(Testo distribuito in occasione della mostra personale di Katia Alicante "Wei-ji", da me curata presso il Di.St.Urb di Scafati dal 21 ottobre all'11 novembre 2012).
“Voi
la crisi, noi la speranza”: questo lo slogan che nel luglio 2011 accompagna le
iniziative dei movimenti in occasione del decennale dei fatti del G8 di Genova,
proprio in un momento in cui - dall’epifania degli indignados spagnoli di due
mesi prima ad Occupy Wall Streat ed a tutte le esperienze affini che si
propagheranno due mesi dopo un po’ in ogni parte del mondo – l’altermondismo
sembra stia tornando con un’intensità che non si vede appunto dai tempi dell’
“era no global”. Benché – ne sono convinto – nulla passi senza lasciare una
traccia, le imponenti sollevazioni del 99% dell’umanità, avendo raggiunto il
loro acme nell’autunno del 2011, entrano nella fase del riflusso con una
rapidità ancora maggiore rispetto al passato ed ancora una volta senza per lo
più trovare sbocchi costituenti, perdendo sostanzialmente la prova di forza con
le ragioni dei cosiddetti “mercati”, i nuovi dei cui i governi nazionali
offrono in olocausto le vite dei propri cittadini per placare la loro ira – che
non si manifesta più attraverso grandi catastrofi naturali, cui pure più che
nel passato andiamo incontro, bensì attraverso l’impennarsi dello spread.
Katia Alicante, per la quale
ricerca visiva, interrogazione sulla dimensione socio-politica e percorso
spirituale interiore si intrecciano costantemente ed inevitabilmente, ci
propone una sorta di immersione polifonica in quelli che sono stati gli scenari
ed i dibattiti di questi ultimi anni, a partire dallo scoppio della recessione nel
2008 all’insegna del continuo oscillare tra pericolo ed opportunità, ovvero le
due accezioni con le quali è possibile tradurre il termine che in cinese
designa la parola crisi, una scelta che se da una parte rimanda alla centralità
economica e quindi geopolitica che la Cina ha progressivamente assunto in
questi ultimi anni nel contesto mondiale, dall’altra suggerisce anche il concetto
della antica filosofia cinese della convivenza alternata degli opposti, ovvero quello
di Yin e Yang. La considerazione della successione tra giorno e notte, dalla
quale probabilmente tale concetto deriva, non impedisce però a Katia di
sciogliere il suo dualismo in una sorta di teleologia positiva, in un
metaforico sole - non immune da un sottile eco di quello che una volta si era
soliti chiamare “sole dell’avvenire”, ma col quale ora abbiamo qualche problema
a relazionarci. Intenzionalmente essenziale sul piano della grafica, data la
volontà esplicita di rifarsi alle modalità comunicative tipiche di alcuni
gruppi pacifisti degli anni ottanta, esso appare segnato dal termine inglese Empowerment - inteso, spiega l’artista stessa, come
«accrescimento spirituale, politico, sociale o della
forza economica di un individuo o
una comunità, […] "sentire di avere potere" o "sentire
di essere in grado di fare", […] frutto del concorrere del senso di
padronanza e di controllo raggiunto dal soggetto (livello psicologico), e delle
risorse/opportunità offerte dall'ambiente in cui il soggetto vive» - e
circondato da raggi che sono altrettanti striscioni comunemente portati nei
cortei per dire no al nucleare, alla guerra, alle discariche, al precariato, ai
“sacrifici” a senso unico; per riaffermare oggi come ieri la fede in – e la
necessità di - “un altro mondo possibile”.
Stefano Taccone
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