(Dal catalogo della mostra personale di Enzo Calibè dal titolo A Landscape is a Landscape is a Landscape..., ospitata presso la Galleria E23 di Napoli dal 14 settembre al 7 dicembre 2016).
Per
Enzo Calibè non c’è distinzione tra arte e vita, ma in una accezione molto
diversa dalla continuità arte-vita cui le avanguardie hanno alluso. Tutto nasce
da un profondo amore per la natura nella sua totalità, per tutte le specie che
la compongono, e dall’intuizione di essere, in quanto uomo, parte integrante di
essa, ma anche da una altrettanto profonda pulsione verso la creatività, come
attitudine che se da una parte si aggiunge alla natura – così, secondo Van Gogh, sorgerebbe l’arte - dall’altra
pure dalla natura stessa deriva. Da qui però anche un sentimento di grande
sconforto e turbamento, prodotto dalla coscienza di come gli uomini stessi –
nessuno escluso, neanche l’artista, il curatore o il gallerista – siano oggi più
o meno consapevolmente risucchiati in un meccanismo che violenta e depreda la
biosfera e si sta già rivoltando loro contro. Lo stesso armamentario
linguistico e comunicativo attraverso il quale negli scorsi decenni l’ecologia
ha tentato di fronteggiare il potenziale distruttivo di uno sviluppo insostenibile
appare oggi completamente sussunto dai guru del marketing, che si sono
inventati «l’impossibile capitalismo verde».[1]
Scomposizione di un miraggio, 2016, photo Danilo Donzelli. |
L’incontro tra sensibilità etico-ambientale ed
estetico-creativa si risolve così per Enzo, ormai da diversi anni, nella messa
a punto di un controdiscorso che possa contribuire minimamente a disinnescare
tale incanto, fin troppo consolante nella sua problematica prospettiva di
essere “ecologicamente corretti” pur mantenendo i medesimi stili di vita. Le
sue indagini, avvalendosi di differenti media e linguaggi, dimostrano quanto
l’immagine del paesaggio naturale sia oggi fondamentale per le strategie
pubblicitarie e comunicative in generale, ma anche come, in tal modo, la natura
stessa si sia tramutata in un mero segno senza contenuto. La natura reale –
quella che si tocca e si odora perché ha uno spessore ed una fragranza, oltre
che un’immagine da contemplare – è così baudrillardianamente scomparsa a causa
della iperproduzione delle sue immagini mediate, immagini che possiedono la
medesima (non) verità della grande narrazione postmoderna della green economy.
Senza titolo (Ecobusiness Landscape), 2016, photo Danilo Donzelli. |
Un
video come De-branding, ottenuto
montando insieme spot pubblicitari che si avvalgono di immaginari naturalistici
e cancellando i riferimenti visivi specifici del prodotto, consta di poco più
di otto minuti, ma si ha l’impressione che sarebbe stato possibile trovare
materiale sufficiente da farlo durare ore. Il collage Senza titolo (Ecobusiness Landscape), costituito da immagini
pubblicitarie prese da riviste ed ugualmente improntate al motivo naturalistico
cui, oltre al riferimento alla merce reclamizzata, è sottratta ogni figura
umana, misura poco più di due metri di altezza per quasi quattro metri di
larghezza, ma plausibilmente potrebbe continuare per chilometri e chilometri. La
serie di disegni dai quali deriva il titolo dell’intera mostra, A landscape is a landscape is a landscape…,
ove tablet, fotocamere ed altri apparecchi elettronici inquadrano brani di
paesaggio, non superano i dieci esemplari, eppure esemplificano una operazione
che l’uomo contemporaneo esegue a ripetizione, intendendola peraltro non di
rado in contrapposizione alla semplice esperienza del consumatore passivo di
immagini che era tipica dell’era precedente all’avvento del web 2.0, in quanto
lo muterebbe in produttore del suo stesso immaginario, ma egli non si accorge
che quante più immagini si traggono dalla natura tanto più essa sembra perdere
la sua possibilità di essere esperita autenticamente.
Da sinistra A landscape is a landscape is a landscape…, 2016; Inventario della scomparsa, 2016, photo Danilo Donzelli.
I
numerosi registri di foto su carta fujifilm sovrapposti a seconda dei colori, nient’altro
che screensaver a “soggetto naturalistico”, di Inventario della scomparsa ribadiscono tale drammatica eclissi,
giacché finisce per essere come dire che non può esistere alcun elemento della
natura – sia esso un fiore, un frutto, una foglia… - il cui colore non risulti
assimilabile ad uno di quelli presenti nella gamma della stampa industriale. Né una morale
differente si evince dalle quattro stampe su plexiglass di Scomposizione di un miraggio, asciutta dimostrazione di come
un’immagine di paesaggio non corrisponda ad altro che alla sovrapposizione di
quattro macchie monocrome. Se il paesaggio è ormai così evanescente, qualcosa
di simile ad un ologramma, ad un inganno ottico, ad una nostra proiezione
radicata in un passato che non è più, non resta che giungere alla conclusione
che «la scoperta non consiste nella ricerca di NUOVI PAESAGGI, ma nell'avere NUOVI
OCCHI», come recita la scritta bianca su muro bianco che completa il percorso
espositivo, originariamente un aforisma di Marcel Proust, ma scelto
dall’artista in quanto adoperato come slogan pubblicitario dal portale di un
travel magazine. L’accezione positiva che in fondo esso possiede sia in
quest’ultima veste che nello scrittore francese si tramuta qui evidentemente in
una rinnovata asserzione sull’inconsistenza della realtà di ciò che si vede,
giacché come, secondo lo strutturalismo, quando pensiamo è la nostra mente, piuttosto
che un determinato elemento esterno, il vero oggetto del nostro pensiero, così
quando guardiamo non facciamo che guardare, per così dire, i nostri occhi.
La scoperta non consiste
nella ricerca di NUOVI PAESAGGI, ma nell'avere NUOVI OCCHI, 2016, photo Danilo Donzelli.
Il
motivo della derealizzazione in ambito artistico – quasi superfluo notarlo - trova
non solo un illustre precedente, ma proprio il suo emblema in Andy Warhol e la
stessa, più specifica, riflessione sul paradossale divenire artificiale della
natura potrebbe farsi risalire alle sue serigrafie di fiori. Le strategie
linguistiche di Enzo – benché mi rendo conto che di primo acchito tale
affermazione possa apparire persino blasfema, tanto nei confronti dell’uno
quanto nei confronti dell’altro - non sono in verità lontanissime da quelle
dell’artista americano. Anche Enzo infatti esplora i mezzi linguistici che
restituiscono la realtà nel momento stesso in cui decretano la sua morte. Il
vero scarto non sta tanto nel fatto che quest’ultimo sia interessato solo al
paesaggio e non a tutti gli altri elementi e fenomeni che animano il mondo e
tanto meno nella ovvia circostanza per cui, a distanza di oltre cinquant’anni,
i media si siano evoluti. La sua attitudine è intanto improntata ad un continuo
variare delle soluzioni mediali, laddove Warhol, in piena conformità con il suo
programma, cambia continuamente l’oggetto ritratto ma mai la tecnica, giacché se
quest’ultimo dimostra la riduzione del molteplice ad uno, Enzo mette sotto
accusa come questa riduzione finga di mantenere ancora il molteplice ed anzi
persino di allargarlo. Nulla in lui – neanche a dirlo – vi è del cinismo warholiano,
del mero attestarsi ad una vita di superficie, ma come Guy Debord, a differenza
di Jean Baudrillard, parla di dominio totale dello spettacolo, ma non crede
davvero che al di sotto di esso non si celi la vita mortificata, così Enzo non
crede in una letterale sparizione della natura, ma piuttosto in un nefasto
allontanamento dell’uomo da essa e nell’apocalittico monito beuysiano che di
tale scissione prende atto: «Se gli uomini non possono far altro che rimanere
imprigionati nella loro stupidità, se si rifiutano di dare considerazione
all’intelligenza della natura e se si rifiutano di mostrare una capacità di
entrare in rapporto di collaborazione con la natura, allora la natura farà
ricorso alla violenza per costringere gli uomini a prendere un altro corso.
Siamo giunti ad un punto in cui dobbiamo prendere una decisione. O lo faremo, o
non lo faremo. E se non lo faremo ci troveremo a fronteggiare una serie di
enormi catastrofi che si abbatteranno su ogni angolo del pianeta».[2]
Stefano Taccone
[1] Cfr. D. Tanuro, L'impossibile capitalismo verde. Il
riscaldamento climatico e le ragioni dell'eco-socialismo, edizioni Alegre,
Roma, 2011.
[2] J. Beuys, Difesa della natura, Edizioni Il Quadrante, Torino, 1984, citato in
Joseph
Beuys. Diary of Seychelles. Difesa
della Natura, catalogo della mostra, Rocca Paolina, Perugia, 29
giugno – 21 agosto, Charta,
Milano, 1996, pp. 67-68.
Bravi! Saluti da Rijeka!
RispondiEliminaSF-SN!