venerdì 9 dicembre 2016

ENZO CALIBÈ - La sparizione della natura

(Dal catalogo della mostra personale di Enzo Calibè dal titolo A Landscape is a Landscape is a Landscape..., ospitata presso la Galleria E23 di Napoli dal 14 settembre al 7 dicembre 2016).

Per Enzo Calibè non c’è distinzione tra arte e vita, ma in una accezione molto diversa dalla continuità arte-vita cui le avanguardie hanno alluso. Tutto nasce da un profondo amore per la natura nella sua totalità, per tutte le specie che la compongono, e dall’intuizione di essere, in quanto uomo, parte integrante di essa, ma anche da una altrettanto profonda pulsione verso la creatività, come attitudine che se da una parte si aggiunge alla natura – così, secondo Van Gogh, sorgerebbe l’arte - dall’altra pure dalla natura stessa deriva. Da qui però anche un sentimento di grande sconforto e turbamento, prodotto dalla coscienza di come gli uomini stessi – nessuno escluso, neanche l’artista, il curatore o il gallerista – siano oggi più o meno consapevolmente risucchiati in un meccanismo che violenta e depreda la biosfera e si sta già rivoltando loro contro. Lo stesso armamentario linguistico e comunicativo attraverso il quale negli scorsi decenni l’ecologia ha tentato di fronteggiare il potenziale distruttivo di uno sviluppo insostenibile appare oggi completamente sussunto dai guru del marketing, che si sono inventati «l’impossibile capitalismo verde».[1]


Scomposizione di un miraggio
, 2016, photo Danilo Donzelli.

L’incontro tra sensibilità etico-ambientale ed estetico-creativa si risolve così per Enzo, ormai da diversi anni, nella messa a punto di un controdiscorso che possa contribuire minimamente a disinnescare tale incanto, fin troppo consolante nella sua problematica prospettiva di essere “ecologicamente corretti” pur mantenendo i medesimi stili di vita. Le sue indagini, avvalendosi di differenti media e linguaggi, dimostrano quanto l’immagine del paesaggio naturale sia oggi fondamentale per le strategie pubblicitarie e comunicative in generale, ma anche come, in tal modo, la natura stessa si sia tramutata in un mero segno senza contenuto. La natura reale – quella che si tocca e si odora perché ha uno spessore ed una fragranza, oltre che un’immagine da contemplare – è così baudrillardianamente scomparsa a causa della iperproduzione delle sue immagini mediate, immagini che possiedono la medesima (non) verità della grande narrazione postmoderna della green economy.


Senza titolo (Ecobusiness Landscape), 2016, photo Danilo Donzelli.

Un video come De-branding, ottenuto montando insieme spot pubblicitari che si avvalgono di immaginari naturalistici e cancellando i riferimenti visivi specifici del prodotto, consta di poco più di otto minuti, ma si ha l’impressione che sarebbe stato possibile trovare materiale sufficiente da farlo durare ore. Il collage Senza titolo (Ecobusiness Landscape), costituito da immagini pubblicitarie prese da riviste ed ugualmente improntate al motivo naturalistico cui, oltre al riferimento alla merce reclamizzata, è sottratta ogni figura umana, misura poco più di due metri di altezza per quasi quattro metri di larghezza, ma plausibilmente potrebbe continuare per chilometri e chilometri. La serie di disegni dai quali deriva il titolo dell’intera mostra, A landscape is a landscape is a landscape…, ove tablet, fotocamere ed altri apparecchi elettronici inquadrano brani di paesaggio, non superano i dieci esemplari, eppure esemplificano una operazione che l’uomo contemporaneo esegue a ripetizione, intendendola peraltro non di rado in contrapposizione alla semplice esperienza del consumatore passivo di immagini che era tipica dell’era precedente all’avvento del web 2.0, in quanto lo muterebbe in produttore del suo stesso immaginario, ma egli non si accorge che quante più immagini si traggono dalla natura tanto più essa sembra perdere la sua possibilità di essere esperita autenticamente.


Da sinistra A landscape is a landscape is a landscape…, 2016; Inventario della scomparsa, 2016,  photo Danilo Donzelli.


I numerosi registri di foto su carta fujifilm sovrapposti a seconda dei colori, nient’altro che screensaver a “soggetto naturalistico”, di Inventario della scomparsa ribadiscono tale drammatica eclissi, giacché finisce per essere come dire che non può esistere alcun elemento della natura – sia esso un fiore, un frutto, una foglia… - il cui colore non risulti assimilabile ad uno di quelli presenti nella gamma della stampa industriale. Né una morale differente si evince dalle quattro stampe su plexiglass di Scomposizione di un miraggio, asciutta dimostrazione di come un’immagine di paesaggio non corrisponda ad altro che alla sovrapposizione di quattro macchie monocrome. Se il paesaggio è ormai così evanescente, qualcosa di simile ad un ologramma, ad un inganno ottico, ad una nostra proiezione radicata in un passato che non è più, non resta che giungere alla conclusione che «la scoperta non consiste nella ricerca di NUOVI PAESAGGI, ma nell'avere NUOVI OCCHI», come recita la scritta bianca su muro bianco che completa il percorso espositivo, originariamente un aforisma di Marcel Proust, ma scelto dall’artista in quanto adoperato come slogan pubblicitario dal portale di un travel magazine. L’accezione positiva che in fondo esso possiede sia in quest’ultima veste che nello scrittore francese si tramuta qui evidentemente in una rinnovata asserzione sull’inconsistenza della realtà di ciò che si vede, giacché come, secondo lo strutturalismo, quando pensiamo è la nostra mente, piuttosto che un determinato elemento esterno, il vero oggetto del nostro pensiero, così quando guardiamo non facciamo che guardare, per così dire, i nostri occhi.


 La scoperta non consiste nella ricerca di NUOVI PAESAGGI, ma nell'avere NUOVI OCCHI, 2016,  photo Danilo Donzelli.


Il motivo della derealizzazione in ambito artistico – quasi superfluo notarlo - trova non solo un illustre precedente, ma proprio il suo emblema in Andy Warhol e la stessa, più specifica, riflessione sul paradossale divenire artificiale della natura potrebbe farsi risalire alle sue serigrafie di fiori. Le strategie linguistiche di Enzo – benché mi rendo conto che di primo acchito tale affermazione possa apparire persino blasfema, tanto nei confronti dell’uno quanto nei confronti dell’altro - non sono in verità lontanissime da quelle dell’artista americano. Anche Enzo infatti esplora i mezzi linguistici che restituiscono la realtà nel momento stesso in cui decretano la sua morte. Il vero scarto non sta tanto nel fatto che quest’ultimo sia interessato solo al paesaggio e non a tutti gli altri elementi e fenomeni che animano il mondo e tanto meno nella ovvia circostanza per cui, a distanza di oltre cinquant’anni, i media si siano evoluti. La sua attitudine è intanto improntata ad un continuo variare delle soluzioni mediali, laddove Warhol, in piena conformità con il suo programma, cambia continuamente l’oggetto ritratto ma mai la tecnica, giacché se quest’ultimo dimostra la riduzione del molteplice ad uno, Enzo mette sotto accusa come questa riduzione finga di mantenere ancora il molteplice ed anzi persino di allargarlo. Nulla in lui – neanche a dirlo – vi è del cinismo warholiano, del mero attestarsi ad una vita di superficie, ma come Guy Debord, a differenza di Jean Baudrillard, parla di dominio totale dello spettacolo, ma non crede davvero che al di sotto di esso non si celi la vita mortificata, così Enzo non crede in una letterale sparizione della natura, ma piuttosto in un nefasto allontanamento dell’uomo da essa e nell’apocalittico monito beuysiano che di tale scissione prende atto: «Se gli uomini non possono far altro che rimanere imprigionati nella loro stupidità, se si rifiutano di dare considerazione all’intelligenza della natura e se si rifiutano di mostrare una capacità di entrare in rapporto di collaborazione con la natura, allora la natura farà ricorso alla violenza per costringere gli uomini a prendere un altro corso. Siamo giunti ad un punto in cui dobbiamo prendere una decisione. O lo faremo, o non lo faremo. E se non lo faremo ci troveremo a fronteggiare una serie di enormi catastrofi che si abbatteranno su ogni angolo del pianeta».[2] 

Stefano Taccone





[1] Cfr. D. Tanuro, L'impossibile capitalismo verde. Il riscaldamento climatico e le ragioni dell'eco-socialismo, edizioni Alegre, Roma, 2011.
[2] J. Beuys, Difesa della natura, Edizioni Il Quadrante, Torino, 1984, citato in Joseph Beuys. Diary of Seychelles. Difesa della Natura, catalogo della mostra, Rocca Paolina, Perugia, 29 giugno – 21 agosto, Charta, Milano, 1996, pp. 67-68.

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