lunedì 31 maggio 2010

KATIA ALICANTE – giOCAre alla trasformazione del quotidiano

L’attitudine al “partire da sé”, in vista dell’avvento di una società in cui il benessere di un individuo non corrisponda sistematicamente al malessere del proprio simile, vicino o lontano nello spazio che sia, si esplica nella dimensione partecipata del gioco orientato verso funzioni educative non meno che ricreative nell’installazione interattiva di Katia Alicante, già presentata in occasione del secondo dei quattro tempi dell’evento espositivo e seminariale Comincia adesso! (febbraio-marzo 2009), ma ancora in forma ridotta ed in uno spazio chiuso come Ventre, e quindi a Piazzetta Nilo, nel centro storico di Napoli, nell’ambito delle iniziative per la Marcia Mondiale Per la pace e la Nonviolenza (2 ottobre 2009), ma purtroppo scarsamente fruita a causa dell’ infame tempo meteorologico, e dunque solo sabato scorso finalmente valorizzata a pieno con l’inaugurazione dell’VIII edizione dei Cortili dell’arte a Villaricca, progetto ideato dall’Associazione Culturale ARTEXARTE.



Le pratiche intergenerazionali di Katia, benché sempre particolarmente ispirate e rivolte al mondo dell’infanzia (esemplificativo, a tal proposito, è il suo intervento nell’ambito della collettiva Incontri di frontiera, da me curata insieme a Pina Capobianco presso il Centro Hurtado di Scampia, ove, dopo aver impegnato i bambini del centro in un laboratorio accelerato di autocoscienza, fa sì che l’intera esperienza confluisca nel sito web www.nonmeloricordopiu.it), non trovano nella mera visualità che un punto di partenza per un coinvolgimento delle intere facoltà mentali e sensoriali. Un celebre gioco da tavolo, il gioco dell’oca, originariamente simboleggiante i pericoli fisici e morali della vita, viene trasposto nello spazio pubblico, riconducendo così, almeno in parte, il simbolo al suo referente, e riempito di nuovi contenuti che reimpostano radicalmente il concetto di pericolo, convertendolo ad una logica comunitaria. Quell’unica immensa comunità che, nell’epoca del capitalismo giunto, parafrasando una celebre definizione di Guy Debord, ad un grado di espansione tale da divenire globale, è il nostro pianeta, ove la connessione tra eventi anche lontanissimi l’uno dall’altro, o almeno tali secondo una concezione ancora analogica della lontananza, configura una matassa che appare ogni giorno meno facilmente dipanabile. É così che tanti risvolti ed implicazioni possono facilmente essere relegati nella soffitta della nostra coscienza perché non la erodano irreparabilmente, né l’unidimensionalismo egemone che informa il sistema mediatico mondiale (non certo solo quello italiano) può rivelarsi di grande aiuto ad invertire la tendenza, che al contrario consolida quando non la istituisce direttamente.



Eppure la vicenda di Gulliver, bloccato da lillipuziani legando ciascuno un singolo capello, offre un barlume di speranza alla moltitudine dominata, mentre pone all’uomo occidentale un dilemma simile a quello del popolo ebraico: rimanere nella cattività egiziana o raggiungere la terra di Canaan sfidando il deserto? È infatti un cammino impervio quello a cui si è chiamati, implicante l’abbandono della soddisfazione del desiderio come valore supremo, principio sul quale si fonda il perpetuarsi del capitalismo in quanto sistema sviluppista, che infatti entra in crisi allorché la spirale della volontà di volere per qualche motivo si inceppa, ma è anche promessa di uno stato di maggiore possibilità di autodeterminazione dell’io, accanto naturalmente all’autodeterminazione che le ragioni dell’imperialismo transnazionale negano oggi almeno alla metà degli esseri umani.



Se il percorso che Katia Alicante pone letteralmente sulla strada degli spettatori non sfugge all’universo del simbolico, esso dispiega però un registro linguistico più incisivo di una lama. L’inserimento nel contesto dei “Cortili dell’arte”, pur procurandole una cornice più specificamente connotata di quella di Piazzetta Nilo, ove sarebbe stato in grado di aprirsi al contributo davvero di chiunque, anche, spesso e volentieri, di persone assolutamente ignare di cosa stesse succedendo (se il tempo fosse stato clemente, s’intende), non scalfisce sostanzialmente, specie se si considera il carattere felicemente antielitario della manifestazione, rispetto alla media di quanto avviene nel sistema dell’arte, per la sua capacità di suscitare un’ampia partecipazione della cittadinanza, l’ispirazione di fondo: la necessità che ognuno faccia la sua parte.

Stefano Taccone


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