Stefano Taccone: Cara Giuliana, la prima considerazione che mi viene da formulare sul tuo lavoro ormai in progress è che esso costituisce una visualizzazione particolarmente compiuta del principio di identificazione tra personale e politico. Partendo infatti da un oggetto di carattere burocratico, eppure inscindibile dalla nozione di individuo, ed integrandone opportunamente i dati, ci fornisci delle indicazioni che riguardano pienamente la tua singola persona, ma sono anche in grado di trascenderla per rimandare ad una condizione più generale e dunque di carattere assolutamente politico. Sia con I miei anni invisibili che con la sua futura versione socializzata porti alla luce (è proprio il caso di dirlo) la contraddittorietà strutturale del sistema capitalista, infrangi quel delicato equilibrio tra detto e non detto sul quale esso da sempre si regge. Il binomio legalità-illegalità, oggi tanto in voga, possiede proprio tale funzione: occultare la sostanza effettiva dei conflitti. La dimensione della legalità infatti non è realmente in opposizione a quella dell’illegalità, ma la prima trova piuttosto nutrimento nella seconda, così come, secondo Rosa Luxemurg, il capitalismo non è in grado di prosperare facendo a meno di aree in cui le sue logiche non vigono. Esso ha un bisogno continuo di terre vergini da depredare. La sua natura infatti, parafrasando un recente saggio di Zygmunt Bauman che proprio sulla scorta della Luxemburg si muove, è indiscutibilmente parassitaria.
Giuliana Racco: Sì, sono pienamente d’accordo che l’illegalità faccia comodo al sistema della legalità e che il secondo, appunto, si nutra dal primo. Parto dalla mia esperienza individuale per giungere a una situazione che ipotizzo generale. È una mia modalità di lavoro, perché ritengo che l’esperienza è fondamentale, vivere le cose aiuta a percepirle, e per me il personale è assolutamente il politico. Sono da molto tempo interessata ai linguaggi scritti (e non solo), per me sono uno strumento utile all’osservazione. Nel mio lavoro sono alla base di buona parte della ricerca. Per esempio, in questo caso, trovo che il linguaggio burocratico sia una zona fertile per comprendere il funzionamento di una società, perché, appunto, tocca sia il singolo che la collettività.
Stefano Taccone: A proposito di linguaggio burocratico mi viene in mente un passaggio della prefazione dell’ultimo saggio di Michael Hardt e Toni Negri, Comune (2009), tradotto in italiano solo da pochi mesi, che chiude la trilogia iniziata con Impero (2000) e proseguita con Moltitudine (2004): «il nucleo della produzione biopolitica non è tanto la produzione di oggetti per il consumo dei soggetti, come la produzione di merci, ma la produzione della stessa soggettività». Se la produzione della soggettività informata alle logiche di dominio imperiale, per riflettere adoperando categorie tipiche dei due autori di cui sopra, ha non poco a che vedere con la produzione di linguaggi, l’arte, in quanto territorio di una peculiare intersezione tra linguaggio e realtà, può costituire un dispositivo di resistenza particolarmente opportuno.
Giuliana Racco: Credo dipenda da ciò che intendi per “resistenza” e per “dispositivo”. Anche se cerco di lavorare il più frequentemente possibile fuori dai canali tradizionali dell’arte, sono pienamente consapevole che ciò che realizzo raggiunge solo un certo pubblico. Ma senz’altro creare spazi di riflessione attraverso modalità che non sono possibili in altre forme è ciò che l’arte può e deve fare. Non vi è alcuna resistenza senza riflessione, consapevolezza o problematicità. Ciò che mi interessa più di ogni altra cosa è mettere in luce come i linguaggi che adoperiamo incidono sulle nostre realtà e le riflettono. Per esempio, nel progetto delle cartoline, ho analizzato i termini che erano entrati in uso nel corso del periodo del razionamento durante il delirante sogno autarchico di Mussolini, al fine di rintracciare come questi stessi termini in seguito caddero in disuso o furono alterati di significato. Pur affrontando un particolare momento storico, non credo che sia così lontano da quello che viviamo oggi. Pensa soltanto al modo in cui i termini sono attualmente manipolati dai media. In Survival English, attraverso un manuale che sembra insegnare la lingua dominante contemporanea mondiale (l’inglese), ho creato dei problemi/esercizi, a volte cinici a volte ludici, dal finale aperto e relativi a cinque principale moduli/soggetti. In Buongiorno (il fotoromanzo che ho realizzato in collaborazione con Matteo Guidi), entrando in una fabbrica “x” in Veneto (su commissione) e intervistando i vari lavoratori sulla questione del tempo, sono venute fuori molte cose interessanti circa la modalità in cui i lavoratori si sono espressi.
In quest’opera, il progetto CV, mi interessa ciò che scriviamo/raccontiamo noi stessi, come cambiamo in base ai differenti scopi. Vedo i CV come ritratti scritti, naturalmente ciò che essi mostrano è solo una parte di una persona – la sua vita lavorativa – ma questa è una parte importante della vita di molte persone, forse per alcuni la più importante. Basti pensare che, quando veniamo presentati a qualcuno, quest’ultimo ci chiede che lavoro facciamo. Ci viene costantemente chiesto di definirci in base alla nostra professione. Sto chiedendo alla gente di scrivere TUTTO su di un foglio di carta A4, di non tagliarlo ed adattarlo per soddisfare una qualche idea che un potenziale datore di lavoro può desiderare di vedere – tutto, per quello che uno può ricordarsi, su di un pezzo di carta, senza abbellimenti ed indicando realmente se era legale o meno, se si trattava di uno stage o anche di qualcosa di difficile da definire. Dunque si tratta di un dispositivo di resistenza? La gente ha reagito in maniera molto diversa a questa “chiamata ai CV”. Alcune persone dicono che le fa male pensare a tutto quello che hanno fatto e preferirebbero non guardare all’indietro e ricordare. Altri, invece, trovano l’esperienza utile, una sorta di riaccendersi della consapevolezza di quanto hanno fatto, come l’hanno fatto e le condizioni in cui essi hanno lavorato e vissuto. Così, in questo senso, lavorando sulla consapevolezza, in particolare attraverso l’esperienza personale, mettendo in discussione e minando il linguaggio tecnico-burocratico che adoperiamo per definire noi stessi, viene prodotta, credo, una certa resistenza, ma è una resistenza in forma libera ed astratta ed è molto differente da un’azione diretta organizzata e finalizzata.
CERCO CURRICULUM VITAE
Il 31 maggio si concluderà la raccolta del primo libro di ritratti in Curriculum Vitae.
Chiedo, a chiunque possa essere interessato a partecipare al compimento di questa opera,
di INVIARMI un CV con tutte le proprie esperienze lavorative (svolte in qualsiasi settore) esprimendo sia quelle in REGOLA che quelle in NERO.
Ogni CV sarà pubblicato ANONIMO (come anche i nomi dei datori di lavoro).
PER ULTERIORI INFORMAZIONI SCRIVETE A:
anni.invisibili@gmail.com
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