(Testo che ha accompagnato la mostra archivio su Claudio Catanese RELOAD, ospitata negli spazi del Museo Hermann Nitsch di Napoli, da giovedì 9 maggio a sabato 8 giugno 2024)
«Chi è stato Claudio Catanese?», mi ripeto in procinto di scrivere questo
testo per me particolarmente delicato. Poi ribalto la domanda: «Cosa sarebbe
stata Napoli, il mondo delle arti visive, e della creatività in generale, senza di lui
e di quelli come lui - che pure assurge a personaggio forse maggiormente
emblematico di un modo di vivere, di agire e, a monte, di pensare – in questo
quarantennio di postmoderno e seguenti?». Egli si forma in un tempo, almeno
apparentemente, lontano anni luce da quello attuale, quando, da una parte, una
prospettiva rivoluzionaria sembra tangibile, persino imminente, e dall’altra, la
rivoluzione è parzialmente già vita quotidiana, perché si esce per le strade, si
progetta, si sogna e i sogni di libertà – non meramente liberale - si incarnano
nella prassi, scalzando, ridicolizzando, mettendo in critica i sogni divanisti dello
spettacolo capitalista, che pure col senno di poi, lo sappiamo, vinceranno.
Già, perché Claudio, come molti suoi amici, compreso il sottoscritto, appartiene al versante dei perdenti di questo mondo, benché non tutti, anzi una minoranza della minoranza, sappiano occupare quel posto con il suo garbo e la sua classe. La sua prospettiva rivoluzionaria non prevede mai violenza e bombe. Le bombe le mette la borghesia, da Piazza Fontana in poi, e il Teatro Comunitario di Toni Ferro, passaggio fondamentale, ineludibile, per la sua formazione, deve essere inquadrato storicamente anche alla luce di quei fatti, come resistenza alle forze reazionarie che intendono soffocare la creatività del politico ed alla dispersione ed allo scoraggiamento dello stesso movimento anarchico, subito pretestuosamente additato come responsabile – da Giuseppe Pinelli a Pietro Valpreda la storia è nota.
Durante l'inaugurazione della mostra al Museo Nitsch. Photo di Armando Paciocco.
Al più tardi, con gli anni del riflusso, dell’individualismo, del rampantismo
– anche, e non meno, nel campo delle arti – comprende che la contrapposizione
frontale è svantaggiosa, suicida. Se quella gioia piena che promette l’epoca della
sua giovinezza è sbiadita come la vegetazione d’autunno, bisogna interrogarsi
sulla complessità dell’esistere sociale, comprendere che cosa è andato storto e
perché non poteva andare altrimenti. Da qui, tra l’altro, le lunghe permanenze a
Londra, Amsterdam, Zurigo e poi ancora a New York, Los Angeles, fino al ritorno
definitivo nella sua amata Napoli, ma senz’altro con una diversa coscienza.
Appropriarsi di spazi, anche nel senso più letterale del termine – si veda
l’esperienza di “Blu Cobalto”, che apre nel 1993, insieme a Davide Carnevale,
Antimo De Santis, Giampiero Di Lello e Lisa Weber, nel centro storico, a pochi
passi dal “Corpo di Napoli”, in un locale già studio d’artista, sottratto al destino
di diventare sala per biliardini –, ove vivere forme di vita differenti, ove la
colonizzazione dell’immaginario può trovare un argine, ove all’omologazione dei
desideri, e quindi delle attitudini, dovrebbe fare da contraltare il semplice
esserci insieme creativamente, ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno
secondo i suoi linguaggi, in una polifonia che se ne infischia dell’irregimentata
carriera dell’artista di sistema che proprio all’ombra del Vesuvio – tra critici e galleristi, oltre che artisti – trova in questi anni uno dei poli più emblematici in
tal senso.
Particolare dell'allestimento della mostra al Museo Nitsch. Photo di Armando Paciocco.
L’opera di Claudio presenta infatti momenti di produzione individuale di
gran pregio, peraltro declinata nei più svariati media. Una pittura che esplora
anarchicamente le mille combinazioni tra figurativo e non figurativo, tra
geometrico, gestuale e materico, non disdegnando il prelievo di oggetti. Nel ciclo
delle Passwords, intorno al 2007, essa diventa piuttosto poesia dipinta,
perlustrando le combinazioni ritmico-significanti del linguaggio in una modalità
che denuncia una parentela, sia pure un po’ alla larga, con i modi lettristi:
conciliare suono, segno e colore (1: Cfr. Claudio Catanese. Passwords, catalogo
della mostra, Kaplan’s project n° 3, Napoli, 23 dicembre 2007 – 15 marzo 2008).
Una soluzione in cui il pittorico trova una sintesi con la sua parallela attività di
scrittura para-poetica, sia pure sovente legata alla misura del frammento,
affidata in buona parte a quaderni di uso privato e continuamente scandita da
segni e disegni, testimonianze del continuo ribollire del suo cervello e vibrare
della sua mano. Senza dimenticare l’autoproduzione di composizioni elettroniche
audio, cui si dedica nell’ultimo periodo della sua vita.
Claudio Catanese, password x 4, 2007.
La dimensione in cui ritroviamo il suo spirito più autentico è però – ne sono
convinto – quell’esserci insieme creativamente già evocato sopra. L’imprinting è
certo dato dall’esperienza nel Teatro Comunitario di Toni Ferro (2: Sul Teatro
Comunitario di Toni Ferro cfr. il mio La contestazione dell’arte, Phoebus Edizioni,
Casalnuovo di Napoli 2013, pp. 81-98; sulla figura di Toni Ferro in generale cfr.
D. Di Marzio, T. Ferro, Attraversamenti, 2 vol. Edizioni Eclissi, Squillace Lido
2003; P. Doria, Joseph Beuys e Toni Ferro artisti del dissenso. Poetica, etica e
pedagogia libertaria, Gangemi Editore, Roma 1997; L. Paonessa, Toni Ferro.
Teatro e oltre, Silipo & Lucia Editori, Catanzaro 1991; in particolare, infine, sul
rapporto di Claudio col Teatro Comunitario e lo stesso Toni Ferro cfr. il mio
Anarchismo e teatro di strada. Quando Claudio Catanese mi raccontò di Toni
Ferro e del Teatro Comunitario, in “sdefinizioni”, Napoli, dicembre 2022,
www.sdefinizioni.altervista.org/sdefinizioni_art_mag/rilevazioni_2_2022.html )
e in generale dallo strettissimo rapporto di amicizia-discepolato con tale
purtroppo ormai semi-dimenticato protagonista dell’avanguardia teatrale
napoletana e non solo, dal rapporto con il gruppo gemello del Living Theatre di
Julian Beck e Judith Malina, ma non dimenticherei una figura cardine della Napoli
artistica per almeno due decenni – dalla fine degli anni Cinquanta alla fine degli
anni Settanta -, Luigi Castellano (Luca), con il suo grande carisma di aggregatore
di collettività tra la produzione artistica e la militanza politica.
La ripresa di certi motivi, sia pure radicalmente trasformati, in quanto assai
differente è il momento storico, oltre che storico-artistico, sembra possibile alla
fine degli anni Ottanta, quando il cielo grigio del “ritorno all’ordine” pare
squarciarsi da più parti. Sono gli anni del crollo del muro di Berlino, ma anche
del movimento della Pantera, nonché del (ri)fiorire dei centri sociali da Milano a
Napoli. Un nuovo orizzonte di possibilità si dischiude, insomma, e, sullo scenario
artistico napoletano in particolare, emergono, come scrive Francesca Boenzi,
tentando un primo embrione di storicizzazione, «una serie di iniziative
indipendenti determinanti per comprendere i canali attraverso cui un rinnovato
sentimento che potremmo, con le dovute riserve, definire di ‘avanguardia’, cerca
di conquistare spazi di libertà al di fuori del sistema artistico che va sempre più
irrigidendosi nella dicotomia gallerie private/istituzioni» (3: F. Boenzi, Il tempo
dovuto, in A. Dentale, C. Esposito (a cura di), Transiti d’arte. Dall’avanguardia
al contemporaneo, Alfredo Giuda Editore, Napoli 2011, p. 44).
Se lo stimolo dell’artista Fluxus statunitense Al Hansen, spesso a Napoli in
quanto legato allo Studio Morra, è fondamentale per tutto questo giro di artisti
campani votati all’underground, se, in un ideale riannodare il filo con una
tensione sperimentale, rappresentata dalla generazione precedente, che le
vicissitudini storiche spezzano a suo tempo bruscamente, si tenta con successo
il coinvolgimento di personaggi come il celebrato quanto schivo Giuseppe
Desiato, l’imprevedibile ed iconoclasta Vincent D’Arista, il cui nome è
indelebilmente legato alla Galleria Inesistente (4: Sulla Galleria Inesistente cfr.
L. Berti, La Galleria Inesistente. Pratiche artistiche di un gruppo anonimo tra gli
anni '60 e ’70, Franco Angeli, Roma 2015; L. Berti, Lo strano caso della Galleria
Inesistente, in L. Palermo, a cura di, Arte in movimento. Gli anni Settanta in
Campania, Postmedia books, Milano 2018, pp. 33-42; ma anche il mio La
contestazione dell’arte, cit., pp. 99-115), nonché lo stesso Luca, Claudio
Catanese è senz’altro uno dei soggetti che meglio incarna quella stagione, che
più alacremente si impegna attivamente nell’ideare e realizzare facendo
comunità.
In questa direzione va certo la breve – come sempre – ma intensa stagione
del già ricordato spazio di “Blu Cobalto” (1993-1995), un colore che evocherebbe
la speranza, ma nella cui scelta Riccardo Notte coglie anche una sottile allusione,
insieme per analogia e per contrapposizione, ad una galleria napoletana centrale
per la vita artistica cittadina del secondo dopoguerra, “Al Blu di Prussia”. Nulla a
che vedere con quella che ancora Notte definisce eloquentemente «la vacua e
mondana esterofilia artistica in voga nel triangolo d’oro di Piazza dei Martiri» (5:
R. Notte, Il colore dell’arte. “Blu Cobalto” la cultura al centro storico. Successo
per la mostra di Ruggiero ed Esposito, in “Roma”, Napoli, martedì 27 aprile 1993,
p. 24), ché esso è piuttosto definibile come un laboratorio artistico, ove accadono
in maniera frequente ed estemporanea tutta una serie di eventi che non hanno
come protagonisti esclusivamente artisti visivi che mostrano le loro opere, ma
anche musicisti – i 99 Posse ai loro inizi, ad esempio, così come la musica classica
napoletana e persino gli antichi canti svizzeri -; e poi presentazioni di libri,
dibattiti, reading di poesia – memorabile il rapporto che si instaura, tramite il
poeta-operaio Franco Cardinale, con i cassintegrati dell’Alenia. Un presidio di
felice inquietudine ove non solo i confini tra le arti visive e gli altri linguaggi si
fanno labili, ma la stessa distinzione tra artisti e non artisti va scemando in nome
di una creatività diffusa e condivisa.
Ufficio Alchemico Internazionale, Incidente oracolare, 1989, particolare di un disegno preparatorio per l'azione.
Una esperienza che a circa tre quarti di secolo dal Cabaret Voltaire di Hugo
Ball e Tristan Tzara non appare naturalmente paragonabile per contesto e rilievo
storici, ma che pure, per qualche tratto, la ricorda, benché senz’altro alla
tagliente disperazione iconoclasta subentri ora maggior disincanto, ma anche,
oserei dire, maggiore dolcezza e bonomia. È lo stesso Claudio, del resto, a
rivendicare costantemente una certa genealogia, nella misura in cui si definisce
“Post-Dadaista-Psichedelico”, così come, commentando quella che è l’altra
grande esperienza aggregativa gravitante intorno a Claudio in questi anni,
l’Ufficio Alchemico Internazionale (UAI), Mario Lignano osserva: «I nostri si
rifanno più a un Duchamp o un Picabia che a un Paracelso o un Della Porta» (6:
M. Lignano, La terapia del “pollo”, in “Enne”, Napoli, n° 60, domenica 21 aprile
1991, p. 16). Per quanto, infatti, Napoli abbia notoriamente una grande
tradizione alchemico-esoterica – si cita Della Porta, ma al suo fianco potrebbe
immediatamente collocarsi il celeberrimo Raimondo di Sangro -, tutto ciò appare
slittato in senso (anti)artistico, messo in critica - come già in Duchamp di fronte
ad ogni sapere “serio”, scienza compresa – con la potente arma dell’ironia,
caricato di una valenza per tanti versi sociale e quindi, finalmente, risignificato
su di un piano assolutamente essoterico (7: Resterebbe inoltre da mettere a
fuoco l’influenza sull’Ufficio Alchemico Internazionale degli interessi esoterici
dello stesso Toni Ferro, che, documentabili fin dalla giovinezza, emergono al più
tardi negli anni Novanta con le sue Macchine Tantriche. Su questi temi cfr. P.
Doria, Joseph Beuys e Toni Ferro artisti del dissenso, cit., pp. 38-41).
Ufficio Alchemico Internazionale, Sabato brodo, 1989, oggetto adoperato durante l'azione in mostra al Museo Nitsch. Photo di Armando Paciocco.
Creatura innanzi tutto di Tonino Luise, oltre che di Claudio, benché un
contributo importante a molte iniziative sia fornito anche da Salvatore
Scardapane e da Lisa Weber, l’UAI, sorta di antefatto di “Blu Cobalto” (1989-1992), è forse, con il suo nomadismo – a differenza dell’esperienza successiva,
connotata da una sede fissa –, il momento in cui la sua poetica sempre in felice
equilibrio tra gesto soggettivo e dimensione comunitaria, riferimento colto e
ribaltamento creativo, trova il suo trionfo. Incidente oracolare (1989) potrebbe
essere descritto come una reminiscenza ulteriormente grottesca ed attualizzata
del celeberrimo, lautremontiano incontro di un ombrello con una
macchina da cucire su un tavolo operatorio che tanto ispira il movimento
surrealista: nel momento in cui si prova ad inscenare l’incontro tra un ufo e un
tappeto volante, il tutto non può che risolversi in un rovinoso scontro, che parla
di incomunicabilità tra mondi, ma forse anche di un’epoca che, malgrado il
ritorno apparente al mito ed agli eroi degli anni Ottanta, crede ancor meno in
tutto ciò rispetto a cento-cinquanta anni prima. La generazione nata nel secondo
dopoguerra, a differenza di quella precedente, non produce storia ma solo
storiette, concluderà con un pizzico di amarezza Mario Perniola pochi anni prima
della sua dipartita (8: Cfr. M. Perniola, Del terrorismo come una delle belle arti.
Storiette, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2016). Sabato Brodo (1989) non è,
del resto, che una originalissima, grande e straniante performance per dire
qualcosa che si ripete almeno da Duchamp in poi e che tuttavia non smette di
giovare, perché, se l’arte è un inganno, un illusionismo, un’alchimia che di fronte
alla certezza dell’era scientifica appare in tutto il suo anacronismo, essa, così
come la figura dell’artista, non smette di affascinare.
Ma la divergenza rispetto al fascino dell’artista solitario che il bonitolivismo
ed ideologie simili riportano in auge in quegli anni è la stessa che intercorre tra
un’aquila ed un pollo, benché entrambi siano volatili e per quanto non sia così
facile, talvolta, dire dove siano le autentiche aquile e dove siano gli autentici
polli. Forse il pollo gigante che attraversa le strade di Napoli nella primavera del
1991 come terapia collettiva – qui non può sfuggire il precedente della Liturgia
liberatoria per scacciare il colera inscenata sedici anni prima dal Teatro
Comunitario (1975) (9: Cfr. S. Taccone, La contestazione dell’arte, cit., pp. 95-
96), benché si riscontrino analogie, per quanto probabilmente inconsapevoli,
anche con la Processione laica o Processione del cigno dell’Open Laboratory di
Ciro de Falco (1977) (10: Cfr. S. Taccone, La cooperazione dell’arte, Iod Edizioni,
Casalnuovo di Napoli 2020, pp. 237-239) - non vola più alto di certe “aquile
mannare” che neanche possiedono le ali eppure sono rapaci a tutti gli effetti?
Rapaci come chi all’inizio del XX secolo compie l’ecocidio del già idilliaco
litorale di Bagnoli, sostituendo «alla brezza marina […] la “nube purpurea”, agli
orti lussureggianti edifici d’acciaio che partorivano loro stessi» e al mare «una
non ben identificata miscela chimica nella quale nemmeno un Terminator
dell’ultima generazione avrebbe immerso i piedi per farsi un pediluvio» e come
«i pre-potenti» che, ora che finalmente l’Italsider è dismessa, sono già pronti ad
accaparrarsi «gli spazi migliori», lasciando «al popolo le briciole, il… FATTI PIÚ
IN LÀ». Questa la denuncia dell’UAI, che chiama a raccolta venerdì 5 giugno
1992 sulla spiaggia di Coroglio all’insegna dello slogan “NO ALLE
SPECULAZIONI!», onde affidare «il Tesoro Aureo che simboleggia la ricchezza
dei Campi Flegrei a coloro che auspicano uno sviluppo in senso ETICO di questi
territori» (11: Ufficio Alchemico Internazionale, Noi Loro e L’Oro, 1992).
Ufficio Alchemico Internazionale, Noi Loro e L’Oro, 1992, azione.
Ancora una volta ironia e gioco, ma anche invettiva e coscienza sociale;
ancora una volta creatività, ma anche collettività e solidarietà, ancora una volta
il pane e le rose, nella consapevolezza che «un altro mondo è possibile» – come
si dirà di lì a qualche anno - ed esso non può che trovarsi al di là di e contro tutte
le dittature, fedele al pensiero anarchico e all’insegnamento di Toni Ferro: contro
la dittatura della borghesia, ma anche contro quella del proletariato; contro la
dittatura degli artisti, dei critici, dei galleristi, dei musei, ma anche contro la
dittatura dello spettatore, contraddicendo il titolo di una biennale veneziana che
verrà un decennio dopo (12: Mi riferisco naturalmente alla 50ª edizione della
Biennale d'Arte di Venezia (2003), curata da Francesco Bonami e intitolata,
appunto, La dittatura dello spettatore).
Stefano Taccone