La lefebvreiana critica della vita quotidiana, la resistenza alla horkeimeriana ragione strumentale, al marcusiano monodimensionalismo cui il capitalismo avanzato costringe l’uomo, nonché tutti i movimenti che da Dada a Fluxus ed al Situazionismo hanno fatto della confutazione e del sabotaggio delle strutture canoniche di convivenza sociale la loro impellente necessità, costituiscono senza dubbio il patrimonio di tradizioni – benché si provi sempre un certo imbarazzo, quasi una terrore di generare un ossimoro troppo marcato, nell’utilizzare questa parola per tali esperienze – che più immediatamente la performatività più behavior che body di Liuba presuppone. Che infatti cammini per strada e compia ogni azione a ritmi lentissimi, tanto da rischiare di provocare incidenti automobilistici e, in ogni caso, da lasciare di stucco i passanti - come avviene nel ciclo The Slowly Project (2002-2011), sorta di tentativo di allungare la vita per mezzo dell’arte (L'Arte è lunga, la Vita breve è appunto il titolo di una delle performance del ciclo) in una società in cui una “performance” è tanto migliore quanto più produce in un tempo minore – o affigga i bollini rossi, contrassegni delle vendite già avvenute nelle fiere d’arte, su di ogni opera esposta, tra lo scompiglio dei galleristi – come avviene in Virus (2004), il cui titolo suggerisce una sorta di sinistra trasmutazione di quegli stessi contrassegni, così simili ad i sintomi visivi di qualche morbo contagioso e, proprio come un morbo, in grado di propagarsi in maniera incontrollata –; che si aggiri con un vestito da suora “detournato”, in quanto appositamente disegnato con sottili riferimenti multireligiosi nei dettagli, per la Biennale di Venezia o addirittura per la Città del Vaticano recitando preghiere appartenenti a fedi diverse da quella cristiana cattolica – come avviene in The Finger and the Moon - ll dito e la luna (2007-2010) – o irrompa nel rarefatto ambiente di un vernissage di una mostra in galleria con quello che potremmo definire un autentico inno comportamentale alla contaminazione gioiosa, passionale, persino dionisiaca tra le differenze, se non tra gli opposti – come avviene in Les Amantes (2006) -, il suo sforzo appare generalmente definibile in quanto volto a far deragliare il treno dai binari, a far incantare il disco evitando che vada in loop, a determinare, in altre parole, uno slittamento nell’ordine plausibilmente consueto degli eventi. Una circostanza che si verifica regolarmente, ma in forme sempre rinnovate, in quanto risultanti della diversità della propria declinazione attitudinaria, ma anche della differente predisposizione alla risposta dei vari contesti a “parità” di comportamento, in un’ottica in cui le performance, spiega eloquentemente la stessa Liuba, si configurano dunque quali «cartine di tornasole attraverso cui investigare una data società o gruppo umano».
The Slowly Project. Take your time - Modena, 2007-2008.
Sappiamo bene, tuttavia, quanto le strategie dello straniamento attitudinario, che pure sono state centrali per tanta parte delle avanguardie artistiche – e forse non solo artistiche – del XX secolo, siano alla fine incorse in una impasse, benché il dibattito sulle cause e la natura di essa siano molto più complesse di quanto solitamente si sia disposti a credere e sia ben lungi dal potersi chiudere e benché l’eredità di tali pratiche continui ad essere assolutamente operante anche negli ultimi decenni – e lo stesso caso di Luiba ne è una buona dimostrazione. Tuttavia può dirsi con una sufficiente sicurezza di non essere smentiti che il loro fallimento si è manifestato nella debolezza della loro stessa azione, contrapposta al grado di ambizione dichiarato, nella eccessiva facilità con la quale il corso normale della vita e della società, dopo essere stato forse talvolta pure non superficialmente intaccato, ha ripreso con grande sicurezza il verso del suo cammino, consolidando persino ulteriormente la bontà della sua “tenuta di strada”. Anche in questi ultimi tempi, allorché pure il pensiero unico dominante sembra impelagato in grossi problemi, essi sembrano possedere una natura più endogena che esogena: derivano cioè più da una deficienza immanente alle sue stesse promesse che da una cosciente riluttanza a lasciarsi ridurre alle logiche concatenate del suo megaingranaggio, in nome magari di un rovesciamento di queste logiche stesse o di un affrancamento da esse.
Virus, 2004.
Ma il punto, tornando a Liuba, è proprio questo: che la prospettiva delle sue destabilizzazioni non sta in un momentaneamente impossibile – e forse non necessariamente sempre e comunque auspicabile – rivolgimento permanente del consueto flusso dell’esistente, posizione che, peraltro, non sfuggirebbe a contraddizioni, in quanto sempre esposta al rischio, per così dire, di spogliare un altare per vestirne un altro, quanto nella, sia pur breve ed effimera, determinazione di uno scenario in cui la soppressione di certe norme comunemente vigenti permetta allo spettatore più o meno volontario di allargare gli orizzonti della sua mente, di prendere coscienza del fatto che certe situazioni sono sì strutturate in una determinata modalità, ma, se lo si vuole, presto o tardi potrebbero volgersi anche differentemente – un invito ad una sospensione possibile del flusso vitale in vista di un più agevole esercizio di ripiegamento-raccoglimento psico-emotivo su quello che è il suo senso profondo, dunque, che trova peraltro nel video che fa da pendant ad ognuna delle performance, la cui regia ed il cui montaggio sono a cura dell’artista stessa, ulteriore supporto. Sta allo spettatore, in ultima istanza, scegliere i caratteri dei suoi mondi possibili e desiderabili ed adoperarsi eventualmente affinché si traducano in realtà, mentre alla performer-scultrice di situazioni non spetta che dare il là, innescare quel meccanismo che metta in moto le facoltà umane e le conduca a generare nuovi pensieri ed azioni che siano specchio di un retroterra innanzi tutto individuale ma anche collettivo, risvegliare nel singolo e nella moltitudine la consapevolezza della sua potenza costituente.
Stefano Taccone
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