L’artista, si sa, è figura inutile; è colui che porta l’utopia, il
desiderio, il sogno, il gioco, la beffa. È un errore sociale. A frequentare i rifiuti – forse solo a considerarli -, non
ci si allontana da essi intatti, immuni, né si resta come prima. Sappiamo anche
che essi sono un viluppo di simboli: sono rischio e fascinazione, catastrofe
annunciata e seduzione, bellezza del brutto e memoria dell’umano. Talvolta
sono il segno di una creatività minacciosa quanto ambigua, giacché l’immondizia
non è prevedibile e quindi non la si può eludere. Anarchico, il recupero delle
deiezioni o dei rottami da parte dei pittori scultori, fotografi è anche
un’utopia e, come tale, si coagula e si dissolve nel tempo: esso è come l’utopia,
infantile, irritante, salvifico. Noi gettiamo via le nostre tracce, l’arte ne
sbuccia l’aroma e ne suggerisce il destino.
Lea Vergine, Quando i rifiuti diventano arte
Nel solco di una tradizione ormai ultrasecolare - inaugurata da avanguardie storiche come il Cubismo, il Futurismo ed il Dadaismo per arrivare fino ai giorni nostri; senz’altro generata da affinità di sensibilità ed intenti, ma anche bisognosa di essere esplorata nelle varie e differenti accezioni che in essa trovano cittadinanza – si inscrive la mostra pseudocollettiva e pseudoretrospettiva di Giovanni Franco, allorché egli la fonda su due opere – sarei tentato, in considerazione della loro struttura e del loro autore, di definirle “iperopere” – in cui il rifiuto, essendo la materia prima, viene indagato tanto nella sua specifica fenomenologia, quanto in rapporto allo statuto dell’oggetto d’arte ed alla figura dell’artista e sceglie l’immagine della sua ombra – qualcosa di inutile, o apparentemente tale, al pari di un rifiuto, ma che, a differenza di esso, ci accompagnerà volenti o nolenti vita natural durante – per illustrare l’invito. Se peraltro la ricorrenza del rifiuto durante l’intero trentennio della ricerca di Franco si inscrive nella sua più generale tendenza a “ricondurre sulla terra” – come direbbe Walter Benjamin - l’oggetto d’arte – giacché ad una luce non differente va intesa, ad esempio, tutta la sua produzione prossima al paradigma del gadget -, la sua pressoché schizofrenica moltiplicazione di personalità artistiche, in quanto condotta accantonando consapevolmente ogni preoccupazione di riconoscibilità - fattore invece assolutamente indispensabile per il mercato -, costituisce probabilmente una delle poche autentiche ed attualmente realizzate deviazioni da quelle che sono le tipiche istanze del sistema relativamente alla figura del soggetto “produttore”.
Chi vive muore (particolari), 2012.
Sorta di archivio in progress – ma anche in regress, ogni qualvolta un pezzo viene venduto – del rifiuto, costruito catturando i linguaggi attraverso i quali il prodotto è solitamente confezionato per divenire merce – dalle sue implicazioni accattivanti a quelle paradossalmente dissuasorie, come avviene sui pacchetti di sigarette -, ma anche detournato in virtù della sostituzione del prodotto da consumare col prodotto consumato – conformemente ai modi più peculiari della firma-identità “sarajevo supermarket” –, è Chi vive muore, moderno memento mori volto ad additare la contraddittoria ed ambigua relazione vita-morte che pervade la società contemporanea, ove la morte è tabù innominabile, ma anche continuamente evocata, mentre la vita è spesso ritenuta piena se coincide con i piaceri, ma è proprio l’intensificazione di questi ultimi a condurla alla fine – e quindi alla morte. Con le loro sembianze enigmatiche, in quanto non immediatamente identificabili nella loro essenza ed origine, nonché per le loro fattezze spesso esteticamente gradevoli, i contenuti dei barattoli rischiano di possedere un appeal ancora maggiore delle merci reali, suggerendo tra l’altro la riflessione sull’affinità strutturale tra arte e rifiuto, entrambi “inutili” nell’ottica della teleologia economicista del capitalismo, ma entrambi da esso “recuperabili” entro il suo alveo - tanto nel segno di un abbinamento, quanto in rapporto ad i rispettivi business che notoriamente alimentano.
Gli aspetti del contemplativo e del finito che a conti fatti permangono nelle modalità di relazione al rifiuto adoperate in Chi vive muore sono posti in discussione con trash e no stars da tutti noi in famiglia, ove l’inerzia tipica del regalo-souvenir – che spesso non finisce nella spazzatura, o ci finisce più tardi, solo per una questione di pudore, creanza, educazione, ma il nostro hard disk mentale ha già provveduto a cestinarlo da tempo, giacché l’oggetto non rientra nel nostro immaginario, è dono di una persona che neanche ci ricordiamo più o che desideriamo dimenticare o, più semplicemente, già lo spazio e poco e sta lì a riempirsi solo di polvere – è fronteggiata attraverso il prezioso quanto inacquistabile ed inalienabile antidoto rappresentato dalla creatività che è propria dell’arte - al di là di ogni riconoscimento istituzionale - e costituisce il suo metodo privilegiato per esperire l’oggetto stesso, così come la realtà intera. Ognuno dei trenta oggetti incorniciati ed impacchettati – regali sottratti all’immondizia dunque – costituisce infatti un’opera in potenza, in quanto per l’artista – o meglio di volta in volta per uno dei membri della “famiglia di artisti” che alberga nel corpo di Giovanni Franco - stimolo originario allo sviluppo di un discorso che però non si è potuto – ancora - continuare per motivi logistici e si è pensato dunque di chiedere aiuto all’eventuale acquirente, il quale diventerà proprietario del pezzo solo se si impegnerà a supportare – economicamente - le successive fasi che condurranno al suo completamento, in un’ottica in cui la relazionalità dell’arte non afferisce più, come di consueto, alla totalità degli spettatori, ma, più specificamente, ai collezionisti, schivando tuttavia, per ragioni che a questo punto dovrebbero essere chiare, le tipiche connotazioni da merce di lusso che l’oggetto d’arte solitamente possiede – o quanto meno smorzandole.
Stefano Taccone
che bel testo!
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