Da S. Taccone, La contestazione dell'arte, Phoebus, Casalnuovo di Napoli, 2013, pp. 7-14.
Se un tale uomo viene da noi per mostrarci
la sua arte, ci metteremo in ginocchio davanti a lui, come davanti a un essere
raro e santo e dilettevole… L'ungeremo con la mirra e gli porremo un serto di
lana sulla testa, e lo manderemo via, in un'altra città.
PLATONE
Il presente studio mira a ricostruire e
mettere a fuoco una serie di esperienze artistiche che, svolgendosi lungo un
arco cronologico grosso modo compreso tra la metà del decennio sessanta e i
primi anni del decennio settanta in un’area che ha senz’altro nella città di
Napoli il principale focolaio, ma che interessa costantemente anche centri
limitrofi – Caserta e Scafati su tutti -, a differenza di quanto avverrà dopo
la metà degli anni settanta - allorché sarà la provincia ad essere il teatro
d’azione preponderante –, tendono, sia pure dimostrando modalità ed accezioni
talvolta anche molto differenti, ad eccedere lo spazio separato
tradizionalmente deputato al fenomeno artistico - ove l’arte, come afferma
Mario Perniola nel suo L’alienazione
artistica, che esce proprio in quegli anni (’71), è “significato senza
realtà” [1]
– affinché esso invada la vita e si identifichi il più possibile con
essa, riprendendo – è chiaro – quello che è il progetto delle avanguardie di
inizio secolo – almeno secondo una certa interpretazione e classificazione
delle avanguardie[2]
-, ma soprattutto in conformità con quella che è una temperie assolutamente
internazionale – europea, americana e non solo -, nonché con notevoli episodi
che interessano anche altri contesti italiani.
Tale compito storico-critico si rivela
oggi più che mai costellato di difficoltà ed inside e ciò non solo e non tanto
per l’esiguità – e non di rado la totale mancanza - di letteratura
sull’argomento e di documenti chiaramente comprovanti le dinamiche secondo cui
si sono svolti i fatti - circostanza che investe necessariamente di una
responsabilità maggiore rispetto al solito le testimonianze basate su ricordi
diretti, le quali spesso, un po’ a causa del numero dei decenni intercorsi, un
po’ a causa della più o meno conscia tendenziosità dei testimoni, ancora
fortemente coinvolti emotivamente, risultano assai divergenti e persino
contrastanti -, facendo sì che essi risultino talvolta non pienamente
carpibili. I problemi preliminari nascono bensì a fronte di una vulgata che –
non senza contraddizioni interne al suo discorso - vorrebbe tali vicende – ed
anche altre di cui qui non mi occupo, ma che sono comunque riconducibili
nell’alveo delle sperimentazioni d’avanguardia nel secondo dopoguerra in area
campana – scarsamente originali, irrilevanti, ritardatarie, vernacolari e/o
semplicemente inesistenti. La narrazione nettamente dominante, consolidatasi
probabilmente proprio nell’ultimo ventennio – quello delle installazioni di
Piazza Plebiscito, delle stazioni metropolitane dell’arte e dell’apertura di
due musei come il Madre ed il Pan – e assai spesso ripetuta in assoluta buona
fede, vuole infatti che se vi è stata una storia dell’arte contemporanea a
Napoli – sul fatto che si faccia riferimento sempre e solo al capoluogo e quasi
mai ad un circuito regionale pure ci sarebbe da riflettere – ciò è avvenuto
esclusivamente in virtù di pochi ed illuminati galleristi, che avrebbero
condotto la loro coraggiosa e pionieristica attività nella sostanziale
indifferenza delle istituzioni pubbliche e nell’iniziale estraneità di buona
parte della borghesia intellettuale, permettendo il frequente approdo in città
di alcuni tra i più prestigiosi esponenti delle avanguardie internazionali e
quindi, attraverso un paziente lavoro di decenni, riuscendo finalmente – o
almeno in parte – nell’impresa di educare ai linguaggi del contemporaneo il
pubblico napoletano.
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Giuseppe Desiato, Monumento effimero, 1965, stampa fotografica, Sorrento.
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Non è assolutamente mia intenzione – né qui,
né altrove – tentare un disconoscimento dell’importanza di certe gallerie per
l’affermazione dell’arte contemporanea a Napoli, ritenendo invece la loro
attività storicamente preziosa - benché non da osannare -, né di avanzare
argomenti come la subalternità al mercato straniero – in particolare
statunitense –; il carattere di mera importazione dell’attività espositiva; la
scarsa qualità delle opere esposte, in quanto parte della produzione meno
pregiata di artisti che considererebbero la piazza napoletana di rilevanza
secondaria; la conseguente scarsa propensione alla promozione di artisti del
territorio – fattori cui pure va riconosciuto un fondo di verità. Mi preme
piuttosto tirare fuori dall’oblio tutta una sequenza di situazioni che, pur
senza neanche esasperare troppo la frattura tra cultura “istituzionale” e
cultura “di base” - ché niente esiste mai allo stato puro - si situano appunto
su questo secondo versante, saldando naturalmente la tensione verso lo
sconfinamento nella vita, oltre i limiti angusti dei linguaggi meramente
simbolico-rappresentativi – pur non potendo in verità fare a meno di ricadere
il più delle volte in ogni caso nei domini del linguaggio e del simbolico –, da
parte di un’arte intesa in definitiva come strumento di intervento e
trasformazione sulla e della vita stessa, con il rifiuto degli spazi deputati,
della mercificazione dell’opera d’arte e della stesse identità dell’artista
come professionista e natura della pratica artistica come specialismo.
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Da sinistra Renato Brancaccio, Crescenzo Del Vecchio, Giuseppe Pappa, Antonio Davide, Giuseppe Desiato durante la mostra del Gruppo Studio Proposta 66 presso la galleria 1+1 di Padova, 1967.
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Tale proposito non scaturisce certo
dalla volontà di tessere un’acritica - ed in fin dei conti anche poco efficace
alla causa – apologia, tanto più dal momento che, come lo stesso lettore potrà
constatare, le contraddizioni e le debolezze non sono tralasciate o – peggio
ancora – occultate, ma analizzate con la maggiore serenità – ed onestà –
intellettuale possibile, nella consapevolezza che esse sono assolutamente
fisiologiche per ogni manifestazione umana – e la pratica artistica non è al di
fuori di queste – e qualsiasi tentativo di censura, anche qualora condotto con
un presunto fine benefico, equivale a dissipare quella che è persino una
ricchezza. La prospettiva ultima risiede piuttosto nel permettere una più
solida conoscenza dei fenomeni - prima ancora di tentarne una valutazione - e
quindi, tra l’altro, nel fornire elementi utili per delineare un quadro più ricco,
complesso ed articolato di quanto avviene a Napoli ed in Campania in due
decenni ancora assolutamente cruciali per il nostro presente.
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Prop-Art, Manifesto, 1973.
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Gli stessi parallelismi e comparazioni
con altre realtà d’avanguardia italiane, europee o americane – con le quali in
verità raramente sussiste un contatto diretto, benché talvolta esso possa anche
risultare strettissimo, come nel caso del Teatro Comunitario e del Living
Theatre –, che mi pare opportuno frequentemente rilevare, non possiedono la
funzione di certificare di per sé il valore degli esempi campani e tanto meno
di avanzare l’ipotesi una pari qualità ed importanza, bensì di suggerire come,
in un mondo incipientemente globalizzato, durante determinati snodi storici le
esigenze e le soluzioni dimostrino notevoli convergenze, anche qualora i
soggetti in questione, vivendo tra loro a migliaia di chilometri di distanza,
si ignorino, loro malgrado, reciprocamente. A tal proposito va constatato
immediatamente che se a quei tempi - come è noto - l’informazione d’arte possiede
una mole infinitamente minore rispetto all’odierna sovrapproduzione e la sua
trasmissione è molto più lenta ed esigua, la condizione specificamente
napoletana e campana in merito radicalizza naturalmente tale carenza rispetto
ai centri settentrionali e dunque gli artisti ivi residenti non possono che
cogliere - di quanto avviene a migliaia di chilometri di distanza - ciò che a
noi apparirebbero echi sbiadite.
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Teatro Comunitario, Liturgia liberatoria per scacciare il colera, 1975, azione urbana, centro storico di Napoli.
In un contesto del genere, definibile come
periferia dell’Occidente – come del resto è periferia la gran parte di esso -,
connotato dunque da un grado relativamente meno avanzato dello sviluppo
tecnico-industriale e da scambi culturali altrettanto relativamente meno ricchi
e frequenti, sarebbe non solo errato giudicarne la produzione artistica secondo
criteri assolutamente analoghi a quelli solitamente adottati per il centro, ma
anche innaturale qualora essa assomigliasse a tutto tondo a quella propria di
quest’ultimo, fattore che determinerebbe a ragione una percezione di non
congruità tra ambiente ed espressione ed in definitiva un sospetto di
travestitismo linguistico. La coesistenza contraddittoria – o apparentemente
tale - di forme ed atteggiamenti che possono percepirsi come legati ad una
poetica ancora troppo tradizionale, o comunque propria di una stagione che la
storia dell’arte contemporanea ufficiale ritiene generalmente superata in una
determinata epoca, con altri che invece risultano pressoché in linea con le
sperimentazioni considerate più avanzate – commistione che può avvenire non
solo tra artisti che pure condividono un progetto di gruppo comune, ma anche
all’interno della produzione di uno stesso artista o di una stessa opera - va
dunque intesa come una caratteristica fisiologicamente costitutiva e non come
una inspiegabile schizofrenia.
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Galleria Inesistente, Hic sunt leones, 1972, azione urbana, Piazza vittoria, Napoli.
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Assodato tale delicato aspetto, possiamo
finalmente tornare al discorso dell’integrazione tra arte e vita. La nozione
che più coerentemente mi pare accompagnare tale peculiare vocazione nel lasso
temporale che va dalla metà degli anni sessanta ai primi degli anni settanta in
area campana, il motore concettuale che prettamente mi pare innescare tale
slancio è la contestazione, termine
senz’altro caro in primis a Luigi
Castellano (Luca), personalità artistica che riveste, come vedremo, un ruolo
chiave nell’economia dell’intero studio, ma altrettanto indubbiamente ben
confacente a tutte le altre vicende qui analizzate. Non altrettanto si potrà
dire a partire dalla seconda metà degli anni settanta e fino alle soglie degli
anni ottanta, allorché il concetto più pregnante da associare alle ricerche tra
arte e vita si rivelerà invece, con ogni evidenza – ed in un’ottica di segno
chiaramente più “riformista”, quello della cooperazione,
sulla quale appunto si fonda quella tendenza generalmente detta arte nel sociale che – rinvenendo
proprio nei centri campani alcuni dei suoi più fervidi e vivaci episodi –
potrebbe essere intesa come scaturente proprio da una sorta di rovesciamento
delle attitudini contestatarie: è quello che avviene con Riccardo Dalisi al
Rione Traiano, esperienza che, pur collocandosi su di un piano strettamente
cronologico nel periodo della contestazione,
risulta già pienamente informata ai paradigmi della cooperazione ed anzi ad essa apre letteralmente la strada non solo
in Campania, ma in tutta Italia, ma questa è un’altra storia.
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Riccardo Dalisi, animazione al Rione Traiano, 1971-1975.
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La contestazione dell’arte diviene così
interpretabile in due differenti accezioni: come arte che si fa strumento di
contestazione – della società, della politica, dell’economia -, ma anche come
arte che contesta se stessa – il suo statuto mercantile, la sua stessa
fondazione come disciplina finalizzata alla separazione. Due possibilità che
non postulano però alcuna alternativa, ma sono al contrario continuamente
interrelate e direi persino inseparabili per una prassi che segua una logica
non parcellare. Tutto ciò in una dimensione ove non di meno l’arte vive
costantemente sulla soglia tra piena realizzazione e totale sparizione. «L’arte
nell’epoca della sua dissoluzione», scrive Guy Debord in La società dello spettacolo, «in quanto movimento negativo che
tende al superamento dell’arte in una società storica in cui la storia non è
ancora vissuta, è insieme un’arte del cambiamento e l’espressione pura
dell’impossibilità del cambiamento. Più la sua esigenza è grandiosa, più la sua
vera realizzazione è al di là di essa. Quest’arte è necessariamente d’avanguardia , e non è. La sua avanguardia è la sua scomparsa».[3]
Cfr. M. Perniola, L’alienazione artistica, Mursia, Milano,
1971.
Ad esempio P.
Bürger, Theorie der Avantgarde, 1974,
trad. it., a cura di R. Ruschi, Bollati Boringhieri, Torino, 1990.
G. Debord, La Societé du Spectacle, [1967], trad.
it., Baldini Castoldi Dalai, 2008, p. 166.