diversa età degli artisti, diverso grado di pregnanza ed interesse, diversi gradi di allusione esplicita), ma il punto debole risiede piuttosto nel discorso con il quale si tenta di trovare un filo conduttore. Passaggi come «il controllo sulla vita, sui movimenti e sulla libertà dell’individuo da parte di una creatura dalle cui fauci sembra impossibile sfuggire» o «E chi meglio di un museo di frontiera, come il CAM, poteva concertare una mostra sulle accezioni sociali della malavitosa piovra che attanaglia gli uomini?» si iscrivono pienamente in quel filone retorico che intende tacitamente la dimensione camorristica più come un qualcosa di estraneo al genere umano che come un qualcosa di assolutamente radicato in esso e nella società che si è costruito attorno (e ben al di là della sua accezione letterale). Buona parte degli artisti, di contro, riescono sostanzialmente a schivare tale ottica.



Walter Picardi, Momy, 2010.

Ma gli esempi più interessanti si evincono probabilmente dall’analisi di alcuni singoli artisti che dedicano in questi ultimi anni (e stanno dedicando tutt’ora) un’attenzione più sistematica al tema e/o, più in generale, alla realtà del territorio. Al CAM è presente, tra gli altri, Walter Picardi che solo qualche mese fa (febbraio 2010) inaugura la personale Full Immersion, a cura di Micol Di Veroli, presso la Dora Diamanti di Roma, che in verità, dato anche il contesto, non è possibile leggere in un’accezione esclusivamente campana: essendo Camorra, Mafia, e ‘Ndrangheta intese come «parole diverse per una lingua comune» il riferimento va parimenti a queste ultime due organizzazioni. I parallelepipedi in cemento, benché derivazioni di un immaginario che affonda le radici nel contesto di Ponticelli, quartiere situato nella periferia orientale di Napoli dal quale l’artista proviene, assurgono così ad emblemi di tale koiné del crimine organizzato, inglobando ciascuno di essi un membro di una famiglia tipo: padre, madre, figlio e figlia. Una notevole forza espressiva deriva così dal cortocircuito tra elementi reali sfuggiti alla “cementificazione”, in grado di suggerire precisi quanto assolutamente comuni prototipi umani, e severo impianto stereometrico dei blocchi cementizi, che riduce i personaggi ad una condizione tanto grottesca quanto estremamente drammatica, a figure neomitologiche (mezzi uomini e mezzi parallelepipedi) di una epopea che ha però ben poco di eroico. Benché Walter dichiari di non intendere tale sventurato gruppo come un discorso esclusivamente riconducibile nell’alveo dell’illegale, ma, considerando che si tratta di una famiglia il cui padre ha “cantato”, ovvero, come suggerisce il microfono posto davanti al suo parallelepipedo, “ha parlato troppo” ed avendo in mente l’attuale minaccia della legge-bavaglio, lo riferisca a tutte le situazioni in cui si vuole annichilire la libertà di pensiero, di parola, di azione, in una sola parola l’autodeterminazione, esso non sembra in grado di supportare autonomamente tale ulteriore lettura, che rimane per ora in ombra rispetto a quella specificamente criminale.



Roxy in the box, Ce l’hanno tutti in bocca, 2009.

Allo scadere del 2006 Roxy in the box inaugura presso la galleria di Franco Riccardo la sua prima personale in assoluto a Napoli, Pulp…azioni, ed è probabilmente tale circostanza ad indurla a lanciare una vigorosa quanto spietata denuncia dei molteplici travagli che affliggono la città, ed in particolare al suo volto cruento, che i media, dopo oltre un decennio in cui è prevalsa la retorica del “rinascimento napoletano”, sembrano aver riscoperto. Sono i giorni in cui la stella di Bassolino si va offuscando a vista d’occhio, quando solo un anno prima risplendeva ancora più fulgida che mai, ma non si è ancora eclissata. Di lì a poco il presidente e tutta la sua ultradecennale narrazione finiranno sommersi sotto il peso delle tonnellate dei rifiuti dell’emergenza. Benché l’aura sinistra della Camorra paia aleggiare tra le righe dell’intero percorso, essa non viene mai nominata esplicitamente, intendendo forse Roxy delineare una visione generale ben più sottile della fin troppo vieta quanto inadeguata distinzione tra “bene” e “male”, “buoni” e “cattivi”, ché tali categorie non esistono mai allo stato puro. Il morbo di cui è vittima il popolo napoletano (e magari molte altre realtà italiane e mondiali), sembra dirci, ha senz’altro in buona parte origini di carattere socio-politico, ma esso non è polarizzato in una categoria, in un gruppo, in un clan…, bensì, un po’ come il potere per Michel Foucault, possiede uno statuto fluido e polimorfico. Pienamente consequenziale a tali assunti risulta così il dipinto presentato al Pan nell’ambito del progetto Emergency Room (marzo 2009), Ce l’hanno tutti in bocca, ove sono additati i limiti di ciò che invece solo qualche giorno dopo, per una curiosa coincidenza, Saviano, adoperando parole che, forse inconsapevolmente, sanno non poco di warholismo («Voglio essere un’operazione mediatica, voglio che se ne parli in prima serata») auspica parlando alla trasmissione di Rai Tre Che tempo che fa: che la lotta alla Camorra diventi una “moda”.



Rosaria Iazzetta, Per amore del mio popolo non tacerò (P.N.P.-Progresso Non Pubblicità, Ercolano), 2009.

Chi più di ogni altro artista ha legato ultimamente la sua ricerca alla questione in esame è però probabilmente Rosaria Iazzetta, malgrado ella non solo vi sia approdata seguendo il filo di un progetto dotato di un’ottica più generale, P.N.P.-Progresso Non Pubblicità, ma lo inquadri entro una precisa cornice etico-filosofica che le permette di trascendere certe contingenze. Se il “progresso”, in quanto miglioramento generalizzato delle intere facoltà umane, e lo “sviluppo”, in quanto crescita esclusivamente economica, non solo non coincidono, ma sono persino in contraddizione l’uno con l’altro, l’invenzione tardocapitalista della “pubblicità progresso”, allorché si consideri la pubblicità come detonatore insostituibile del consumo (e dunque, di conseguenza, dello sviluppo), non può che apparire un fastidioso ossimoro. Rosaria si situa appunto nel tratto di intersezione tra questi due termini antitetici, recuperando in pieno la tensione verso il progresso, ma declinandolo secondo una logica completamente ribaltata rispetto a quella della pubblicità. Alla dimensione pubblicitaria contrappone così quella puramente pubblica (manifesti relativi al progetto sono stati per ora installati su edifici pubblici di Ercolano e di Pompei, ma arriveranno presto in altre zone di Napoli e provincia), rendendo esplicito il carattere degenerato proprio della prima rispetto alla seconda. Se il pubblicitario si configura come violenta invasione di messaggi dettati dagli interessi unicamente privati del mittente, ma spacciati come realizzazione dei sogni più profondi del destinatario, il pubblico di Rosaria possiede forse una carica ugualmente violenta, ma finalizzata a veicolare pensieri incitanti costantemente ad un’etica della collettività, ovvero al contrario dell’individualismo accecante in cui l’induzione all’acquisto rinviene la sua inconfessata meta suprema. È innanzi tutto tale détournement di fondo a far sì che, anche laddove il riferimento contenutistico concerne la specifica realtà criminale, il discorso appaia leggibile in antitesi ai soprusi di ogni provenienza, e soprattutto alle insanie che vi sono a monte. La denuncia del potere malavitoso non appare inoltre mai disgiunta dai suoi calorosi inni ad un amore ultraviscerale, iperbolico, senza se e senza ma ed al coraggio intrepido ed alla felicità incontenibile che ne deriva, convinta che solo recuperando le sue più nobili facoltà l’uomo potrà fronteggiare il male che lo opprime.



Salvatore Manzi, Noitulover06, 2006.

Più “antica” di tutti i lavori fin ora analizzati, nonché, seppure di qualche mese, dello stesso Gomorra, in quanto esposto a febbraio del 2006, mentre il bestseller vede la luce solo in aprile, è però la videoistallazione Noitulover06, di cui si compone la personale omonima presso Villa Letizia a Barra, di Salvatore Manzi (l’ultima personale in cui adopera lo pseudonimo “Zak”), ove la peculiare lateralità dell’ottica di osservazione risiede all’origine della rara acutezza del messaggio. Detournando il motivo ispiratore di una collettiva di tre anni prima (2003), Controlled revolution n.4, a cura di Paolo Emilio Antognoli e Marco Scotini, cui egli stesso partecipa (da qui l’idea di far curare la mostra ad uno “Scotini apocrifo”, Salvatore riferisce il concetto di “rivoluzione controllata”, che per i due curatori toscani riguarda l’inedita ed enigmatica forma «disciplinata, pragmaticamente controllata e burocratica, ma sensazionale», con cui il discorso rivoluzionario sembra tornato in auge (si rammenti che siamo all’inizio del millennio, quando ancora la spinta propulsiva di Seattle e Genova è assolutamente tangibile), alle modalità d’azione tipiche della malavita campana. «La camorra», spiega Salvatore, «costituisce a tutt’oggi l’unica forza rivoluzionaria che agisca dalle nostre parti. La sua prassi appare nei fatti quella maggiormente vincente, quella capace di muovere più denaro e di modificare, nel bene o nel male, l’assetto del territorio. È in grado di rispondere a quel bisogno di rincorrere grandi obiettivi come nessuna istituzione oggi riesce a fare. La prospettiva di conseguire lauti guadagni impiegando tempo e fatica assai ridotti, facendo il palo o vendendo droga, è una tentazione alla quale è difficile resistere per un giovane che, spesso e volentieri, è ancora minorenne». Le due proiezioni gemelle a soffitto, ritraendo ciascuna una telecamera dalle fattezze richiamanti la segnaletica utilizzata in presenza di percorsi videosorvegliati, costituiscono un interessante dispositivo tautologico. Poiché esse, a rigore, non illustrano una telecamera, bensì l’icona alludente al proprio uso specifico, può tranquillamente dirsi che il proiettore, strumento attraverso il quale la funzione della telecamera si esplica, sia qui impiegato ai fini di comunicare tale funzione stessa. Il messaggio trasmesso da tali icone sembra entrare in violento contrasto con la «struggente traccia sonora», un’interpretazione in chiave musicale di un tipico agguato camorristico, composta da Gianni Iannitto, musicista elettronico a quel tempo leader dei Garage Valley, nonché fedele assistente di Zak-Salvatore in numerosi video. Ma come si concilia l’onnipervasività del controllo con il potenziale eversivo che implicherebbe l’operato di ogni criminalità organizzata? La risposta risiede nel fatto che siamo non di meno di fronte ad una “rivoluzione controllata”, anzi è difficile trovarne un’esemplificazione migliore: «Credere che la criminalità organizzata agisca in maniera incontrollata», continua Salvatore, «denota un’analisi alquanto ingenua. Le amministrazioni pubbliche ed i ceti imprenditoriali ne traggono evidentemente un tornaconto. Ecco perché malgrado ci si uccida di fronte alle telecamere non si trova mai un responsabile. La rivoluzione camorristica non è solo una “rivoluzione controllata”, ma si alimenta del controllo stesso e senza il suo appoggio non esisterebbe».





Domenico Di Martino, Scudi umani, 2008.

Alla dimensione occulta, invisibile, persino camaleontica del potere criminale, e, più in generale, di ogni gruppo sociale nell’esercizio del suo dominio, dal momento che «a Scampia, così come nei moderni conflitti mondiali, le popolazioni civili non sono più usate tanto come bersagli inermi, quanto come scudi difensivi appannaggio di pochi» fa riferimento anche Domenico Di Martino con la doppia proiezione Scudi umani (febbraio 2008), il cui titolo concide con la personale inserita nel ciclo Corrispondenze di frontiera da me curato, insieme a Pina Capobianco, appunto presso il Centro Hurtado di Scampia. Partendo da una sorta di icona-segnale prossima alla telecamera di Salvatore, ovvero la sagoma maschile tipica di una toilette o di qualunque altro servizio di uso pubblico, Domenico innesca così un progressivo e costante processo moltiplicativo fino a che il quadro non risulta totalmente riempito da tali prototipi. Alcuni di essi presentano un contorno enigmaticamente lampeggiante, ma l’anomalia va gradualmente scemando fino a scomparire definitivamente. Raggiunta l’acme delle presenze, ha inizio un parallelo e contrario percorso di sparizione, mentre nella proiezione attigua le sagome compiono un giro su se stesse a 360°. La sensazione generale parla di angoscia e straniamento, incrementati dal ticchettio, regolare come un metronomo, che scandisce ogni comparire, scomparire o rivoltarsi delle sagome. È l’inquietudine che comunica, quanto testimonia, la paratassi.

Stefano Taccone

mercoledì 7 luglio 2010

PERCHÉ L’ARTE ITALIANA SEMBRA MENO POLITICA DI QUELLO CHE É – Una risposta a Pier Luigi Sacco, Fabio Cavallucci ed Italo Zuffi

Un po’ di tempo fa dalle pagine di "Flash Art" l’economista dell’arte Pier Luigi Sacco sosteneva che, a fronte dei numerosi spunti a disposizione («dalla questione del ricambio generazionale alla crescente precarizzazione, dalla criminalità organizzata alle morti sul lavoro, soltanto per fare qualche esempio, per non parlare degli effetti socio-economici del berlusconismo, un tema che sembra stimolare più gli artisti e il dibattito oltre confine che i nostri; o del disfacimento del progetto di trasformazione sociale della sinistra, che invece sembra non interessare proprio nessuno») e di un rinnovato impegno politico nel cinema (Gomorra, Il divo, La meglio gioventù) e nella musica («anche al di là di una vasta area di artisti che si situano su posizioni apertamente antagoniste, le ultime generazioni si stanno decisamente allontanando dal manierismo romantico-intimista che ha dominato a lungo la scena musicale nazionale») italiani e malgrado «i precedenti illustri (…) talmente noti che non c’è bisogno nemmeno di ricordarli», la scena italiana delle arti visive denota una «relativa incapacità di affrontare in modo incisivo temi politici». Avendo in seguito constatato come se «i classici spazi di maturazione e decantazione di un’arte politica impegnata non sono le gallerie, ma tipicamente gli spazi indipendenti e non profit», in Italia, a differenza di altri paesi, «è ancora vero che per molti nostri artisti, gli spazi in cui definire e costruire i primi passi della propria carriera sono principalmente le gallerie» ed avendo sostenuto che l’alternativa risiederebbe nella possibilità «che siano gli artisti stessi ad inventarsi gli spazi all’interno dei quali tutto ciò possa avvenire», ma ciò «richiederebbe proprio quella sensibilità diffusa che sembrerebbe invece mancare», concludeva che, pur ammettendo che le cose, dato il grado di criticità della situazione, potrebbero presto cambiare, per ora gli artisti italiani «non vogliono e non riescono ad essere politici (…) perché non credono alla possibilità di un progetto di cambiamento che abbia un senso o una reale prospettiva, e quindi trovano più sicuro rifugiarsi in un piccolo mondo che quantomeno conoscono e di cui sanno parlare». (P. Sacco, Assente giustificata – Perché l’arte italiana non vuole essere politica (o non ci riesce), “Flash art”, Milano, Anno XLII, nº 274, febbraio-marzo 2009, pp. 98-99).



Rosaria Iazzetta, Dioxin Parfum, 2009.

Alla tesi di Sacco faceva eco due mesi dopo, sempre dalle pagine di "Flash Art", il critico e curatore Fabio Cavallucci, che, introducendo un articolo in cui intendeva riflettere sul fatto che «se è vero che (…) l’arte italiana non si occupa di politica da un po’ di tempo la politica ha invece iniziato ad occuparsi dell’arte», alludendo a casi come quello della rana crocifissa di Martin Kippenberger o della mostra di Adel Abdessemed alla Sandretto, non solo definiva «verissimo» che «l’arte italiana non si occupa di temi politici», ma aggiungeva persino che essa «non si occupa di temi profondi, o comunque profondamente sentiti» ed invitava pertanto gli artisti a «trovare temi e argomenti più vicini a voi, che anche noi possiamo sentire più vicini». La successiva analisi sulle ingerenze e le deficienze della politica italiana in materia culturale lo conduceva però a concludere così: «Ma allora hanno ragione gli artisti che si rifugiano in Australia o nella propria cameretta, e ha ragione Pier Luigi Sacco quando ammette che ciò che è mancato agli artisti italiani finora, è stato un intero sistema culturale in cui potessero crescere e selezionarsi. Un sistema incapace di conquistarsi spazi di reale autonomia è un sistema debole, che non può certo sperare di produrre qualcosa degno di interesse al di fuori dei nostri ristretti confini». (F. Cavallucci, Arte e libertà – Come la politica sta occupando il contemporaneo, “Flash art”, Milano, Anno XLII, nº 275, aprile-maggio 2009, pp. 82-83).



Salvatore Manzi, Lapidazione analogica, 2009.

Sacco e Cavallucci sembravano dunque concordi su di una visione ambivalente: da una parte l’accusa agli artisti per le loro carenze (formulata con toni più pacati dal primo, con un pizzico di maggiore acrimonia dal secondo), dall’altra non la piena assoluzione, ma certo la forte attenuante data dal contesto non eccessivamente propizio.



Giacomo Faiella, Sognaleggi - Dreamat, 2009.

Ponendosi in aperta contrapposizione rispetto alle tesi di entrambi, giudicando le une «giudizi affrettati» e le altre «fuori bersaglio», il bimestre ancora successivo ed ancora una volta su "Flash Art" l’artista Italo Zuffi notava che «l’arte italiana contemporanea nel suo insieme altro non è che il frutto maturo di un gesto totalmente politico» e specificava che «l’appellativo “politico” non si dovrebbe solo assegnare quando un messaggio “impegnato” è esplicitato nell’opera d’arte: un’opera d’arte è sempre un episodio politico, sia perché prodotto culturale che innesca sistemi di pensieri e relazioni, sia perché essa si rapporta a un’economia». Aggiungeva poi che a Sacco e Cavallucci, in ogni caso, sfuggono «tutti quegli artisti che esprimono invece temi anche politici nelle loro opere» e citava, senza pretesa di esaustività, «Stefano Romano, Nark Bkb, Flavio Favelli, Francesco Arena, Marcello Simeone, Adrian Paci, Marcello Maloberti, Massimo Grimaldi, Maria Domenica Rapicavoli, Rossella Biscotti». (I. Zuffi, L’arte italiana è sempre politica, “Flash art”, Milano, Anno XLII, nº 276, giugno-luglio 2009, p. 54).



Stefano Lupatini, Untitled dalla serie Targets, 2009.

Avendo riassunto i tratti salienti di queste tre differenti posizioni, ritengo opportuno, data la costante riflessione che, sia pure nel mio piccolo, vado conducendo da diversi anni sulla questione dell’arte politica, provare di seguito ad analizzarle criticamente e, nel contempo, a portare nuovi argomenti alla disputa, pur senza alcuna velleità di porre un punto fermo.



Emanuela Ascari, Solo la terra può unirci al cielo (cornoletame), 2009.

L’analisi di Sacco coglie acutamente un aspetto assai rilevante del problema: la carenza italiana, rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale, del settore non profit, anche se tralascia di aggiungere come assai spesso anche buona parte di quel già di per sé esiguo non profit italiano sia in realtà improntato più ad una filosofia ancillare rispetto alle esigenze degli spazi propriamente commerciali che ad una autentica indipendenza e dunque rischi di essere tale soltanto di nome. A Sacco va inoltre riconosciuta la capacità di preservare per tutta la trattazione un concetto chiaro ed univoco di arte politica, laddove Cavallucci assume come spunto tale concetto per formulare una critica più ampia, ma anche più empiricamente argomentata e che comunque esula dalla presente riflessione, e Zuffi oppone un argomento tanto vero (l’intrinseca politicità dell’atto artistico) quanto inutile ai fini del dibattito, ed anzi persino in grado, a ben vedere, di avvalorare ulteriormente le accuse dalle quali intende difendere l’arte italiana. Più avanti Zuffi, allorché dipana l’elenco di «tutti quegli artisti che esprimono invece temi anche politici», mostra tuttavia di aver compreso la differenza tra arte sempre, benché implicitamente, politica ed arte che affronta tematiche politiche, ma il fatto che senta il bisogno di aggiungere quell’ “anche” rischia di portare, per la seconda volta, acqua al mulino di Sacco. Sia in Zuffi che in Cavallucci (ma quest’ultimo è giustificato dal fatto che il suo articolo non è specificamente incentrato sulla questione di cui ci stiamo ora occupando) manca infine ogni riferimento allo stato di salute attuale della coscienza politica nella società italiana in generale, che, nel momento in cui si intende argomentare sul grado di politicità dell’arte non mi pare propriamente un aspetto da porre tra parentesi. Tale riferimento è in verità assente anche in Sacco, ma il suo ipotizzare che una nuova stagione di conflittualità sociale potrebbe essere dietro l’angolo, benché egli pensi prettamente “ad una conflittualità inedita di tipo generazionale” (posizione assai discutibile, ma non è questo che ora mi preme), lascia intendere che egli giudichi appunto il momento presente non particolarmente conflittuale.



Giuditta Nelli, IMPOSSIBLE SITES dans la rue à la Biennale d'Art Africain DAK'ART OFF, 2010.

Premettendo che sono profondamente convinto che l’odierno quoziente di politicizzazione delle tematiche potrebbe essere maggiore se vi fosse in atto nel nostro paese un livello di conflittualità più elevato quantitativamente e qualitativamente, conflittualità che pure per molti versi non manca ma che rimane, a mio parere, ancora insufficiente rispetto alla gravità della situazione, che peraltro è di dimensione mondiale, e pur apparendomi alquanto problematico rispondere ad una domanda del tipo “l’arte italiana politica o meno?”, ritengo di poter fermamente sostenere che l’arte italiana è comunque più politica di quanto possa apparire a molti e ciò per un motivo molto semplice: la facilità con cui si tralascia di prendere in considerazione artisti validi che hanno il solo torto di non appartenere a gallerie particolarmente di spicco, o magari non di essere rappresentati, indipendentemente dal fatto che tale mancanza sia frutto di scelta o meno, da alcuna galleria, una circostanza che possiede necessariamente un peso specifico maggiore nel momento in cui si va in cerca dell’arte politica.



Maria Vittoria Perrelli, Gioventù ribelle. Archivio del dissenso, 2006-2009.

Per una più organica comprensione della portata italiana del fenomeno consiglierei pertanto di considerare, ad esempio, gli appelli al risveglio delle coscienze, specie in rapporto alle insidie della criminalità organizzata campana, che conduce da qualche anno, ambientandole spesso e volentieri nello spazio pubblico, di Rosaria Iazzetta; i video sulla percezione mediatizzata, sulla questione psichiatrica, e su altre tematiche di carattere socio-antropologico, di Salvatore Manzi; il sollevamento di questioni assai controverse, come il signoraggio bancario o la vicenda delle Twin Towers, praticato da Giacomo Faiella; l’indagine sui concetti di censura e sostenibilità cui Ur5o sottopone ogni aspetto della realtà; le metafore decrescenti, orchestrate con peculiare piglio antispettacolare, di Michelangelo Consani; le rievocazioni storiche della resistenza partigiana (e di ogni lotta di liberazione) elaborate da Ciro Vitale; le riflessioni sugli odierni conflitti bellici, sull’informazione manipolata o sulle morti bianche di Stefano Lupatini; l’ironica quanto amara satira del divismo, le cui logiche sono in grado di erodere rovinosamente i principi della democrazia, sviluppata da Rosa Futuro; le riconciliazioni tra uomo e natura attraverso l’arte tentate, sulla scorta del pensiero antroposofico di Rudolf Steiner, da Emanuela Ascari; l’esplorazione incessante di “luoghi impossibili dello spazio e della mente”, tra “incrementarsi inesausto della rete di relazioni” e “denuncia dello stato di fatto”, condotta da Giuditta Nelli; gli attacchi alla presunta superiorità della “civiltà occidentale” contenuti in alcuni video di Pier Paolo Patti; il sovrapporsi di pulsioni creative e desideri palingenetici tipico di Katia Alicante; gli archivi (Gioventù ribelle. L’Archivio del dissenso in primis) o le tracce sonore di Maria Vittoria Perrelli; le ricognizioni sui fenomeni migratori e, più recentemente, sul mondo del lavoro, anche a partire dalla sua specifica esperienza, di Giuliana Racco; la messa a fuoco della sempre più spinta quanto paradossale trasformazione dell’acqua in un bene di lusso operata da Domenico Di Martino.



Giuliana Racco, I miei anni invisibili (2003-2008) , 2008.

Sono questi alcuni degli artisti con i quali ho lavorato in questi anni o che comunque seguo con attenzione. I loro nomi costituiscono, a mio parere, una buona parte di quella che è l’arte politica italiana oggi. Tra essi vi è chi ultimamente ha ottenuto anche discreti riconoscimenti dal mondo dell’arte ufficiale, chi verosimilmente li otterrà di qui a poco, ma anche chi li ha ottenuti e poi ha preferito ritirarsi ai margini di esso o chi non li ha mai cercati preferendo fin dall’inizio operare in semi-clandestinità. C’è chi non disdegna affatto i circuiti istituzionali e chi pur non disdegnandoli cerca anche altri circuiti non convenzionali; chi rimane a distanza dal sistema delle gallerie perché conduce una ricerca che poco stimolerebbe il cubo bianco e chi si dichiara apertamente contrario a tale sistema. Si tratta di posizioni tanto varie ed articolate quanto pienamente discutibili, ma, in ogni caso, tutte ugualmente rispettabili e legittime e dunque non equamente in grado di pregiudicare in un senso o in un altro la valutazione critica della loro produzione. Diversamente il discorso sull’arte politica rischia di adottare le medesime logiche che ormai informano quell’evento farsesco che è diventato il concertone romano del Primo Maggio, dal quale, senza neanche comprendere la contraddizione in termini, i 99 Posse, evidentemente giudicati non sufficientemente capaci di fare cassetta, sono oggi esclusi!

Stefano Taccone