giovedì 19 febbraio 2015

L’INTERNAZIONALE SITUAZIONISTA E LA SUA (IN)ATTUALITÀ - Qualche spunto di riflessione a tutto campo

L’Internazionale Situazionista e la sua attualità è il sottotitolo sia del ciclo di seminari Far retrocedere dappertutto l’infelicità - da me curato presso il BAD Museum di Casandrino (NA) nella prima parte del 2013 -, sia del volume Contro l’infelicità (Ombre Corte, 2014), che da quei seminari è derivato.


I fondatori dell'Internazionale Situazionista 
a Cosio di Arroscia, nell'aprile del 1957. 
Da sinistra a destra:
Pinot Gallizio, Piero Sismondo,, Elena Verrone,
Michèle Bernstein, Guy Debord, Asger Jorn e Walter Olmo.
Entrambi i titoli hanno dato – e danno - adito ai fraintendimenti di chi - per quanto riguarda il primo - non solo non si sofferma sul comunicato - ove troverebbe chiaramente spiegato che l’espressione è tratta da uno scritto di Guy Debord del 1957[1] e tale ancoraggio è fondamentale -, ma probabilmente tralascia anche il sottotitolo – altrimenti intuirebbe che quella sorta di slogan vuole essere una sintesi dell’intero messaggio dell’I.S. – e di chi – per quanto riguarda il secondo – non solo tende a non comprende che si tratta di una abbreviazione del primo titolo - resa necessaria da esigenze editoriali -, ma anche a concentrarsi ancora una volta impropriamente su di esso quasi il volume fosse un prontuario per scacciare la depressione.



Ma oggetto di imprecisa interpretazione è stato ed è parimenti il sottotitolo in sé, troppo spesso percepito come una asserzione perentoria, quasi espressione di una radicata ma inopportuna mitizzazione – che non appartiene né a me e né a nessuno di coloro che ha partecipato al progetto -, come se assai ingenuamente si volesse sostenere che l’Internazionale Situazionista ha prefigurato l’intero mondo di oggi e dunque per elaborarne una sua critica o almeno per giungere ad una sua comprensione è necessario riempirsi la bocca di citazioni da Debord, da Vaneigem o da qualche altro situazionista, senza peraltro spesso e volentieri aver realmente compreso e fatto proprio il loro pensiero. Vice versa, per quanto mi riguarda, l’intuizione di una attualità del movimento – che è persino, ormai da tempo, divenuta un luogo comune – non era più marcata di una mera interrogazione su di essa, in quanto deciso  a ricercare – insieme agli altri personaggi coinvolti - ove, se e quando essa sussistesse davvero, ma pronto anche a riconoscere  - ove, se e quando necessario – la sua eventuale vacanza.

Finalmente – è vero – l’intuizione dell’attualità – ha ricevuto numerose e reiterate conferme da parte dei pur tra loro assai diversissimi autori. Da Sergio Ghirardi, il quale del resto da lungo tempo scommette sull’ipotesi che «l’eredità del movimento situazionista possa ancora contribuire, post festum, con le sue sensibilità, le sue derive, la sua psicogeografia, la sua voglia di un colpo di mondo contro tutti i colpi di Stato e, soprattutto, con la sua poetica radicalità, alla festa di una democrazia reale – diretta e consiliare – che potrebbe ancora seppellire il vecchio mondo, oltre ogni militantismo, con il ritmo gioioso di una risata collettiva internazionalmente organizzata»[2], ad Enea Bianchi, il quale riconduce «le relazioni in cui manca il contatto umano, cioè quello non mediato dalla protezione atrofizzante di uno schermo» - condizione tipica dei social network – all’espressione vaneigemiana “Non c’è di comunitario che l’illusione di essere insieme”.[3] Da Anselm Jappe, per il quale «Quello che importa oggi non è ammirare acriticamente l’Internazionale Situazionista, ma conoscere la sua critica che può offrirci gli strumenti intellettuali per comprendere la società capitalista»[4] allo stesso Mario Perniola, che oggi rileva in particolare «l’attenzione che egli (Debord) dedica nel testo Le planète malade (1971) alle trasformazioni del capitalismo», non più in grado di «”sviluppare le forze produttive […] qualitativamente, ma solo quantitativamente”». Per Perniola – non presente nel volume, ma tra i relatori del ciclo di seminari – se oggi avverrebbe infatti «proprio ciò che Debord ha descritto: per la società dello spettacolo “solo il quantitativo è il serio, il misurabile, l’effettivo; il qualitativo non è che l’incerta decorazione soggettiva o artistica del vero reale stimato al suo vero prezzo”», ritornare a «puntare sul qualitativo» costituirebbe invece -allorché «la spinta progressiva da cui (il capitalismo) è nato e che ha ancora mantenuto fino agli anni Settanta del Novecento si è completamente esaurita» -«l’unica strategia possibile».[5]


Guy Debord, Superamento dell'arte - Serie delle direttive, 1963.

Il mio punto di vista su tale dilemma, pur assumendo buona parte delle considerazioni succitate in favore dell’attualità e non sposando, vice versa, altre considerazioni connesse all’inattualità – non mi convince, ad esempio la tesi dell’obsolescenza del conflitto tra borghesia e proletariato, che, ancora per Perniola, sulla scorta di quanto teorizzato da Boltanski e Chiapello in Le Nouvel esprit du capitalisme (1999), sarebbero categorie entrambe scomparse – non protende tuttavia inequivocabilmente per la prima ipotesi, come invece spesso molti da me mi pare si attendano.



Guy Debord, Realizzazione della filosofia - Serie delle direttive, 1963.

L’Internazionale Situazionista è per me - nel bene o nel male - inattuale quando i lavoratori sottopagati, cassintegrati o licenziati richiamano alla “responsabilità” il padrone e parlano di “dignità del lavoro”, di “lavoro che nobilita l’uomo”, obliando completamente che è esistita una lotta contro il lavoro salariato, rimpiazzandola piuttosto con quella per il lavoro ben salariato. Quando tanti compagni che pure si dicono “per un altro mondo possibile” si oppongono giustamente all'austerità, ma paiono farlo proiettati verso uno scenario che nella migliore delle ipotesi condurrebbe ad un comunismo dei consumi e lascerebbe quindi inalterate le dinamiche del lavoro alienato, nonché quelle dello sfruttamento selvaggio della biosfera, che davvero non ne può più – ed anche Tsipras, Iglesias su questo punto non mi pare siano sempre così chiari. Quando i giovani artisti aspirano ad entrare in scuderie importanti ed a vincere premi prestigiosi, puntano a diventare grandi artisti nella pura accezione di celebri o addirittura costosi o anche solo a vivere del lavoro che fanno – e per questo escogitano rivendicazioni parasindacali, che, almeno nelle arti visive ed almeno in Italia falliscono puntualmente -, ed intendono infine tutte queste belle cose come fini e non come mezzi.


Guy Debord, Non lavorate mai, 1963.
L’Internazionale Situazionista è per me – sempre nel bene o nel male – attuale quando pensare di tornare al “compromesso tra capitale e lavoro” dei primi decenni del dopoguerra si rivela in tutto il suo anacronismo - oltre che nella sua non particolarmente alta ambizione -, giacché nessuno ferma il padrone nella sua delocalizzazione permanente «dove i diritti non valgono un cazzo, dove è ancora più infame il potere del palazzo» (99 Posse). Allora la radicalità è buon senso, mentre il “centrismo” si rivela come autentico estremismo. Quando Naomi Klein ci ricorda come difficilmente «avere in tasca qualche dollaro in più possa fare molta differenza quando la vostra città finirà sott’acqua»[6] e ritornano così all’orecchio le parole di Debord sul qualitativo, che già nel 1971 mettono in scacco l’ideologia - trasversale ai due blocchi - del produttivismo e svelano la non coincidenza tra crescita del P.I.L. e crescita del benvivere. Quando si trova tanta prosaicità in ciò che è arte, ma anche tanta poesia in ciò che non è arte. Quando, come a Tristan Tzara, l’arte appare molto meno interessante della vita, ma a provare tale sensazione sono proprio i più innamorati dell’arte, così come, secondo Mario De Micheli, nei dadaisti «non-credenti abitava, segreta, un’esasperata volontà di credere»[7] - e sarà, del resto, solo un semplice caso se il primo dadaista, Hugo Ball[8], è un “cattodadaista”? Quando l’impulso artistico sbocca insomma nella costruzione creativa del vivere.

Stefano Taccone


P.S.: È probabile che qualcuno, per diversi motivi, sarà infastidito da uno o più dei miei passaggi, specie negli ultimi due capoversi. Ma per queste persone ho in serbo una buona notizia: non bisogna necessariamente tradurre il lascito dell’Internazionale Situazionista nella propria vita presente. Non l’ha ordinato il medico! Si può anche decidere di essere consapevolmente antisituazionisti, laddove oggi i più genuini eredi dei situazionisti ho l’impressione che siano - in gran parte - tali inconsapevolmente.




[1] G. Debord, Rapporto sulla costruzione delle situazioni e sulle condizioni dell’organizzazione e dell’azione della tendenza situazionista internazionale (1957), trad. it., Nautilus, Torino, 2007. Pubblicato a Parigi nel giugno del 1957 si tratta peraltro del documento preparatorio per  la conferenza di unificazione tra Internazionale Lettrista, Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista e Comitato psico-geografico di Londra che si tiene il mese seguente – 28 luglio 1957 - a Cosio d’Arroscia in Liguria e dà vita all’Internazionale Situazionista.
[2] S. Ghirardi, Commenti in margine al crollo di un mondo, in S. Taccone (a cura di), Contro l'infelicità. L'Internazionale Situazionista e la sua attualità, Ombre Corte, Verona, 2014, pp. 59-60.
[3] E. Bianchi, L’illusione di essere insieme, in ivi, p. 43.
[4] A. Jappe, La critica dello spettacolo è una critica del capitalismo? Debord interprete di Marx, in ivi, p. 43.
[5]  M. Perniola, Considerazioni sulla riuscita del movimento situazionista, in Id., L’avventura situazionista. Storia critica dell’ultima avanguardia del XX secolo, Mimesis, Sesto san Giovanni (MI), 2013, pp. 29-30.
[6] N. Klein, This Changes Everything. Capitalism vs. The Climate (2014), trad. It., Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile, Rizzoli, Milano, 2015, p. 12.
[7] M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano, 1986, p. 173.
[8] Sul complesso, forse anche contraddittorio, profilo di Hugo Ball cfr. L. Mancinelli, La fuga dal linguaggio. Hugo Ball, in Id., Il messaggio razionale dell’avanguardia, Giulio Einaudi editore, Torino, 1978, pp. 34-49 ed il suo stesso diario, H. Ball, Fuga dal tempo. Fuga saeculi (1927), trad. it., Campanotto Editore, Paisan di Prato (UD), 2006.

2 commenti:

  1. Non sono un esperto, ma trovo agile e coinvolgente il linguaggio che usi. Per quello che riesco a capire, poi, gli ultimi due capoversi non m'infastidiscono. Li condivido.

    RispondiElimina
  2. Grazie Giuseppe! Soltanto ora mi accorgo del tuo commento! Spero ci sia occasione prima o poi di incrociarci!

    Stefano

    RispondiElimina