Stefano Taccone: Care Sara ed Antonella, il discorso articolato dalla collettiva da voi curata, Ogni Donna Sono Io, inauguratasi poco più di una settimana fa presso la Pinacoteca provinciale di Potenza, e che essa induce ad articolare, appare il prodotto dell’incontro e dell’incrocio, più o meno consapevole, di diverse istanze e contingenze: il recente ed ingente riemergere in Italia della questione femminile (non mi permetterei mai di scomodare in questo caso il termine “femminismo”), benché in una forma tutt’altro che esente da dubbi e discussioni (penso naturalmente alla mobilitazione del 13 febbraio scorso che adottava lo slogan Se non ora quando?, la cui spinta propulsiva, peraltro, sembra già in via di esaurimento) e la vostra esperienza di militanza legata, tra l’altro, alle questioni di genere che è molto più “antica”, persino più antica del vostro legame con le arti visive; la celeberrima riflessione baudrillardiana sui simulacri, argomenti che peraltro hanno sempre riscosso, a mio parere non a caso, una grande fortuna tra gli artisti ed i critici d’arte, sicuramente molto maggiore rispetto alla mole di studio, alquanto esigua, che lo stesso filosofo e sociologo francese ha dedicato specificamente all’arte, e la sua traduzione, da voi compiuta, in una teoria del biopotere che soggioga la donna avvalendosi dei media.
Sara Errico & Antonella Viggiani: Intanto ti ringraziamo per non aver usato il termine femminismo, con cui abbiamo difficoltà di “relazione”.
Ogni donna sono io non nasce da un’emergenza: l’attualità è solo un fattore contingente, a spingerci è stata l’esigenza di costruire un dialogo collettivo, un luogo di discussione che andasse oltre le associazioni e il singolo con forme diverse da quelle con cui ci siamo sempre confrontate finora. La nostra militanza sulle questioni di genere è continua e comincia molto tempo fa, come anche tu sottolinei. Nasce dalla consapevolezza che essere donne rimane ancora un ostacolo in molti campi e non un valore aggiunto; il modello di donna data da questo governo rispecchia, semplicemente, quello che televisioni, riviste e giornali cercano d’imporci.
La riflessione sui media e lo stereotipo da essi propugnato, ci ha fisiologicamente riportato a Baudrillard e ancor prima a Platone, la discussione sul simulacro è stata la spinta che ci ha condotto ad immaginare una mostra su questo tema. Ci troviamo di fronte a quello che il sociologo chiama il delitto perfetto: le illusioni si sono annullate e si atteggiano a realtà. I media costruiscono una realtà che è l’unica proposta, il pensiero ormai si muove solo su codici prestabiliti, il desiderio individuale si è perso a favore di un desiderio collettivo. Siamo in trappola senza saperlo.
Silvia Giambrone, Eredità, 2008.
ST: Il riferimento a Baudrillard è fisiologico, ma è anche vero che proprio questo autore è stato più volte bersaglio del pensiero radicale, che ha individuato nelle sue tesi una forte componente conservatrice. L’esempio più significativo da citare per il nostro discorso mi sembra, per ragioni fin troppo ovvie, Hans Haacke, che con Baudrillard è entrato più volte in polemica e gli ha persino dedicato un’opera improntata ad una pungente satira, Baudrichard’s Ecstasy (1988). Quest’opera, facendo chiaramente il verso al saggio baudrillardiano L’estasi della comunicazione, apparso solo poco tempo prima, ed essendo intrisa di evidenti motivi duchampiani, è composta da un’asse da stiro sormontato da un orinatoio che comunica con un secchio da pompiere attraverso un tubo in cui l’acqua compie costantemente il suo percorso ciclico senza approdare a nulla, esattamente come, suggerisce Haacke stesso, in nulla consiste l’estasi di Baudrillard. Nella tesi della derealizzazione, che, ad esempio, conduce Baudrillard a definire l’AIDS come «”catarsi virale” intesa, stando alle sue stesse parole, come “un rimedio contro la liberazione sessuale totale, che spesso è più dannosa di un’epidemia”» o a dichiarare che la Guerra del Golfo in realtà non ha avuto luogo, Haacke scorge infatti acutamente una strategia per indebolire la volontà di cambiamento ed indurre dunque all’acquiescenza.(P. Bourdieu, H. Haacke, Libre-Echange, Le Seuil/Le presses du reel, Paris, 1994, pp. 45-47).La vostra visione invece, in quanto militanti, non può non appuntarsi oltre questa trappola simulacrale che evocate. Quali sono dunque oggi, a vostro parere, i margini e le prospettive di liberazione dal giogo mediale che individuate e quali ruoli e funzioni può assumere l’arte e, più in generale, l’estetico, in tale processo?
SE & AV: Baudrillard è stata per noi una fonte e, in quanto tale, studiato e interiorizzato. La nostra aderenza al suo pensiero non è, ovviamente totale, ma la riflessione sulla trappola simulacrale di cui ti dicevamo, ci ha occupato tempo e molte energie ed è stata per noi fondante. Solo se abbiamo la consapevolezza di essere in una trappola, possiamo da essa liberarci. Come se ne esce? Proponendo “Modelli e non modelle” come sosteneva Severgnini nei giorni del Se non ora, quando?
Il primo ciclo di Ogni donna sono io, partiva dal superamento degli stereotipi, ne abbiamo discusso e abbiamo proposto la donna come soggetto e non come oggetto. Abbiamo cercato di costruire un’identità femminile attraverso il diverso approccio professionale dei nostri relatori e poi ci proponiamo, individualmente, di decostruire il concetto di identità di genere in sé.
Non sappiamo se il superamento del giogo mediale sia attuabile e se sia possibile ora. Crediamo in una critica e il nostro strumento, come militanti e come curatrici, resta la controinformazione (permettici il termine), non riusciamo a vedere, in quest’ambito, l’arte separata dalla militanza attiva. L’arte è uno strumento che può raggiungere tutti e pertanto deve scegliere e schierarsi.
Rosaria Iazzetta, Vogliono fare tutte le modelle, ma la professoressa chi la fa?, 2006.
ST: Fin ora abbiamo citato il solo Baudrillard, ma la vostra visione dei mass media come strumenti di corruzione e di governance sembra nutrirsi anche di un’altra fonte. Alludo alla Scuola di Francoforte, benché, che io sappia, non vi abbiate mai fatto esplicito riferimento. Noto questo solo per introdurre il pensiero di un altro filosofo ancora che, pur condividendo con Baudrillard l’eclissi di una realtà oggettiva, ed anzi proprio in ragione di tale condizione, evidenzia le potenzialità emancipative che i mass media hanno non solo promesso, ma anche realizzato. Mi riferisco a Gianni Vattimo, per il quale «nonostante ogni sforzo dei monopoli e delle grandi centrali capitalistiche», è accaduto «che radio, televisione, giornali sono diventati elementi di una generale espansione e moltiplicazione di Weltanschauugen, di visioni del mondo», ovvero esattamente il contrario dell’omologazione generale della società paventata dai francofortesi. «Negli Stati Uniti degli ultimi decenni», continua Vattimo, «hanno preso la parola minoranze di ogni genere, si sono presentate alla ribalta dell’opinione pubblica culture e sub-culture di ogni specie».(G. Vattimo, La società trasparente. Nuova edizione accresciuta, Garzanti, Milano, 2000, pp. 12-13).
Pur tenendo conto del carattere visibilmente quanto inevitabilmente un po’ datato di queste affermazioni (sono state formulate nel 1989), pensate che esse possiedano una loro validità rispetto alla questione femminile, tanto storicamente, quanto rispetto all’oggi?
SE & AV: La nostra critica ai media non contiene in sé giudizi di valore. Non ci siamo riferite ai modelli di donne proposte dalla televisione, perché finora il nostro discorso si è limitato a questo specifico media, portando con sé un giudizio negativo. Quello che ci spaventa, come donne, è la proposta di un unico modello. Non ci interessa parlare di giusto o sbagliato, ci interessa immaginare un altro modello di donna, oltre alla velina, esempio semplicistico, ma efficace. La televisione non dà alternative pur fingendo di garantirle: prendiamo il linguaggio della pubblicità che ci propone un unico modello femminile sebbene lo slogan ricorrente sia: siate diversi! È un circolo vizioso, un doppio legame, per dirla alla Foucault. Se soltanto ci spostiamo dalla televisione a internet, il discorso si fa diverso: ci sono anche lì i modelli di donne simulacrali, ma c’è l’alternativa e tanto ci basterebbe. Qui il discorso di Vattimo sembra più adeguato e attuale.
Il problema è che la televisione raggiunge molte più persone, soprattutto in Italia. Il Socrate del Gorgia di Platone, ancora oggi, ci ammonisce: il teatro non ha alcunché di educativo, non amplifica le possibilità di desiderio dello spettatore, ma risponde continuamente a quelli che sono i suoi desideri contingenti.
Riteniamo, quindi, che la televisione vada vista, ma vada vista con strumenti adeguati. Lorella Zanardo, che della critica alla televisione ha fatto il suo impegno, critica nel senso stretto del termine, ha proposto una formazione per guardare la televisione, il progetto si chiama Nuovi occhi per la tv e cerca di educare sui media attraverso i media.
Claudia Ventola, È cosa buona e giusta, 2011.
ST: Ognuna delle artiste ha affrontato in maniera non laterale, sia pure nel rispetto della propria poetica specifica, le tematiche da voi poste: Katia Alicante declina la sua consueta riflessione etico-estetica sulla convivenza tra uomini ed uomini e tra uomini ed altri esseri viventi in rapporto alla questione della discriminazione sessuale; Rosaria Iazzetta, adottando il suo tipico linguaggio pantomimico, allude (ed essendo la sua opera del 2006 lo fa prima che spuntassero le varie Noemi e Ruby, ma anche prima dello scandalo di Vallettopoli) alle tante giovani che preferiscono puntare sul loro corpo piuttosto che sul loro cervello; Daniella Isamit, pagando gli uomini per prenderli a cazzotti, sembra rovesciare la dimensione rispecchiante delle
performance di Santiago Sierra, ove colui che è vittima nella vita replica
sostanzialmente il suo ruolo nell’arte, ma lo stravolgimento determinato dalla
cattura operata dai media diviene anche acquisizione di nuovi significati;
Silvia Giambrone scopre il potenziale dell’artificio e dell’iperbole nelle
tecniche di seduzione, ma addita anche il carattere di strategia di controllo sul
corpo femminile che la seduzione stessa rappresenta; MaraM, attivando pratiche di relazione con donne che hanno subito violenze, analizza la
dialettica tra lo svelare ed il nascondere in rapporto alla loro intimità; Valentina Meli, con una illustrazione dal carattere neosurrealista, manifesta la necessità di sdoganare i discorsi sulla sessualità e di educare alle sue regole. Claudia Vendola, assumendo l’immagine di madre attraverso un curioso stratagemma, una sorta di bambolotto iperreale (che arriva tra le sue braccia al prezzo di duecentoottantasette euro più spese di spedizione), constata quanto la maternità sia ancora comunemente considerata «cosa buona e giusta».
Tuttavia su sette selezionate mi sembra di poter dire che soltanto una di loro, la Isamit, che peraltro non ha ancora una produzione corposa, è solita lavorare specificamente sull’identità della donna. Per altre due, la Giambrone e MaraM, si tratta di un motivo ricorrente ma non preminente. Per le restanti quattro esso è più che altro episodico.
Fino a che punto ritenete che tra le giovani artiste sia diffusa la coscienza delle
problematiche connesse all’essere donna? E sono molte o poche, a vostro parere, le artiste che lavorano su di esse? E tra le giovani operatrici dell’arte e della cultura quanto è diffusa tale coscienza? E, allargando ulteriormente il cerchio, quanto è diffusa tra le giovani in genere?
SE & AV: Per quanto riguarda le artiste di Ogni donna sono io, prescindendo dalla loro “adesione alla causa” più o meno occasionale, siamo davvero contente e soddisfatte di tutti i lavori e delle declinazioni di ognuna di loro. La loro riflessione ha toccato importanti aspetti dell’essere donna oggi e per ognuna di loro è stata un’esperienza personale.
Non crediamo si possa distinguere tra artisti, operatrici dell’arte e giovani in generale. La sensibilità alle questioni di genere è personale e prescinde dal “ruolo”. La cosa che, invece, riteniamo più pericolosa è la strumentalizzazione del concetto di emancipazione. Le donne lo restringono alla sessualità e ad abiti più o meno succinti e gli uomini la paventano e auspicano, ma sul corpo delle donne. L’idea di emancipazione, di cui soprattutto le giovani si fanno portavoce, è distorta e pericolosa. Distorta perché non è la libertà sessuale a definirla e pericolosa perché risponde perfettamente alle esigenze del capitalismo. Per sopravvivere il capitalismo ha bisogno di fare suoi i reali strumenti di emancipazione ed inglobarli al suo interno, annullarli, svuotarli di senso e significato, ma soprattutto ha bisogno di controllarli.
In un modo o nell’altro ritorniamo sempre al concetto di trappola. La minigonna, che è stata un reale strumento di emancipazione, ora è strumento di controllo, ma sono solo in pochi ad accorgersene.
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