da S. Taccone, Hans Haacke. Il contesto politico come materiale, prefazione di S. Zuliani, Plectica, Salerno, 2010, pp. 21-24.
Questo saggio si pone l’obiettivo di mettere a fuoco, per la prima volta con tale ampiezza di respiro in lingua italiana, il percorso di Haacke connotato da una valenza più strettamente politica. Esso, aprendosi tra il 1970-1971 con i fatti del MoMA e del Guggenheim, giunge fino ai giorni nostri ed abbraccia in pratica l’intero periodo maturo, con la sola esclusione delle due mostre, Viewing Matters, del 1996, e Mixed Messages, del 2001, basate sull’uso dell’opera d’arte come readymade.
Tale opzione non implica alcuna valutazione riduttiva delle parti tralasciate, ma è motivata dall’esigenza di far emergere i tratti maggiormente caratterizzanti del suo intero percorso, quelli per i quali precipuamente merita di essere ricordato e studiato. Né, d’altra parte, parlare di “valenza più strettamente politica” significa relegare nella dimensione dell’apolitico quanto non dettagliatamente preso in esame, ché non solo mi sono già soffermato sopra sul significato politico dei sistemi fisici e biologici in tempo reale, ma la stessa categoria di apoliticità non costituisce che un’astrazione. Con tale espressione intendo invece riferirmi innanzitutto a quel lavoro, onde la scelta del titolo, che, secondo quanto dichiarato più volte dallo stesso Haacke, adopera il “contesto politico come materiale”, ma anche alle istanze di mutamento dello status quo che, benché sempre sensibilmente temperate da una buona dose di sano realismo, sarebbe iniquo tralasciare.
Ad Haacke, con una precocità ed un’organicità eguagliate in ambito euro-statunitense solo da Martha Rosler e, benché sia rinvenibile un calzante presupposto nel fotomontaggio politico del connazionale John Heartfield, va riconosciuto il merito di aver saputo elaborare, nel corso degli ultimi decenni del secolo, un nuovo linguaggio per un’arte che intenda affrontare questioni politiche senza esimersi dall’esprimere una posizione netta, ma che, in virtù di una felice adattamento degli strumenti elaborati dell’arte concettuale, sottratta alla vocazione tautologica delle origini, sia coniugata al presente. Egli non ha prodotto, che io sappia, allievi diretti, o almeno non ne ha prodotti di significativi, eppure i molteplici fenomeni di arte variamente impegnata che si succedono dalla fine degli anni settanta in poi, da quella in cui confluiscono i motivi del femminismo (Jenny Holzer e Barbara Kruger) a quella connessa alla questione delle minoranze etniche (David Hammons), dall’arte attivista tipica dell’area anglosassone negli anni Ottanta (ACT-UP, Group Material, Krzysztof Wodiczko…) all’arte attraverso la quale si definisce l’identità omosessuale (Felix Gonzalez-Torres), fino all’ultima recente ondata dei primi anni del nuovo millennio, rappresentata in primis da artisti latinoamericani (Annibal Lopez, Jota Castro, Regina Josè Galindo…), possono a buon diritto annoverare Haacke tra i loro padri nobili.
Shapolsky et al. Manattan Real Estate Holding, a Real-Time Social System, as of May 1, 1971, 1971.
Restano infine da spendere due parole sulla (s)fortuna critica di Hans Haacke in ambito italiano, ove si registra l’indubbio permanere di un profondo divario tra la rilevanza di tale figura ed il suo grado di conoscenza, decisamente scarso persino tra gli addetti ai lavori. Le ragioni di tale squilibrio non paiono facilmente individuabili con precisione. Di sicuro tale situazione è in parte ascrivibile all’assenza di sue opere significative nel contesto italiano, eccettuando naturalmente quella indimenticabile della Biennale di Venezia del 1993, che molti italiani ricordano, ma non sempre vi associano il nome di Haacke. Si aggiunga, da una parte, il rapporto non proprio idilliaco che egli, un po’ per scelta diretta di carattere politico, un po’ per conseguenza indiretta di carattere poetico, intrattiene tanto col mercato, quanto con i musei, benché anche il suo successo passi oggi non di meno per tali canali istituzionali, nonché la fama di essere un artista politicamente “scomodo”, che non senza motivo lo accompagna ormai da quasi quarant’anni, e, dall’altra, il carattere sempre più provinciale, sempre più chiuso in se stesso, sempre più rintanato nel proprio cortile di casa che l’Italia sta assumendo in questi ultimi tempi (non solo in ambito strettamente artistico) e tale squilibrio riceverà ulteriore spiegazione. Di contro nei paesi in cui più di frequente è impegnato, ove non si dimostra minimamente più docile che in ogni altra occasione, la situazione è completamente diversa. Le sue operazioni suscitano infatti una mole di discussioni così intensa da far sì che esse oltrepassino i canali canonicamente riservati al dibattito artistico e divengano appannaggio di un pubblico più ampio.
GERMANIA, 1993.
Questo saggio, vedendo la luce, per una fortunata quanto casuale coincidenza, in concomitanza con la sedicesima edizione del Corso Superiore di Arti Visive della Fondazione Antonio Ratti di Como, il cui visiting professor del 2010 è proprio Haacke, si propone, per quanto possibile, di colmare tale lacuna.
Stefano Taccone
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