Il contesto sardo - tra i più martoriati e contraddittori d’Italia, ma anche assai meno sotto i riflettori rispetto ad altre aree critiche del nostro paese, fattore cui corrisponde, nel sentire della sua popolazione, un maggior distacco - e forse, potremmo dire, anche un disamore – rispetto allo Stivale, sfociante sovente non a caso in rivendicazioni indipendentiste non equamente riconducibili tout court, o almeno non sempre, a posizioni conservatrici o reazionarie - costituisce, parafrasando una celebre formula con la quale un artista come Hans Haacke che di analisi dei contesti politici ne sa qualcosa, l’autentica materia prima per gran parte del discorso che Pietro Mele va sviluppando in questi ultimi anni – in particolare, con una certa continuità, a partire dal 2008. Dal grave degrado ambientale e sociale prodotto dal polo industriale di Ottana (Ottana, 2008) alla goliardia vernacolare di due irrequieti giovinotti di provincia (Local boys, 2009); dall’amara archiviazione dei parchi eolici sardi, proliferanti a beneficio delle multinazionali, ma anche a scapito dell’economia locale (Theoretical wealth, 2009-), all’iniziativa di concreta riappropriazione collettiva di un territorio, l’isola di Budelli, che, in quanto parte dell’area protetta dell’arcipelago di La Maddalena, è detenuto da un privato illegittimamente (The Island Project, 2011-), la Sardegna appare costantemente l’autentico protagonista, il cardine attorno al quale ruotano le sue analisi dall’apparenza semplice e distaccata, ma in realtà scaturenti da un complesso lavoro di calibrazione del rapporto tra realtà e mediazione, nonché del gradiente di concentrazione linguistica – mantenuto per lo più su di una bassa polarità -, oltre che – inevitabilmente – prodotto di un inestirpabile legame affettivo – ancorché probabilmente funestato dal trauma e misto a repulsione e terrore non sempre emergenti ad un livello pienamente conscio – con la sua terra d’origine. E chissà se la politezza delle sue presentazioni e la sua concezione conchiusa del processo di visualizzazione – per cui ogni sua opera, a meno che non possieda un carattere strutturalmente in progress, allorché licenziata non risulta più suscettibile di posteriori riformulazioni o anche più modesti emendamenti – non funzioni come una sorta di esorcizzazione per contrappasso di una situazione di estremo disordine e paradosso che non di meno viene di fatto vissuta da molti – ahimè da troppi! – come naturale ed immodificabile e, in quanto tale, da sopportare alla meno peggio piuttosto che da combattere.
Niente di più emblematico nell’afferire a tale attitudine psico-sociale di impasse è forse la questione della letterale occupazione militare cui il territorio sardo soggiace a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, come ben evidenzia Pietro – che non a caso nell’ultimo anno e mezzo sembra particolarmente votato ad insistere su di essa - attraverso un’opera come Über aller Welt Gewässer (2011), sorta di mappatura della presenza militare sull’isola – che costituisce ben il 60% circa della proprietà militare italiana. D’altra parte è anche vero che prima ancora che sulla rassegnazione si fa leva semplicemente sul silenzio della segretezza, per cui anche ciò che è più prossimo nello spazio diviene lontano nella coscienza, mentre malattie genetiche, cancri, leucemie divengono fatalità inspiegabili. Mosso dall’impellente necessità di infrangere le maglie della censura legalizzata Pietro azzarda un’operazione tanto illegale quanto più che legittima come quella di Near to you (2011), affiggendo abusivamente un enorme foto di una esercitazione NATO - scattata da un soldato che l’ha poi clandestinamente pubblicata su di un forum militare – su di un muro di una strada di Sassari molto trafficata. Se l’essenzialità comunicativa, fondata sul rifiuto di un linguaggio troppo basato sugli effetti scioccanti tipici della controinformazione permane senza dubbio, l’urgenza amplificatrice lo conduce qui ad assumere inedite attitudini attiviste.
Il motivo della paradossale nonché sciagurata vicinanza ritorna nel video Every Day (2011), messa in scena della convivenza quotidiana di due mondi lontani anni luce su di un piano ideale, ma ahimè praticamente ormai fisicamente sovrapposti: quello tradizionale quanto genuino e salutare del pastore con le sue pecore e quello altamente tecnologico quanto estraneo e letale della grande base aerea della NATO. Ancora una volta nessun violento cortocircuito, bensì da parte dello spettatore una scoperta dal ritmo lento e pacato, quasi ciò che si vede fosse “un fatto normale”.
Stefano
Taccone
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