(Testo di accompagnamento alla slide di immagini presentate in occasione della mostra Geyser: quando le idee esplodono, inaugurata il 14 dicembre scorso presso la Sala Dogana di Palazzo Ducale a Genova).
Pur credendo fermamente che ogni decretare l’obsolescenza dei “grandi racconti” implica sempre il rischio di una lettura metastorica dell’ordine vigente – e ciò è valido non di meno in rapporto ai tempi più recenti, allorché la fiducia nella sua tenuta conosce un costante allentamento – ho sempre creduto, forte di un debolismo – mi sia perdonato l’ossimoro! - inteso non in quanto equivalenza di tutti i valori e quindi, di fatto, assenza di ogni verità, bensì coscienza di una costellazione di specificità che richiedono risposte differenti innanzi tutto perché pongono differenti domande – in un’ottica non troppo dissimile da quella incarnata dal celebre motto zapatista, «un mondo in cui tanti mondi siano possibili» -, una pretesa inevitabilmente destinata al fallimento – o forse un’impresa non alla mia portata? – tentare, attraverso la mia attività storica, critica e/o curatoriale, una sia pur consapevolmente non esaustiva lettura sistematica dell’arte oggi – e la mia riluttanza rimarrebbe invariata anche qualora ci si limitasse ad una singola area geografica piuttosto che al mondo intero -; di delineare, con un certo coefficiente di oggettività, quali forme possiedano le ricerche artistiche più significative che hanno luogo nel nostro presente, quelle la cui considerazione è irrinunciabile… Ho sempre, al contrario, creduto nella potenza del frammento, e dunque nella possibilità di far fronte ai grandi dilemmi in nessun altro modo se non attraverso la costruzione di un proprio necessariamente parziale percorso, ma coerente nella sua struttura, che scaturisse da quelli che sono i miei più profondi pensieri, passioni, impulsi, urgenze, ma posti in continua relazione dialettica con l’esterno, in conformità con un’esigenza intrinsecamente connessa alla loro peculiare natura. Da ciò deriva la circostanza per cui il fatto artistico appaia costantemente accompagnato, nella mia considerazione, dalla dimensione del sociale e del politico e, più in particolare ed in tempi più recenti, essa si è sempre più attestata in relazione allo studio dell’intreccio tra arti visive ed attivismo radicale tanto su di un piano storico, data l’ormai consolidata tradizione – un po’ meno in alcuni paesi, tra cui l’Italia, deficit in verità non troppo facilmente spiegabile per un paese che, tra l’altro, ha avuto un Sessantotto che è durato un decennio… -, quanto su di un piano teorico, indagando cioè i caratteri strutturali che risiedono a monte della felicità prodotta dall’incontro tra i due ambiti, nella prospettiva, auspicata dall’artista austriaco Oliver Ressler, di una sempre più spinta dissoluzione dei rispettivi confini (E. Vannini, Oliver Ressler. Il “movimento dei movimenti”. Low revolution, “Arte e Critica”, Roma, anno XVI, marzo – maggio 2009, n. 58, p. 49).
Poster di "Adbusters" per Occupy Wall Street.
È alla luce di tali presupposti che ho scelto di mettere a fuoco una situazione ancora probabilmente nel pieno del suo farsi – e dunque ancora suscettibile di imprevisti quanto rapidi rivolgimenti -, eppure, credo, già con una certa sicurezza percepibile nella sua rilevanza, quella relativa alle pratiche artistiche che hanno origine, proprio in queste settimane, nel contesto delle dimostrazioni di Occupy Wall Street (OWS), ove «l’arte», ha osservato di recente Michele Elam, studiosa dei rapporti tra estetica, politica ed identità etnica, «è emersa come un importante veicolo d’espressione del movimento» (M. Elam, How art propels Occupy Wall Street, Special to CNN, November 4, 2011; http://edition.cnn.com/2011/11/01/opinion/elam-occupy-art/index.html). D'altra parte, poiché ad innescare l’intero ciclo di proteste è stato un appello di "Adbusters", ovvero della rivista canadese simbolo, a partire dai primi anni novanta, di quella peculiare forma di arte attivista che va sotto il nome di "culture jamming", l’intero movimento può considerarsi fin dal suo sorgere sotto il segno delle arti – quelle visive in particolare – e dei linguaggi creativi in genere. Tale fenomeno, inoltre, non va inteso che come l’ultimo tassello di una vicenda che negli Stati Uniti parte al più tardi alla fine degli anni sessanta, allorché si organizzano eventi come l’Angry Arts Week Against The War in Vietnam o si costituiscono collettivi come Art Workers’ Coalition, connotato innanzi tutto per la sua interlocuzione critica con l’istituzione-museo, e, passando attraverso esperienze degli anni ottanta come quelle di Group Material ed ACT UP e per la nuova ondata di arte attivista connessa all’emergere del movimento di Seattle nel novembre del 1999, arriva fino ai giorni nostri, quelli della crisi del paradigma neoliberista.
Logo di Occupy Museums.
Occupennial Art Database, piattaforma online (www.occupennial.org) sorta per offrire uno spazio di coordinamento e discussione «al 99% degli artisti»; supportare le operazioni da loro concepite in relazione ad OWS ed archiviare la documentazione ad esse relativa, sembra costituire un autentico perno per «l’importante ruolo che», come si legge sulla piattaforma stessa, «gli artisti stanno giocando nelle proteste di Occupy Wall Street», oltre che un ottimo viatico per orientarsi nella galassia della onnimediale produzione – suddivisa sul sito in sei categorie: Actions & Performance; Video, Sound & New Media Projects; Drawing, Painting & Sculpture; Poetry & Music; Graphics; Screenprinting - che in tale contesto sta germogliando.
Occupy MoMA – azione di protesta messa in atto da Occupy Museums.
Da Occupennial si viene a sapere, ad esempio, dell’attività di Occupy Museums, promotore di Occupy Lincon Center, centro per le arti performative che, annoverando tra i suoi enti sponsorizzatori la Bloomberg LP, una società chiaramente legata al sindaco di New York Michael Bloomberg, accusato dagli attivisti di aver represso in stile paramilitare l’occupazione pacifica di Liberty Park, ha proposto la Satyagraha di Philip Glass, ovvero un’opera dedicata alle lotte contro il colonialismo di Gandhi - alle cui pionieristiche strategie di disobbedienza civile il movimento dichiara di ispirarsi -, quasi prestandosi ad un’operazione di lavaggio dell’immagine pubblica su di un piano subliminale.(Occupy Museums protests the anti-democratic policies of Lincoln Center and Bloomberg at Satyagraha, Tuesday, November 29, 2011 at 10:55PM, http://www.occupennial.org/ows-art-listing/2011/11/29/occupy-museums-protests-the-anti-democratic-policies-of-linc.html Il primo bersaglio di Occupy Museums è stato però naturalmente il MoMA, davanti al quale si è protestato denunciando «l’assoluta equazione tra arte e capitale» che hanno conosciuto gli ultimi decenni, promettendo «un’era di arte nuova, fuori dai ristretti parametri del mercato» ed esortando i musei ad aprire «la vostra mente ed il vostro cuore», dal momento che «l’arte è di tutti!» (Occupy Museums: Speaking out in front of the Canons,Sunday, October 23, 2011 at 12:20AM, http://www.occupennial.org/ows-art-listing/2011/10/23/occupy-museums-speaking-out-in-front-of-the-canons.html)
Veduta della mostra This is What Democracy Looks Like presso le NYU’s Gallatin Galleries.
Il sito riporta inoltre il comunicato stampa ed alcune immagini di una mostra collettiva come OCCUPIED: An Occupy Movement Group Show - tenutasi dal 14 novembre all’8 dicembre presso Bluestockings, «libreria radicale, caffè del commercio equo e centro attivista del Lower East Side di Manhattan» -, nell’ambito della quale sono presenti oltre 30 artisti, provenienti da ogni parte del mondo, con poster, stampe, disegni, opere su carta, fotografie ed installazioni multimediali (OCCUPIED BLUESTOCKINGS, Friday, November 11, 2011 at 01:11PM http://www.occupennial.org/ows-art-listing/2011/11/11/occupied-bluestockings.html). La prima collettiva in ordine cronologico esplicitamente ispirata al movimento, alle sue ragioni ed ai suoi linguaggi è stata però This is What Democracy Looks Like – tenutasi presso le NYU’s Gallatin Galleries dal 28 ottobre al 18 novembre -, che ha visto la partecipazione di artisti, designer e filmmaker come Melanie Baker, The Brooklyn Filmmakers Collective, Melanie Cervantes, Molly Crabapple, William Lamson, Meerkat Media, Tom Otterness, Michael Rippens, Dread Scott (http://www.gallatingalleries.com/shows/this_is_what_democracy/index.html), ed ha abbinato all’esposizione una serie di eventi come il dibattito intitolato Occupyteory, coincidente con il giorno del finissage, allorché ci si è chiesti «qual’è il ruolo che può essere svolto dalla teoria nel movimento Occupy» e se «in un movimento senza leader, è possibile che la teoria ricopra un ruolo democratico» (#Occupytheory at Gallatin, Thursday, November 17, 2011 at 12:42PM, http://www.occupennial.org/blog/2011/11/17/occupytheory-at-gallatin.html).
Rainer Ganahl, Credit Crunch Meal – Occupy Wall Street Show, ex GP Morgan Bank, New York.
Tra i partecipanti a This is What Democracy Looks Like vi è anche Rainer Ganahl, già protagonista di un Occupy Wall Street Show ospitato per una sola serata nella ex sede della GP Morgan Bank, che sorge proprio di fronte al palazzo della Borsa newyorkese, ove l’artista di origine austriaca ha allestito una sorta di banchetto – a base prevalentemente di frutta, verdura ed ortaggi, ma anche di una conturbante quanto simbolicamente eloquente testa di maiale – le cui pietanze recano espressioni chiaramente alludenti all’attuale dibattito sulla crisi globale - come BAIL OUT, HEDGE FUNDS, GREECE IRELAND PORTUGAL ITALY, i simboli delle varie monete… -, ma anche ai movimenti di contestazione – 99% - o comunque all’agone politico più in generale - TEA PARTY. «Dal momento che», ha spiegato Ganahl, «i termini e i processi economici sono così astratti, ho optato per la semplicità e l’umanità del cibo più comune che viene a mancare alle persone che cadono vittime di queste astratte manovre economiche. Il denaro che è servito a salvare le banche sta ora facendo precipitare nell’insolvenza stati sovrani come la Grecia ed altri e produce effetti talmente reali da essere percepiti anche sulle tavole di ognuno» (http://www.ganahl.info/occupywallstreetcrunch.html), chiarendo la sua operazione nei termini di un detournante incontro tra economia della sfera virtuale ed economia della sfera quotidiana, tra economia delle burocrazie al potere ed economia dei cittadini che hanno il problema di apparecchiare la tavola e mostrando, in tal modo, come – per fortuna o purtroppo – non si tratti affatto di due mondi a parte.
Occupy Design, Occupy your Heart/World.
Ma le forme da considerarsi più peculiari per un fenomeno che agisce in conformità con le urgenze di dissoluzione dei confini tra arte e attivismo proposte da Ressler sono probabilmente quelle delle azioni collettive nello spazio pubblico, come quella promossa dal giovane performer israeliano Ehud Darash al cubo rosso davanti a Zuccotti Park, allorché gli attivisti hanno celebrato, tramite la «temporanea “alterità”» rappresentata dall’attitudine di lentissima caduta assunta, la diversità di OWS (October 30, 2011 - "About Falling" at Liberty Plaza, Tuesday, November 8, 2011 at 05:44PM, http://www.occupennial.org/ows-art-listing/2011/11/8/october-30-2011-about-falling-at-liberty-plaza.html), o le 24 ore di “cerchio di batteria” organizzate da un collettivo artistico attivista ormai storico come gli Yes Men, nell’ambito del loro progetto Yes Lab - consistente, in sostanza, in «una serie di scambi di idee ed esercitazioni per aiutare i gruppi attivisti a realizzare le azioni creative di cattura dei media, focalizzate sugli scopi della propria campagna» (http://www.yeslab.org/about) - al fine di protestare contro la violenza poliziesca e le limitazioni della libertà di espressione perpetuate, operazione che - neanche a dirlo – ha attirato una massa ancora più ingente di «barricate in acciaio e polizia armata» (http://www.yeslab.org/drumcircle), o anche quelle legate alla grafica, con la sua arcinota democraticità della riproducibilità tecnica. A tale obiettivo, quello di «creare strumenti visivi disponibili gratuitamente attraverso un linguaggio grafico comune che sia in grado di unire il 99%» mira il progetto Occupy Design. (http://occupydesign.org/)
Stefano Taccone
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