mercoledì 7 luglio 2010

PERCHÉ L’ARTE ITALIANA SEMBRA MENO POLITICA DI QUELLO CHE É – Una risposta a Pier Luigi Sacco, Fabio Cavallucci ed Italo Zuffi

Un po’ di tempo fa dalle pagine di "Flash Art" l’economista dell’arte Pier Luigi Sacco sosteneva che, a fronte dei numerosi spunti a disposizione («dalla questione del ricambio generazionale alla crescente precarizzazione, dalla criminalità organizzata alle morti sul lavoro, soltanto per fare qualche esempio, per non parlare degli effetti socio-economici del berlusconismo, un tema che sembra stimolare più gli artisti e il dibattito oltre confine che i nostri; o del disfacimento del progetto di trasformazione sociale della sinistra, che invece sembra non interessare proprio nessuno») e di un rinnovato impegno politico nel cinema (Gomorra, Il divo, La meglio gioventù) e nella musica («anche al di là di una vasta area di artisti che si situano su posizioni apertamente antagoniste, le ultime generazioni si stanno decisamente allontanando dal manierismo romantico-intimista che ha dominato a lungo la scena musicale nazionale») italiani e malgrado «i precedenti illustri (…) talmente noti che non c’è bisogno nemmeno di ricordarli», la scena italiana delle arti visive denota una «relativa incapacità di affrontare in modo incisivo temi politici». Avendo in seguito constatato come se «i classici spazi di maturazione e decantazione di un’arte politica impegnata non sono le gallerie, ma tipicamente gli spazi indipendenti e non profit», in Italia, a differenza di altri paesi, «è ancora vero che per molti nostri artisti, gli spazi in cui definire e costruire i primi passi della propria carriera sono principalmente le gallerie» ed avendo sostenuto che l’alternativa risiederebbe nella possibilità «che siano gli artisti stessi ad inventarsi gli spazi all’interno dei quali tutto ciò possa avvenire», ma ciò «richiederebbe proprio quella sensibilità diffusa che sembrerebbe invece mancare», concludeva che, pur ammettendo che le cose, dato il grado di criticità della situazione, potrebbero presto cambiare, per ora gli artisti italiani «non vogliono e non riescono ad essere politici (…) perché non credono alla possibilità di un progetto di cambiamento che abbia un senso o una reale prospettiva, e quindi trovano più sicuro rifugiarsi in un piccolo mondo che quantomeno conoscono e di cui sanno parlare». (P. Sacco, Assente giustificata – Perché l’arte italiana non vuole essere politica (o non ci riesce), “Flash art”, Milano, Anno XLII, nº 274, febbraio-marzo 2009, pp. 98-99).



Rosaria Iazzetta, Dioxin Parfum, 2009.

Alla tesi di Sacco faceva eco due mesi dopo, sempre dalle pagine di "Flash Art", il critico e curatore Fabio Cavallucci, che, introducendo un articolo in cui intendeva riflettere sul fatto che «se è vero che (…) l’arte italiana non si occupa di politica da un po’ di tempo la politica ha invece iniziato ad occuparsi dell’arte», alludendo a casi come quello della rana crocifissa di Martin Kippenberger o della mostra di Adel Abdessemed alla Sandretto, non solo definiva «verissimo» che «l’arte italiana non si occupa di temi politici», ma aggiungeva persino che essa «non si occupa di temi profondi, o comunque profondamente sentiti» ed invitava pertanto gli artisti a «trovare temi e argomenti più vicini a voi, che anche noi possiamo sentire più vicini». La successiva analisi sulle ingerenze e le deficienze della politica italiana in materia culturale lo conduceva però a concludere così: «Ma allora hanno ragione gli artisti che si rifugiano in Australia o nella propria cameretta, e ha ragione Pier Luigi Sacco quando ammette che ciò che è mancato agli artisti italiani finora, è stato un intero sistema culturale in cui potessero crescere e selezionarsi. Un sistema incapace di conquistarsi spazi di reale autonomia è un sistema debole, che non può certo sperare di produrre qualcosa degno di interesse al di fuori dei nostri ristretti confini». (F. Cavallucci, Arte e libertà – Come la politica sta occupando il contemporaneo, “Flash art”, Milano, Anno XLII, nº 275, aprile-maggio 2009, pp. 82-83).



Salvatore Manzi, Lapidazione analogica, 2009.

Sacco e Cavallucci sembravano dunque concordi su di una visione ambivalente: da una parte l’accusa agli artisti per le loro carenze (formulata con toni più pacati dal primo, con un pizzico di maggiore acrimonia dal secondo), dall’altra non la piena assoluzione, ma certo la forte attenuante data dal contesto non eccessivamente propizio.



Giacomo Faiella, Sognaleggi - Dreamat, 2009.

Ponendosi in aperta contrapposizione rispetto alle tesi di entrambi, giudicando le une «giudizi affrettati» e le altre «fuori bersaglio», il bimestre ancora successivo ed ancora una volta su "Flash Art" l’artista Italo Zuffi notava che «l’arte italiana contemporanea nel suo insieme altro non è che il frutto maturo di un gesto totalmente politico» e specificava che «l’appellativo “politico” non si dovrebbe solo assegnare quando un messaggio “impegnato” è esplicitato nell’opera d’arte: un’opera d’arte è sempre un episodio politico, sia perché prodotto culturale che innesca sistemi di pensieri e relazioni, sia perché essa si rapporta a un’economia». Aggiungeva poi che a Sacco e Cavallucci, in ogni caso, sfuggono «tutti quegli artisti che esprimono invece temi anche politici nelle loro opere» e citava, senza pretesa di esaustività, «Stefano Romano, Nark Bkb, Flavio Favelli, Francesco Arena, Marcello Simeone, Adrian Paci, Marcello Maloberti, Massimo Grimaldi, Maria Domenica Rapicavoli, Rossella Biscotti». (I. Zuffi, L’arte italiana è sempre politica, “Flash art”, Milano, Anno XLII, nº 276, giugno-luglio 2009, p. 54).



Stefano Lupatini, Untitled dalla serie Targets, 2009.

Avendo riassunto i tratti salienti di queste tre differenti posizioni, ritengo opportuno, data la costante riflessione che, sia pure nel mio piccolo, vado conducendo da diversi anni sulla questione dell’arte politica, provare di seguito ad analizzarle criticamente e, nel contempo, a portare nuovi argomenti alla disputa, pur senza alcuna velleità di porre un punto fermo.



Emanuela Ascari, Solo la terra può unirci al cielo (cornoletame), 2009.

L’analisi di Sacco coglie acutamente un aspetto assai rilevante del problema: la carenza italiana, rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale, del settore non profit, anche se tralascia di aggiungere come assai spesso anche buona parte di quel già di per sé esiguo non profit italiano sia in realtà improntato più ad una filosofia ancillare rispetto alle esigenze degli spazi propriamente commerciali che ad una autentica indipendenza e dunque rischi di essere tale soltanto di nome. A Sacco va inoltre riconosciuta la capacità di preservare per tutta la trattazione un concetto chiaro ed univoco di arte politica, laddove Cavallucci assume come spunto tale concetto per formulare una critica più ampia, ma anche più empiricamente argomentata e che comunque esula dalla presente riflessione, e Zuffi oppone un argomento tanto vero (l’intrinseca politicità dell’atto artistico) quanto inutile ai fini del dibattito, ed anzi persino in grado, a ben vedere, di avvalorare ulteriormente le accuse dalle quali intende difendere l’arte italiana. Più avanti Zuffi, allorché dipana l’elenco di «tutti quegli artisti che esprimono invece temi anche politici», mostra tuttavia di aver compreso la differenza tra arte sempre, benché implicitamente, politica ed arte che affronta tematiche politiche, ma il fatto che senta il bisogno di aggiungere quell’ “anche” rischia di portare, per la seconda volta, acqua al mulino di Sacco. Sia in Zuffi che in Cavallucci (ma quest’ultimo è giustificato dal fatto che il suo articolo non è specificamente incentrato sulla questione di cui ci stiamo ora occupando) manca infine ogni riferimento allo stato di salute attuale della coscienza politica nella società italiana in generale, che, nel momento in cui si intende argomentare sul grado di politicità dell’arte non mi pare propriamente un aspetto da porre tra parentesi. Tale riferimento è in verità assente anche in Sacco, ma il suo ipotizzare che una nuova stagione di conflittualità sociale potrebbe essere dietro l’angolo, benché egli pensi prettamente “ad una conflittualità inedita di tipo generazionale” (posizione assai discutibile, ma non è questo che ora mi preme), lascia intendere che egli giudichi appunto il momento presente non particolarmente conflittuale.



Giuditta Nelli, IMPOSSIBLE SITES dans la rue à la Biennale d'Art Africain DAK'ART OFF, 2010.

Premettendo che sono profondamente convinto che l’odierno quoziente di politicizzazione delle tematiche potrebbe essere maggiore se vi fosse in atto nel nostro paese un livello di conflittualità più elevato quantitativamente e qualitativamente, conflittualità che pure per molti versi non manca ma che rimane, a mio parere, ancora insufficiente rispetto alla gravità della situazione, che peraltro è di dimensione mondiale, e pur apparendomi alquanto problematico rispondere ad una domanda del tipo “l’arte italiana politica o meno?”, ritengo di poter fermamente sostenere che l’arte italiana è comunque più politica di quanto possa apparire a molti e ciò per un motivo molto semplice: la facilità con cui si tralascia di prendere in considerazione artisti validi che hanno il solo torto di non appartenere a gallerie particolarmente di spicco, o magari non di essere rappresentati, indipendentemente dal fatto che tale mancanza sia frutto di scelta o meno, da alcuna galleria, una circostanza che possiede necessariamente un peso specifico maggiore nel momento in cui si va in cerca dell’arte politica.



Maria Vittoria Perrelli, Gioventù ribelle. Archivio del dissenso, 2006-2009.

Per una più organica comprensione della portata italiana del fenomeno consiglierei pertanto di considerare, ad esempio, gli appelli al risveglio delle coscienze, specie in rapporto alle insidie della criminalità organizzata campana, che conduce da qualche anno, ambientandole spesso e volentieri nello spazio pubblico, di Rosaria Iazzetta; i video sulla percezione mediatizzata, sulla questione psichiatrica, e su altre tematiche di carattere socio-antropologico, di Salvatore Manzi; il sollevamento di questioni assai controverse, come il signoraggio bancario o la vicenda delle Twin Towers, praticato da Giacomo Faiella; l’indagine sui concetti di censura e sostenibilità cui Ur5o sottopone ogni aspetto della realtà; le metafore decrescenti, orchestrate con peculiare piglio antispettacolare, di Michelangelo Consani; le rievocazioni storiche della resistenza partigiana (e di ogni lotta di liberazione) elaborate da Ciro Vitale; le riflessioni sugli odierni conflitti bellici, sull’informazione manipolata o sulle morti bianche di Stefano Lupatini; l’ironica quanto amara satira del divismo, le cui logiche sono in grado di erodere rovinosamente i principi della democrazia, sviluppata da Rosa Futuro; le riconciliazioni tra uomo e natura attraverso l’arte tentate, sulla scorta del pensiero antroposofico di Rudolf Steiner, da Emanuela Ascari; l’esplorazione incessante di “luoghi impossibili dello spazio e della mente”, tra “incrementarsi inesausto della rete di relazioni” e “denuncia dello stato di fatto”, condotta da Giuditta Nelli; gli attacchi alla presunta superiorità della “civiltà occidentale” contenuti in alcuni video di Pier Paolo Patti; il sovrapporsi di pulsioni creative e desideri palingenetici tipico di Katia Alicante; gli archivi (Gioventù ribelle. L’Archivio del dissenso in primis) o le tracce sonore di Maria Vittoria Perrelli; le ricognizioni sui fenomeni migratori e, più recentemente, sul mondo del lavoro, anche a partire dalla sua specifica esperienza, di Giuliana Racco; la messa a fuoco della sempre più spinta quanto paradossale trasformazione dell’acqua in un bene di lusso operata da Domenico Di Martino.



Giuliana Racco, I miei anni invisibili (2003-2008) , 2008.

Sono questi alcuni degli artisti con i quali ho lavorato in questi anni o che comunque seguo con attenzione. I loro nomi costituiscono, a mio parere, una buona parte di quella che è l’arte politica italiana oggi. Tra essi vi è chi ultimamente ha ottenuto anche discreti riconoscimenti dal mondo dell’arte ufficiale, chi verosimilmente li otterrà di qui a poco, ma anche chi li ha ottenuti e poi ha preferito ritirarsi ai margini di esso o chi non li ha mai cercati preferendo fin dall’inizio operare in semi-clandestinità. C’è chi non disdegna affatto i circuiti istituzionali e chi pur non disdegnandoli cerca anche altri circuiti non convenzionali; chi rimane a distanza dal sistema delle gallerie perché conduce una ricerca che poco stimolerebbe il cubo bianco e chi si dichiara apertamente contrario a tale sistema. Si tratta di posizioni tanto varie ed articolate quanto pienamente discutibili, ma, in ogni caso, tutte ugualmente rispettabili e legittime e dunque non equamente in grado di pregiudicare in un senso o in un altro la valutazione critica della loro produzione. Diversamente il discorso sull’arte politica rischia di adottare le medesime logiche che ormai informano quell’evento farsesco che è diventato il concertone romano del Primo Maggio, dal quale, senza neanche comprendere la contraddizione in termini, i 99 Posse, evidentemente giudicati non sufficientemente capaci di fare cassetta, sono oggi esclusi!

Stefano Taccone

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