giovedì 14 giugno 2012

POLITIKACTION 1972-2012 - Il sistema è la crisi

(Testo distribuito in occassione della mostra Politikaction 1972-2012 - Il sistema è la crisi, da me curata presso il Di.St.Urb di Scafati dal 6 al 28 maggio, cui hanno partecipato i seguenti artisti e colettivi: Katia Alicante, Emanuela Ascari, Az.namusn.art, Enzo Calibé, Leone Contini, Nemanja Cvijanovic, Karmen Dada, Rosa Futuro & Tobias Marx, Silvia Giambrone, Rosaria Iazzetta, Internazionale Surplace, Marta Lodola, MaisMenos ±, Domenico Antonio Mancini, Salvatore Manzi, Pietro Mele, Giuditta Nelli, NoiSeGrUp, Pier Paolo Patti, Giuliana Racco, Alessandro Ratti, Rhaze, Mauro Rescigno, Fabrizio Sartori, Ur5o, Claudia Ventola, Marco Villani, Ciro Vitale, Marco Zezza, Mary Zygouri).

Scafati 1972: presso il Centro Sud-Arte del prof. Davide Morlicchio, figura chiave di mecenate per molti artisti operanti su quel territorio all’epoca, si inaugura la “mostra-manifestazione” Politikaction, a cura della Cellula Grafica “J. Heartfield”, coordinata da Franco Cipriano, artista allora appena ventenne, insieme agli altrettanto giovani colleghi Adriano Mele, Ciro Esposito e Gaetano Gravina, con i quali condivide il già discreto bagaglio di esperienze maturate nelle fila delle iniziative aggregatorie che Luca (Luigi Castellano), instancabile agitatore culturale ed ideatore di gruppi, manifesti e riviste d’avanguardia fin dai tardi anni cinquanta, marxista ed esponente di spicco del P.C.I. napoletano, benché costantemente sul filo dell’eterodossia, nonché artista egli stesso, ha animato durante gli anni immediatamente precedenti. Tale evento di pone quale anello di congiunzione tra tutto il discorso teorico progressivamente elaborato attraverso i tre numeri di “NO” (1969-1971) - la rivista che sancisce il definitivo approdo di Luca e del suo gruppo ad un concetto di “avanguardia politica”, parallelamente al definitivo divorzio dagli “ex compagni di lavoro e di lotta” dell’ ”avanguardia non politica” o “avanguardia artistica e letteraria”, rappresentata innanzi tutto dai poeti visivi Luciano Caruso e Stelio Maria Martini, con i quali ancora convive nell’ambito della redazione di “Linea Sud” fino al numero doppio del febbraio 1966 (Cfr. Noi. L’Avanguardia, in “NO”, Napoli, n. 1, 1969, pp. 14-15; Intervista a Luca, in M. De Vivo, La saletta rossa 1963 – 1974. Dieci anni d’arte alla Guida, Alfredo Guida Editore, Napoli, 2008, pp. 94-95; Luca, Contestazioni, in “Linea Sud”, Napoli, anno III, n. 3-4 (numero doppio), febbraio 1966) - e la successiva fondazione della Prop-Art - quando, ricorda Cipriano, «pensammo alla possibilità per gli artisti di intervenire con i propri strumenti nel contesto dell’opposizione politica di classe», poiché «non ci bastava più essere politici in quanto artisti» (Intervista a Franco Cipriano, in M. De Vivo, op. cit., p. 111). Trenta soggetti – artisti operanti individualmente o collettivi, provenienti per lo più dalla Campania ma non solo – si coalizzano in quell’occasione dando vita ad una sorta di premessa-manifesto rispetto ad un breve ma intenso periodo – dato che l’autentico commiato della Prop-Art è riconducibile alla partecipazione del gruppo alla Quadriennale romana del 1975, con la presentazione di una sala interamente allestita con opere-bandiere rosse, tutte perfettamente uguali, firmate da decine di artisti e non artisti, che funziona come dichiarazione di definitivo azzeramento dell’individualità – in cui lo sforzo di identificazione-fusione tra pratica artistica e militanza politica raggiunge, nella parabola luchiana, il suo acme.

 

1972: la spinta propulsiva del Sessantotto – e del Sessantanove, l’anno delle lotte operaie – si avverte ancora viva ed operante, permeando tanto la militanza condotta all’interno delle frange più movimentiste del Partito, quanto quella della variegata costellazione extraparlamentare; tanto la socialità di base, quanto le istituzioni, tanto la cultura alta, quanto quella popolare, eppure il clima lentamente sta cambiando. Se l’escalation del terrorismo, la cui stagione si apre il 12 dicembre 1969 a Piazza Fontana, si muoverà di pari passo con quella della repressione – e della sua giustificazione sociale -, l’esaurirsi del paradigma fordista, che ha reso possibile per quasi trent’anni uno sviluppo di matrice keynesiana, fondato sul compromesso tra capitale e lavoro – non a caso si parlerà di “trentennio glorioso” (1945-1975) -, ed il correlato esplodere della crisi di sovrapproduzione e dei profitti – e forse vale la pena aggiungere “del controllo”, fattore che Samuel Huntington giudica quello preponderante (Cfr. M. J. Crozier, S. Huntington, J. Watanuki (a cura di), La crisi della democrazia: rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, prefazione di G. Agnelli, introduzione di Z. Brezinski, Franco Angeli, Milano 1977) – sbilancerà repentinamente l’andamento del conflitto a favore del capitale, che rinverrà nella dottrina neoliberista una sorta di arma – è proprio il caso di continuare a sviluppare la metafora bellica - per fronteggiare tale crisi, che poi non è altro che la sua stessa crisi, fino ad annientarla – o meglio a fornire, in primis tramite l’anfetamina della finanziarizzazione, l’illusione di averla annientata, mentre sarebbe più coretto dire che non ha fatto che congelarla finché ha potuto, ovvero fino al 2006 -2008. Parallelamente non solo il sogno di un’arte come elemento di sovversione rispetto al sistema dell’oppressione di classe, ma persino la realtà di un’arte come proiezione verso una mai esausta sperimentazione dei linguaggi si infrangerà contro un vento normativo che neutralizza ogni pulsione eccedente entro l’universo spettacolare della mercificazione. Eppure le pratiche estetiche di alternativa – così come le lotte “per un altro mondo possibile” – non scompariranno mai del tutto nemmeno per un attimo, ma continueranno, benché relegate in una posizione marginale – è ora, a partire dalla fine degli anni settanta, piuttosto che al suo sorgere storico a metà degli anni sessanta, che appare molto più pertinente sul piano letterale parlare di “cultura underground” - mutando protagonisti, strumenti, linguaggi e problematiche e procedendo quasi alla stregua della “vecchia talpa” marxiana, pronta a riemergere al momento opportuno.



Scafati 2012: presso Di.st.urb. (Distretto di studi e relazioni urbane/in tempo di crisi), nato a febbraio di quest’anno, mosso da una esplicita attitudine aggregante, che lo ricollega idealmente allo spirito di Luca, e votato – come testimonia la denominazione stessa dello spazio - ad una ricerca estetica che assuma la crisi mondiale in corso quale costante riferimento contestuale ed oggetto d’indagine, trenta soggetti tra artisti e collettivi, tutti differenti da protagonisti della mostra del 1972, tutti di una fascia d’età grosso modo analoga a quella cui questi ultimi appartenevano allora, ma questa volta, in conformità con le enormi trasformazioni nel frattempo avvenute nella sfera delle comunicazioni, naturalmente in grado di rappresentare un’area geografica più ampia – permane una buona fetta di artisti campani, ma è preponderante la parte proveniente da altre regioni d’Italia, cui si aggiungono alcune presenze estere – sono chiamati a riprendere il discorso di allora in rapporto alla specificità dell’attuale momento storico. Nel mezzo tutta una molteplicità di vicende storico-artistiche attraverso le quali si dipana, non senza smottamenti e discontinuità, la “lunga linea rossa”, per adoperare un’espressione cara a Luca, dell’arte politica internazionale – dalla scultura sociale di Joseph Beuys alla critica istituzionale di Hans Haacke, ma anche di Marcel Broodthaers; dai collettivi attivisti americani tipici degli anni ottanta, come Group Material o ACT-UP, a forti individualità come Alfredo Jaar o David Hammons, dall’arte attivista Post-Seattle alle recentissime operazioni originatesi nel contesto dei nuovi movimenti di contestazione, Occupy Wall Street in primis. Se infatti tutti questi fenomeni e tanti altri sono rinvenibili nel retroterra di questi nuovi trenta, il display prescelto è deliberatamente - quanto liberamente – ispirato a This Is What Democracy Look Likes che, tenutasi tra l’ottobre ed il novembre 2011 presso le NYU’s Gallatin Galleries di New York, ha costituito una sorta di mostra-simbolo per l’arte attivista sviluppatasi nell’alveo delle occupazioni di Zuccotti Park. Essa consiste in un ampia opera murale a più mani, composta da poster, manifesti, volantini e scritte su supporti vari, basata tanto sull’effetto plurivoco d’insieme, quanto sulla sollecitazione alla lenta esplorazione analitica del singolo tassello.


2012: Il paradigma neoliberista, sul quale si sono fondate le politiche degli ultimo inglorioso trentennio (1975-2005), conosce ormai, in seguito alla grave recessione in cui è sprofondata l’economia mondiale a partire dal biennio compreso tra la crisi dei mutui subprime – seconda metà del 2006 – e la scomparsa delle maggiori banche d’affari del pianeta – settembre 2008 –, cui è seguito il salvataggio delle banche stesse – negli U.S.A. ma, di fatto, anche in Europa – per mezzo dei soldi pubblici – ovvero dei nostri soldi -, e quindi la crisi del debito sovrano – che ancora una volta, proprio in questi mesi, siamo chiamati a fronteggiare tutti noi cittadini -, un grave declino di credibilità, e ciò malgrado le misure messe in campo dai governi quali “ricette per uscire dalla crisi” attingano ancora alle sue logiche. Ma se la finanziarizzazione – è questa in sostanza la visione, ad esempio, di Zygmunt Bauman a partire da Capitalismo parassitario (2009) (Cfr. Z. Bauman, Capitalismo parassitario, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009), così come, al di là delle sfumature, di molti altri studiosi contemporanei di diverse tipologie e nazionalità; e peraltro alla finanziarizzazione potrebbero aggiungersi le delocalizzazioni, la compressione dei salari, i tagli ai servizi pubblici… - ha funzionato alla stregua di un farmaco in grado di conservare in vita un capitalismo altrimenti destinato ad una lenta agonia, quello della metà degli anni settanta, cosa succede nel momento in cui gli effetti collaterali divengono insostenibili e la cura, da che leniva i sintomi della malattia, si volge in fattore di pernicioso radicalizzarsi degli stessi? E quanto, d’altra parte, il ritorno ad un capitalismo “in buona salute” sarebbe auspicabile in sé, anche tirando in ballo le tutt’altro che secondarie implicazioni di sostenibilità ambientale? Ecco perché più che di un sistema che vive una crisi da superare è il caso di parlare di una crisi da superare parallelamente al superamento del sistema – il sistema è la crisi – ed ecco perché, in altre parole, nel sottotitolo del suo ultimo libro Slavoj Zizek, avendo in mente la crisi ecologica non meno della crisi economica, giunge a domandarsi: «Il capitalismo sta per finire: e adesso?» (Cfr. S. Žižek, Vivere alla fine dei tempi, Ponte alle grazie, Milano, 2011). Nessuno oggi in coscienza è davvero in grado di fornire una risposta, eppure pian piano si vanno diffondendo fermenti ed istanze che rappresentano forse l’unica autentica speranza in grado di scongiurare la non lontana apocalisse con i suoi quattro cavalieri – che il filosofo sloveno identifica acutamente con «la crisi ecologica mondiale, le folli disparità economiche, la rivoluzione biogenetica e gli esplosivi conflitti sociali». Essa s’incarna nei movimenti Occupy che, a partire dal 15 maggio dello scorso anno a Madrid, si sono andati diffondendo praticamente in tutto il mondo, sia pure con alterne efficacie ed intensità; nelle loro rivendicazioni di libertà dal giogo della finanza e nelle loro istanze di riqualificazione dello spazio del politico e della sua autonomia; nel percorso della riappropriazione e della difesa dei beni comuni, materiali ed immateriali che siano, al di là dello sfruttamento intensivo del capitale e del dirigismo burocratico e per una gestione partecipata, ovvero per un esercizio della democrazia non più limitato alla scelta di un simbolo o di un volto, ma fondato innanzi tutto sulle decisioni dirette in merito alle questioni concrete della vita delle comunità, nella prospettiva di oltrepassare il dualismo tipicamente novecentesco tra individuo e società per tendere, secondo il celebre slogan zapatista – e quello zapatista è non a caso il primo movimento rivoluzionario dell’era postbipolare -, verso «un mondo in cui molti mondi siano possibili». Una sorta di metafora di tale paradigma è peraltro individuabile nel display stesso della mostra, ove ogni artista è appunto chiamato a fornire un suo contributo personale – una stampa, una foto, un disegno, un oggetto… -, ma anche a ricondurlo entro un ambito di significazione più ampio, realizzando in tal modo un’opera che è individuale e collettiva insieme o forse non è né l’uno né l’altro, ma semplicemente comune.

Stefano Taccone