(L’intervista,
con un altro titolo, è contenuta nella tesi di laurea di Irene Follador, Riscoperto
il Corpo. Video militante, la Critica istituzionale in Italia dagli anni
Settanta. Relatore: Vincenzo Estremo. Anno accademico: 2023/2024 Naba -
Nuova Accademia di Belle Arti Milano)
I.F.:
Perché la Critica Istituzionale ha avuto un percorso così arduo nel paese?
ST:
Partirei dal presupposto che la critica istituzionale non è un movimento
paragonabile ad altri ad essa contemporanei come il minimalismo o l’arte
concettuale e non tanto per una questione di rilevanza storica, sulla quale si
può sempre discutere, ma per lo scollamento, innanzi tutto cronologico, che
esiste tra il nome e la cosa. Per altri movimenti più o meno ad essa
contemporanei, infatti, l’etichetta e la prassi sul piano temporale coincidono.
Carl Andre sa fin dall’inizio di essere un artista minimalista. Joseph Kosuth,
ha scritto Adachiara Zevi, «è convinto di essere il depositario del credo
concettuale» (1: A. Zevi, Arte USA del Novecento, Carocci Editore, Roma
2000, p. 184).
Lo
stesso atto di associare alcuni artisti per affinità poetiche - Michael Asher,
Marcel Broodthaers, Daniel Buren, Hans Haacke – oltre un decennio dopo (2: Cfr. B. Buchloh, Allegorical Procedures:
Appropriation and Montage in Contemporary Art, in “Artforum”, New York, 21,
n. 1, September 1982, p. 48) nonché il fatto che il nome preciso di questo
“gruppo”, che peraltro non espone mai collettivamente, si affermi pienamente
soltanto nel corso degli anni Novanta, (3: Cfr. almeno
B. Buchloh, Conceptual Art 1962-1969: From the Aesthetic of Administration
to the Critique of Institutions, in “October”, Boston, 55, Winter 1990; J.
Meyer, What Happened to the Institutional Critique?, exh. cat.,
American Fine Arts, New York 1993; Hal Foster, What’s Neo About
the Neo Avant-Garde?, in “October”, Boston, 70, Fall 1994; Frazer
Ward, The Haunted Museum: Institutional Critique and Publicity, in
“October”, Boston, 73, Summer 1995)
senza dimenticare che
tutta questa vicenda, storico-critica – benché non quella storico-artistica -
ha come teatro esclusivamente gli USA, la dice lunga.
In
Italia si comincia a parlare seriamente di critica istituzionale con
riferimento alla prima ondata, ma anche alla seconda, non prima della metà del
primo decennio del nuovo secolo. Come è lecito ipotizzare che la critica
istituzionale di prima generazione sia stata individuata dalla seconda
generazione - Mark Dion, Renée Green, Andrea Fraser - e dai critici ad essa
vicini – Buchloh innanzi tutto, ma anche James Meyer, Hal Foster - attraverso
una lenta gestazione tra anni Ottanta e Novanta, così è plausibile riconnettere
l’interesse per la critica istituzionale in ambito italiano al fiorire dei
musei di arte contemporanea nelle maggiori città del nostro paese almeno fino
alla battuta d’arresto della crisi del 2008. Questo fa sì che, pur prendendo
per buona – ma ci sarebbe da discutere – l’affermazione di Andrea Fraser (2005)
secondo la quale la critica istituzionale non si è istituzionalizzata, ma è
sempre stata istituzionalizzata (4: A. Fraser, From
the Critique of Institutions to an Institution of Critique, in “Artforum”,
New York, 44, n. 1, September 2005, trad. it. di una versione leggermente
modificata dall’artista in S. Chiodi, a cura di, Le funzioni del museo.
Arte, museo, pubblico nella contemporaneità, Le Lettere, Firenze 2009, p.
84), in Italia la essa è assunta in una dimensione che più
istituzionalizzata non si può.
Emblematico
di tale dinamica è il convegno Le funzioni del museo, a cura di Stefano
Chiodi, che si tiene nel 2009 a Palazzo delle Esposizioni, ma è organizzato dal
MAXXI, che ancora attende la celebre sede di Zaha Hadid. E ciò non solo e non
tanto, come pure non manca di far notare, per la sede museale, ma proprio per i
contenuti, i toni e le impostazioni generali dell’evento.
Non
di meno il rapporto tra la critica istituzionale e l’Italia non può e non deve
essere ridotto a tale esito. Esiste almeno un’altra chiave per approcciare alla
questione italiana della critica istituzionale, validata proprio dal fatto che,
come argomentato sopra, fin dall’inizio il riferimento sarà anche stato alle
vicende artistiche effettive, ma la dimensione è quella del dibattito in ambito
storico-critico. In altre parole, se il primo canone della prima generazione
prevede Michael Asher, Marcel Broodthaers, Daniel Buren ed Hans Haacke e da
allora in poi, attraverso varie altre occasioni – articoli, convegni, saggi –
la critica internazionale propone integrazioni ora avanzando quello, ora
avanzando quell’altro nome – e qualche volta lo fa anche qualche critico
italiano, come si evince dal volume degli atti del convegno del 2009 -, (5: Cfr.
in particolare G. Verzotti, Esperienza e spettacolo. Una “critica
istituzionale” per i nostri tempi, in S. Chiodi, a
cura di, Le
funzioni del museo, cit.,
pp. 145-150) nulla vieta di proporre una possibile storia della critica
istituzionale in Italia sulla falsa riga di quella internazionale, basandosi
cioè sulle “griglie” tipologiche e cronologiche della prima, seconda e terza
ondata, ma tenendo conto delle specificità del contesto italiano.
Tentativi
in tal senso non esistono ancora, se non un abbozzo, per quanto non privo di
preziose indicazioni, di Maria Grazia Messina, pure scaturito dall’episodio
romano (6: Cfr. M. G. Messina, Modi italiani di critica istituzionale,
in S. Chiodi, a cura di, Le funzioni del museo, cit. pp. 133-143).
Non di meno sono convinto che una critica istituzionale con “caratteristiche
italiane” sia assolutamente individuabile dalla fine degli anni Sessanta ed
anche prima e che ancora oggi molti artisti italiani presentino tratti
assimilabili alla critica istituzionale nelle loro opere.
Una
importante intuizione di Messina, da cui ritengo si possa e si debba partire, è
la qualità del potere artistico nell’Italia degli anni Sessanta, diversa da
quello degli USA. In Italia, cioè, il potere non è allora rappresentato dai
grandi musei di arte contemporanea, giacché, se si esclude la Galleria d'Arte
Moderna di Roma, a differenza degli USA, non ne possiede. Il potere dell’arte
contemporanea si identifica ancora assai più con la critica. In tal senso lo
snodo fondamentale risiederebbe nel celebre conflitto tra Carla Lonzi e Giulio
Carlo Argan, (7: Cfr. C. Lonzi, La solitudine del
critico, in “Avanti!”, Roma, 13 dicembre 1963; ora in C. Lonzi, Scritti
sull’arte, Et al./ Edizioni, Milano 2012, pp. 353-356) ed una storia
della critica istituzionale in Italia dovrebbe pertanto individuare i suoi
soggetti di punta non solo negli artisti, ma anche in alcuni critici, tra cui
appunto Lonzi.
Andrea
Fraser, Il
piccolo Frank e la sua carpa, 2001, frame da videotape performance, Guggenheim
Museum Bilbao.
IF: Nel contemporaneo
quale è lo stato del movimento di critica in Italia?
ST:
Sul piano della ricerca storica e dell’analisi critica, dopo quel convegno del
2009 non mi pare si sia visto tanto altro. L’interesse, dopo qualche anno, non
dico che è andato scemando, ma si è andato quanto meno stabilizzando. È
probabile che ciò, come accenno sopra, sia da collegare ad una fase storica
nuova, le difficoltà dei musei d’arte contemporanea – e non solo quelli – come
conseguenza della crisi economica.
Segnalerei
certo il pregevolissimo studio su Marcel Broodthaers di Serena Carbone, uscito
nel 2018. Per quanto esso possieda l’ambizione di essere ben più che una
monografia su un artista, ma intenda fornire, come scrive la stessa autrice,
«possibili chiavi di lettura ed interpretazione dell’arte di Broodthaers e di alcune tecniche, soluzioni e
stratagemmi che da allora non smettono di ripetersi nell’arte contemporanea» (8:
S. Carbone, Marcel Broodthaers. Poetiche dell’ombra, Mimesis, Sesto San
Giovanni 2018, p. 19) - e dal mio puto di vista ci riesca anche -, non si
tratta di un libro che affronta la critica istituzionale sul piano delle
questioni generali, più di quanto non lo faccia il mio su Hans Haacke otto anni
prima (2010) (9: Cfr. S. Taccone, Hans Haacke. Il contesto politico come
materiale, Plectica Editrice, Salerno, 2010).
Tale
avrebbe potuto – e voluto – essere probabilmente il libro Maurizio Coccia
pubblica l’anno seguente (2019), da considerarsi comunque la prima monografia
in Italia che possa dirsi dedicata al tema della critica istituzionale e
precedente di ben tre anni la mia (2022), (10: Cfr. S. Taccone, La critica
istituzionale. Il nome e la cosa, Ombre Corte, Verona, 2022) che comunque è molto diversa.
Tuttavia, ai miei occhi, lo studio risulta ahimè inevitabilmente approssimativo
innanzi tutto nella misura in cui pretende di far entrare troppe, troppe
questioni in troppe, troppe poche pagine e, non dico di esaurire l’argomento,
ma di fornire un contributo realmente significativo per ciò che sarebbe stato
lecito attendersi. Sommari risultano così quasi tutti i territori da lui
lambiti con una sorta di fretta che non si giustifica; generalizzazioni inique
sono pronunciate sui movimenti di contestazione e sugli stessi snodi delle
vicende storico-artistiche. Non si può tralasciare, in particolare, il
carattere sbrigativo con il quale liquida la complessa questione italiana, non
facendo che appoggiarsi all’autorità di qualche rigo del già ricordato saggio
di Messina o a qualche parola di Pietroiusti, ma rinunciando praticamente
apriori ad una verifica autonoma (11:
Cfr. M. Coccia, Il leone
imbrigliato. Artisti, istituzioni, pubblico, Castelvecchi, Roma 2019).
Ancora
una volta però non bisogna cercare la critica istituzionale solo nelle parole
degli storici e dei critici, ma, ad esempio, nella prassi concreta degli
artisti, per quanto non si richiamino per lo più esplicitamente alla critica
istituzionale. Potrei fare assai più nomi, di quanti effettivamente ne tirerò
fuori, di artisti italiani emersi nell’ultimo quindicennio-ventennio che vanno
in questo senso, ma mi limiterò ad uno il cui lavoro è ormai tutto lì da
studiare senza che, purtroppo, possa aggiungersi nient’altro al suo corpus,
Chiara Fumai. Non penso tanto alle storie
reali sulle quali negli ultimi anni di vita concentra la sua attenzione,
bensì al suo esplorare, tra il 2007 e il 2010, tutte le possibilità di una
storia immaginaria intorno alla figura del padre, Nico Fumai, attraverso la
produzione di tutta una documentazione giocosamente posticcia, ma assai
verosimile, da cui si evincerebbe l’identità del cantautore italiano che,
avendo esordito nel 1963 ed essendosi ritirato dalla scena musicale nel 1987,
avrebbe contribuito al passaggio dalla canzone italiana romantica alla Italo
disco, una operazione non priva di un certo sapore broodthaersiano (12: Per
approfondire il suo lavoro liberamente ispirato alla figura del padre cfr.
www.guidocostaprojects.com/it/mostre-e-artisti/194-chiara-fumai/462-nico-fumai-being-remixed.html).
Detto
ciò, rimanendo ancora sullo specifico versante della produzione artistica, ci
sarebbe da operare una ricognizione più accurata sugli artisti emergenti negli
ultimi, ultimissimi anni, quelli nati mediamente almeno quindici-venti anni
dopo Fumai (1978-2017). Potrebbe essere in tal senso produttivo esaminare il
lavoro specificamente artistico che viene dai membri di punta di Art Workers
Italia (AWI), oltre che le loro iniziative di gruppo, per quanto ammetta di non
saperne molto e di non aver voluto approfondire molto la loro attività non solo
per mancanza di tempo – che pure mi è mancato - in questi ultimi anni, ma anche
per le loro attitudini troppo “sindacaleggianti”, sulle quali ho delle
perplessità e che mi sembrano infine poco produttive sul piano di un esercizio
critico che vada realmente alle radici, per quanto pongano delle questioni non
certo infondate (13: L’attività di AWI è ben documentata sul sito
www.artworkersitalia.it). Lo dichiaro a costo di provocare dissapori ed
inimicizie. Si confronti il profilo e l’attività di AWI con quanto più o meno
contemporaneamente è emerso negli USA: penso a StrikeMoMA, del quale in Italia
si è parlato ben poco (14: Sul fenomeno cfr. S. Cavaliero e I. P. Rivas, a cura
di, Dancing on the rubbles. Strategie plurali di riorientamento per il museo
decolonizzato. Intervista ai membri di StrikeMoMA, in “hotpotatoes”, Milano, 5
agosto 2021, www.hotpotatoes.it/2021/08/05/dancing-on-the-rubbles-strike-moma/
; Strike MoMA: Contesto e condizioni dello sciopero, traduzione in
italiano del manifesto, in “hotpotatoes”, Milano, 5 agosto 2021,
www.hotpotatoes.it/2021/08/05/strike-moma/). Mi limito a riportare una loro
dichiarazione breve ma assai eloquente affinché si colga lo scarto di livello
di radicalità che c’è tra il movimento italiano e quello statunitense:
Quando scioperiamo
contro il MoMA, scioperiamo contro la sua modernità intrisa di sangue. Il
monumento sulla 53esima strada diventa il nostro prisma. Vediamo le nostre
storie e le nostre lotte riflesse nella sua struttura cristallina, e
intravediamo futuri appena schiusi. Il museo si trasforma in un teatro di
operazioni dove i movimenti interconnessi per la decolonizzazione,
l’abolizione, l’anticapitalismo e l’antimperialismo possono ritrovarsi l’un
l’altro. Perché Strike MoMA? Per far sì che qualcos’altro emerga, qualcosa che
stavolta sia sotto il controllo dei lavoratori, delle comunità e dellз artistз,
piuttosto che dei miliardari! (15:
S. Cavaliero e I. P. Rivas, a cura di, Dancing on the rubbles, cit.)
D’altra
parte, bisognerebbe capire anche, a quasi tre anni di distanza, cosa resta di StrikeMoMA,
in quali esperienze è poi eventualmente confluisce o quali processi innesca,
cosa che richiederebbe una ricerca ad hoc. L’esperienza di AWI, nato dalla
spinta propulsiva della prima ondata della pandemia, mi pare ormai invece
rifluita. O sbaglio?
Infine,
qualche parola vorrei spenderla approcciando la questione da un terzo versante,
quello dei musei come protagonisti della critica - o presunti tali. Sia quelli
in senso stretto, sia quelli “pseudo”, sia quelli che fanno in qualche modo
incontrare tali esperienze.
Nel
primo caso penso al museo Madre di Napoli durante la direzione di Andrea
Viliani (2013-2019), il quale dichiara di aver pensato fin dall’inizio a forme
in grado «di ribaltare il punto di vista e dare quindi possibilità di
interpretare il museo non solo all'artista – che pure rimane al centro della
concezione di tutti i progetti –, ma anche al pubblico, affinché quest’ultimo
diventasse un elemento di potenziale ridefinizione del museo», individuando in
tutto ciò certo anche come una lontana genealogia nella critica istituzionale
storica, ma di fatto approssimandosi al cosiddetto Nuovo Istituzionalismo, (16:
Sul fenomeno cfr. almeno J. Ekeberg (a cura di), New Institutionalism,
OCA/verksted, Oslo, 2003; OnCurating, “(New)Institution(alism)”, n. 21,
December 2013) ovvero quella attività che rinviene i suoi
inizi nella metà degli anni Novanta, il suo epicentro nella Mitteleuropa, i
suoi protagonisti nei curatori-direttori di museo e con la quale molti
identificherebbero la terza ondata della critica istituzionale. Ma già nel 2017
riconosce, con grande onestà intellettuale, di non aver conseguito gli
obiettivi previsti ed individua anche le cause: «il pubblico è stato
condizionato dal fatto che il museo, con i suoi referenti operativi interni,
fosse sia il proponente che l'esecutore di quel programma. Ad alcuni anni di
distanza mi trovo ad osservare che un soggetto che interpreta la missione del
museo dall'interno del museo stesso, per fornire servizi di efficienza, non è
forse quello più adatto per mettere in crisi se stesso, o quantomeno per
fornire delle alternative a se stesso». Diverso sarebbe stato, invece, conclude
lo stesso Viliani, affidare il compito «a un curatore o a un collettivo
curatoriale o a un artista (che) avrebbe potuto valorizzarne il potenziale alternativo»
(17: Tutte le citazioni sono tratte da una intervista inedita rilasciata da
Viliani al sottoscritto il 21 novembre 2017. Il progetto che inquadra tutti i
dispositivi di “critica istituzionale” del museo ha per titolo Per_formare
il Museo, evidentemente riecheggiante l’altro, più celebre, progetto di
mostra in divenire Per_formare una collezione. All’epoca dell’intervista
è ancora possibile trovare sul sito del museo tracce consistenti di Per_formare
il Museo; ora naturalmente non più. Indicazioni per approfondire queste
tematiche potrebbero però venire dal volume intitolato appunto Per-formare
il museo, Electa Mondadori, Milano 2013, ma anche dalla lectio magistralis Per_formare
musei tenuta da Vilani al Marco Asilo il 13 aprile 2019 e documentata al
seguente indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=DyeBR-fF3jE).
Nel secondo caso, penso al MAAM Museo
dell'Altro e dell'Altrove di Metropoliz_città meticcia di Roma, inaugurato nel
2012 per iniziativa dell’antropologo, ormai a tutti gli effetti curatore, Giorgio
de Finis, ma fondato sulla preesistente occupazione a scopo abitativo dell’ex
salumificio Fiorucci, sorta fin dal 2009 grazie agli sforzi del collettivo Blocchi_Precari_Metropolitani
(BPM), Space Metropoliz, e dimora di africani e sudamericani, di esteuropei e
di italiani. La collezione, comprendente centinaia di opere, è pensata fin dal
principio, stando alle parole dello stesso de Finis, come «una barricata d’arte
a difesa dell’occupazione e dei suoi abitanti», nonché come antidoto per
scongiurare «l’effetto enclave, un rischio che Metropoliz corre dovendo
proteggersi dietro un cancello chiuso». Da una parte ne scaturisce «un “altro”
modello di museo, un museo abitato e contaminato dalla vita», dall’altra
l’insieme appare leggibile come «un’opera corale […] un grande “mosaico” alla
cui realizzazione ciascun artista partecipa con la propria tessera» (18: G. de
Finis, Il primo museo abitato del pianeta Terra della Luna, in Id., a
cura di, Forza tutt*. La barricata dell’arte, Bordeaux
edizioni, Roma 2015, pp. 8-9). Certo ormai gli
“anni eroici” del MAAM sono trascorsi da un pezzo. Già con l’assunzione della
direzione del Macro da parte di Giorgio de Finis a fine 2018 e con il
conseguente spostamento del centro delle sue attività in quest’ultimo, essi
sono ormai alle spalle; poi la pandemia e, fin dall’inizio, malgrado la
presenza delle opere, la minaccia incombente di sgombero come una spada di
Damocle su ciascuno dei suoi abitanti e indipendentemente dal colore politico
delle amministrazioni. Ritengo pertanto, con tutti i suoi limiti e al netto del
fatto che non conosco con precisione i suoi ultimi sviluppi, che il MAAM sia
stata una delle esperienze più interessanti nel panorama dell’arte italiana
dell’ultimo ventennio nel suo voler essere differenza ed all’interno
della stessa costellazione, spesso un po’ malconcia, del pensare e vivere
differente (19: Sul MAAM cfr. anche G. de Finis (a cura di), MAAM Museo
dell'Altro e dell'Altrove di Metropoliz_città meticcia, catalogo del museo,
Bordeaux edizioni, Roma 2017).
Nel terzo caso, penso al già evocato
Marco Asilo, ovvero al progetto di de Finis per il Macro che ha vita breve ma
intensissima – si conclude con la fine del 2019. Non è qui mia intenzione
pronunciarmi definitivamente sul valore di quella esperienza, a dir poco
controversa, anche perché intrecciatasi con tutta una serie di contingenze politico-partitiche
che non fanno che produrre ulteriore confusione. Credo però che ancora una
volta de Finis, sempre fatti salvi tutti i limiti dati dall’inevitabile
slittamento - se non vogliamo dire proprio corruzione di certi principi – che
implica una cornice istituzionale in sé, e tanto più se si tratta di uno dei musei
di arte contemporanea di maggior peso del nostro paese, abbia agito nel senso
di una apertura degli orizzonti del possibile, cercando di mettere la sordina
alle logiche mercantili, standardizzate ed impermeabili care a molti che, anche
per questo, lo attaccano apriori (20: Di ciò testimonia, tra l’altro, un volume
che lo stesso de Finis vuole fortemente con un gesto spiazzante. Esso raccoglie
la pletora di articoli che escono a favore o contro la sua direzione prima
ancora che gli siano materialmente consegnate le chiavi del museo, e questo già
testimonia della straordinarietà del caso nel talvolta alquanto stagnante
universo artistico italiano del contemporaneo. Cfr. C. Pecoraro, a cura di, Pro
& Contro, Bordeaux edizioni, Roma 2018).
Potresti a questo punto rimproverarmi di
aver parlato più del passato prossimo che del presente e forse avresti ragione.
Ma anche le omissioni sono linguaggio. Forse è andata così perché in questo
momento il grande episodio di critica delle istituzioni in Italia non saprei
squadernartelo davanti. Forse perché non esiste, forse perché non me ne accorgo
io che possiedo riferimenti ormai troppo vetusti, o forse ancora, meno
drammaticamente, perché tra le mille faccende di cui mi sono occupato in questi
ultimi anni – per amore e/o per forza – ho perso un po’ il polso della
situazione. Tuttavia, ho tentato di dare delle tracce di studio da seguire. I
germi di elementi di critica potrebbero ben essere in giovanissimi artisti che
si sono più o meno formati in questi ultimi anni nell’ambito del WAI, e magari
sono ormai anche maturati mentre ti sto scrivendo. Andrea Viliani è invece
attualmente direttore del Museo delle Civiltà di Roma ed andrebbe verificato
quanto dei propositi già esplicitati ai tempi del Madre sono trapassati in
questa nuova esperienza. Conosco pochissimo, infine, dell’attività di Giorgio
de Finis come direttore del Museo delle Periferie di Roma, ma per quanto ne so
continua ostinatamente un percorso consolidato, un camminare domandando come
insegnò l'EZLN.
Chiara Fumai, Chiara
Fumai presents Nico Fumai, 2007-2010, performance.
IF:
Una riflessione: accettare e esporre le critiche sembra essere una pratica
sdoganata nel contemporaneo. Tuttavia, non è largamente praticata nelle
istituzioni italiane, perciò viene da chiedersi perché sembra che i musei
tollerino la Critica Istituzionale solamente quando diretta a altre
istituzioni? Si tratta veramente solo di dimostrare i presunti valori
progressisti?
ST:
Beh, credo di aver già lambito – ma non certo affrontato – il merito di questa
domanda nella risposta precedente, parlando del caso del Madre e di Viliani –
un museo che tenta di fare critica istituzionale -, del MAAM e di Giorgio de
Finis – uno pseudo-museo che già in quanto tale è critica istituzionale – e del
Macro Asilo e ancora di de Finis – come tentativo di trasformare l’istituzione
portandovi l’esperienza della “contro-istituzione”, e pure questa impresa, a
prescindere da come possa essere giudicata, interroga immediatamente intorno
alla nozione di critica istituzionale.
Detto
ciò, devo ammettere che non so rispondere ai perché della tua domanda e ciò
innanzi tutto a causa del fatto che non sono in grado di confermarne i
presupposti. Per affermare con certezza che esiste uno scarto tra istituzioni
italiane e istituzioni estere sul piano della pratica della critica
istituzionale bisognerebbe operare una ricognizione a tappeto che richiederebbe
un grosso lavoro, ma richiederebbe anche una premessa chiarificatrice su quale
valore si intende dare alla critica istituzionale condotta dalle istituzioni
stesse. Bisognerebbe chiedersi, cioè, se è davvero possibile una critica non di
facciata che provenga dalle istituzioni e quale sia il suo orizzonte: una mera
riforma oppure qualcosa di più vigoroso, fermo restando che, quando Fraser sostiene
che mai la critica istituzionale – almeno i suoi esponenti di punta della prima
generazione ed anche nei casi che potrebbero apparire più iconoclasti – intende
abbattere il museo dice il vero (21: «[…] Comunque, chiunque conosca il suo
lavoro deve ammettere che, lungi dal voler abbattere il museo, il progetto di
Haacke è stato un tentativo di difendere l’istituzione arte dalla
strumentalizzazione degli interessi politici ed economici». A. Fraser, From the Critique of Institutions to an Institution of
Critique, cit., p. 85).
Personalmente
resto abbastanza scettico anche su tutti i casi del Nuovo Istituzionalismo che
si verificano negli ultimi decenni nei paesi europei che si è soliti citare
come esempi virtuosi, e non solo per l’arte e la cultura - per quanto la mia
conoscenza di essi non sia approfondita. Intendo dire che essi si iscrivono
sempre e comunque, nella migliore delle ipotesi, all’interno di un paradigma
riformista e socialdemocratico. In quanto tali, il rischio di recuperare gli
elementi conflittuali, divergenti entro le maglie della normalizzazione, per
quanto sia una normalizzazione “di sinistra”, è quanto meno una ipotesi. Del
resto, non è un caso che il Nuovo Istituzionalismo prosperi proprio in quei
paesi che pure, tanto più negli ultimi decenni, stanno mostrando che non è
tutto oro quello che luccica – altrimenti non si spiegherebbero anche lì le
avanzate delle destre populiste, per non usare aggettivi peggiori -, ma hanno
comunque elaborato modelli di stato sociale molto efficienti, che però si
radicano nella specificità di quei contesti e sarebbe ingenuo pensare di
esportarli tout court in Italia e nei paesi mediterranei – infatti non
ci si riesce. Ecco forse se vogliamo individuare un fondamento solido alla tesi
dello scollamento sul piano della attività delle istituzioni intorno alla
critica istituzionale tra Italia ed altri paesi dobbiamo seguire questa pista.
Potremmo
poi seguirne anche un’altra molto più generale, risalendo fino alla fine degli
anni Settanta per constatare come negli ultimi decenni l’Italia, anche in un
quadro europeo che non è comunque poi così radicalmente diverso da come
talvolta si voglia raccontare - il postmoderno, il riflusso, la “fine delle
ideologie”, la shock economy (22: Cfr. N. Klein, The Shock Doctrine,
2007, trad. it. Shock economy, Rizzoli editore, 2007) c’è stata
ovunque -, non abbia brillato sul piano del pensiero critico e dell’antagonismo
in tutti i settori e in tutte le categorie, malgrado la grande stagione di
fermento dei centri sociali negli anni Novanta culminata con i fatti del G8 di
Genova, che comunque non sono la pietra tombale di quella parabola, come troppo
spesso e disinvoltamente si vuole sostenere. Nella Prefazione alla quarta
edizione italiana di La società dello spettacolo, Guy Debord scrive:
Gli operai d’Italia,
che possono essere portati ad esempio ai loro compagni di tutti i Paesi per il
loro assenteismo, i loro scioperi selvaggi che nessuna concessione particolare
riesce a placare, il loro lucido rifiuto del lavoro, il loro disprezzo della
legge e di tutti i partiti stalinisti, conoscono abbastanza il soggetto nella
pratica per aver potuto trarre profitto dalle tesi di La società dello
spettacolo, anche quando non ne leggevano che delle mediocri traduzioni
(23: G. Debord, Prefazione alla quarta edizione italiana di La società
dello spettacolo,1979 in Id., La Société du spectacle, 1967, trad. it.
La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004, p. 38).
E
ancora:
Essendo per il
momento il Paese più avanzato nello slittamento verso la rivoluzione
proletaria, l’Italia è anche il laboratorio più moderno della controrivoluzione
internazionale (24: Ivi, p. 47-48.).
La
prefazione è datata gennaio 1979, quindi precede di soli tre mesi quel cruciale
7 aprile ed il nefasto Teorema Calogero (25: Cfr. almeno Processo sette
aprile. Padova trent'anni dopo. Voci della «città degna», Roma
manifestolibri, Roma 2009). Se oggi non siamo come
i francesi - che viceversa ci invidiano un Sessantotto durato un decennio, a
differenza del loro - sarà anche per l’enorme apparato repressivo messo in
campo che certo non comincia in quella data ma allora conosce una svolta, direi
addirittura un salto di qualità, nei metodi? Dalla propaganda tossica, anche
sotterranea, dei canali berlusconiani che infine “berlusconizzano” non solo
anche tutti gli altri canali televisivi, ma proprio tutta la società italiana,
tanto che gli stessi Ferragnez non sono che “nipotini” di Berlusconi, alla
pavidità dei sindacati confederali, e non solo: tutto rinviene, a mio parere,
un collegamento con quel 7 aprile e seguenti che asfalta gli ardori del
dissenso italiano.
Un
collegamento potrebbe stabilirsi anche con la relativa scarsa disponibilità di
artisti e critici-curatori italiani a compiere scelte non strategiche e più
attente non dico alle ragioni della critica, ma almeno alla qualità stessa,
provando a resistere ai venti che soffiano in direzione contraria pur sapendo,
in tal modo, di non poter mai salire sulla cresta dell’onda. Ma è anche vero
che, per ragioni che ci riconducono al non essere la Mitteleuropa, in
Italia, almeno nel campo delle arti visive, pare difficile portare avanti
iniziative che siano davvero radicalmente autonome, indipendenti dalle logiche
del mercato, e non solo sedicenti tali.
Infine,
vale la pena interrogarsi su quanto le istituzioni italiane abbiano fatto per i
principali esponenti della prima generazione della critica istituzionale in
tempi relativamente recenti. Nel 2012 si apre una retrospettiva di Broodthaers al
Mambo di Bologna, mostra che purtroppo non ho visto, ma che resta in ogni caso
un contributo insufficiente a colmare il gap tra le istituzioni italiane ed un
artista di tale portata. Haacke non tiene mai neanche una personale in una
galleria italiana, figuriamoci una antologica in un museo pubblico! Solo nel
2010 inaugura la sua mostra alla Fondazione Ratti di Como ed è visiting
professor nell’ambito del corso dedicato ai giovani artisti che allora è molto
prestigioso, ma si tratta appunto di un ente privato. Di Buren manco vale la
pena di parlare, perché quello che fa ora con la critica istituzionale degli
anni caldi c’entra davvero molto alla lontana. Asher? È chi è questo
sconosciuto che è pure morto più di dieci anni fa?
In
generale pare che la critica istituzionale in Italia, almeno relativamente ai
soggetti più legati alle istituzioni e all’ufficialità, sia un concetto che poco
fortunato sul piano dell’approfondimento. Forse la si tira in ballo talvolta
per abbellire qualche comunicato stampa, ma a partire da un grado di coscienza
e di conoscenza abbastanza superficiale. Se si considera poi che il nome è
tutto americano la circostanza genera anche un pizzico di sorpresa. Anche solo tenendo
conto del filoamericanismo del nostro paese, ci sarebbe stato insomma da attendersi
una sorte migliore.
Alberto
Grifi, Dinni
e la Normalina, ovvero la videopolizia psichiatrica contro i sedicenti gruppi
di follia militante, 1978, frame da film, durata 28'.
IF:
Nel mio progetto di laurea, tento di dimostrare che: “la videografia
indipendente in Italia dagli anni Settanta è stata una vera e propria forma di
Critica Istituzionale nel paese prima dell’arrivo ufficiale durante la seconda
ondata degli anni Novanta”; cosa ne pensi? Quali sono i tuoi commenti a
riguardo?
Nel 2005 si tiene la conferenza Institutional Crtitique and After,
ospitata dal Los Angeles County Museum of Art (LACMA) e organizzata dal
Soutehrn California Consortium of Art School (SoCCAS). Qualche anno dopo (2009)
il curatore di tale evento, John C. Welchman, così si esprime nel volume
derivante dal convegno del MAXXI di cui si è detto:
Una delle tesi avanzate in Institutional
Crtitique and After, benché non in
modo esplicito, come avrei preferito, è che sia pur “storicamente necessaria”
(o “inevitabile”), la strategia piuttosto riduttiva e strumentale della prima
generazione degli artisti della Institutional Critique (in particolare Michael
Asher e Hans Haacke) ha condotto questa pratica critica nel cul de sac di un maldestro “rimedismo” decostruttivo che ha finito col far
coincidere questioni politiche generali […] con le strutture finanziare e
organizzative di musei e gallerie» (26: J. C. Welchman, L’arte e le
istituzioni: riempire (e cancellare i vuoti), in S. Chiodi, a cura di, Le
funzioni del museo, cit., p. 14).
Confesso
che mi riesce difficile trovare una tesi con la quale sia maggiormente in
disaccordo come questa espressa da Welchman. Non di meno essa costituisce il
presupposto per avanzare una diversa accezione, in un certo senso più ampia ma
anche meno specifica, di critica istituzionale, riallacciandola peraltro ai
presupposti teorici non afferenti all’arte dalla quale, secondo alcuni, almeno
in parte, discenderebbe: penso soprattutto a Michel Foucault e alla sua critica
delle istituzioni totali. In altre parole, Welchman
pensa ad una critica istituzionale che si rivolga contro – o meglio verso - tutte
le istituzioni e non tanto contro – verso - il museo che ritiene una
istituzione meno centrale nella vita di ciascuno rispetto ad altre.
I musei e
le gallerie sono “un pesce piccolo” (27: M. Kelley, God, Family, Fun, and
Friends: Mike Kelly in Conversation with John C. Welchman John C. Welchman,
a cura di, Institutional Critique and After, JRP|Ringier, Zürich 2006.
p. 350), osserva Mike Kelley echeggiando il pensiero di Welchman
e conversando con lo stesso Welchman nel volume che rende conto della
conferenza dell’anno prima. Fin da allora (2006) quest’ultimo concepisce
l’artista californiano, in virtù della sua attenzione «alla partecipazione
sociale nelle strutture istituzionali, come la famiglia e la scuola, attraverso
le quali tutti noi siamo passati in un modo o nell’altro», (28: Ivi, p. 335)
insieme come emblematico della alternativa alla critica istituzionale classica
e della “vera” e più pregnante critica istituzionale, in quanto sensibilmente
allargata.
Prendendo a fondamento la seconda parte
di questo discorso potrebbero dunque essere etichettate come critica
istituzionale molte delle opere di “immagini in movimento” che tu analizzi. Un
film come Anna
(1972) di
Alberto Grifi – che peraltro nel 1964 realizza Verifica incerta con Gianfranco Baruchello, ovvero con colui
che è ritenuto tra gli artisti italiani più propriamente annoverabili
nell’alveo della critica istituzionale, benché non in virtù di questo film –
può essere inteso come una critica della famiglia e della maternità in
particolare, contro gli stereotipi che vogliono l’una e l’altra immancabilmente
felice, senza ombre. Il fanta-politico – ma neanche troppo - Dinni e la Normalina (1977) è ancora più evidente nel suo carattere
di critica ad un sistema sociale che proprio in quegli anni, come sappiamo –
peraltro sopra accenno al 7 aprile 1979 -, si prepara a mettere in atto un
piano di “normalizzazione” che più spietato non si può. La lotta non è finita (1973) del Collettivo Femminista di Cinema
pure assume come target le istituzioni tradizionali come la famiglia, ma acquista
ulteriore senso rispetto al film di Grifi nella misura in cui la donna – ovvero
il “sesso debole” entro un’ottica patriarcale – diviene ora autrice del
racconto a tutto tondo, oltre che attrice. Il fitto dei padroni non lo
paghiamo più (1972) del collettivo Videobase potrebbe essere letto come
critica di quella istituzione che viene detta proprietà privata, tanto più
quando essa mina il diritto ad un bene di prima necessità come la casa.
È poi possibile evidenziare un ulteriore
aspetto parlando di Anna:
l’infrangersi della finzione filmica determina una messa in evidenza di ciò che
c’è dietro la “macchina del cinema”, per quanto si tratti di cinema underground,
e quindi il non detto, l’invisibile del film. Per quanto ciò possa accostarsi
anche alle più o meno contemporanee ricerche dell’arte concettuale, specie
americana, con la sua vocazione alla tautologia, ovvero alla riflessione
dell’arte sull’arte stessa, sui suoi strumenti, tale portare alla luce ciò che
normalmente è celato allo spettatore di un film pure ricorda assai da vicino la
critica istituzionale più propriamente detta. Si pensi in particolare
all’esposizione delle casse da imballaggio delle opere di Broodthaers, alla
tendenza ad evidenziare, tramite le loro rispettive modalità, elementi dello
spazio espositivo confliggenti con l’illusione del cubo bianco tipica di Asher
e Buren o persino alle fotografie del giovanissimo Haacke del dietro le quinte
della documenta di Kassel.
Non di meno assimilare tutti questi
film alla critica istituzionale fondandosi sulla accezione che di essa propone
Kelley – e Welchman – solleva delle
perplessità. Se la specificità della critica istituzionale, come si
evince, almeno tra le righe, dalle parole di Fraser, è criticare dall’interno,
essere elemento di contraddizione, ma entro un contesto istituzionale, non
essere semplicemente contro le istituzioni, tali opere – e i loro autori – si
collocano, per quanto felicemente, troppo fuori. La nozione di critica
istituzionale è in concorrenza con troppe altre modalità di definirli che
probabilmente sono più calzanti e rispettose del loro tempo, del loro spirito e
dei loro intenti, per esempio quella di mediattivismo, di guerriglia
semiologica… Qui si misura, probabilmente, tutta l’estraneità che la critica
istituzionale americana suscita su un corpo tipicamente europeo ed italiano.
Collettivo
femminista di cinema, La
lotta non è finita, 1973, frame da film, durata 28'.
IF:
Il video è stato introdotto come uno strumento per la democratizzazione
dell’arte e della comunicazione; così i primi artisti e filmmakers indipendenti
hanno scorto una possibilità di critica non solo artistica ma anche sociale e
culturale. Dunque, qual è il valore in epoca contemporanea delle immagini in
movimento, che a partire dai primi anni Duemila hanno conosciuto una più vasta
diffusione? La videografia ha perso la carica dirompente e di rottura che la
caratterizzava in quanto strumento espressivo di una ristretta cerchia?
ST:
La perdita di potenza delle immagini statiche è già evidente quasi un secolo
fa, come testimonia il celeberrimo saggio di Walter Benjamin del 1936, benché il filosofo tedesco
parli più specificamente di perdita dell’aura dell’opera d’arte. Egli, come è
noto, imputa ciò alla riproducibilità tecnica, per cui le immagini in movimento
non sono da lui intese come interessate a loro volta da questa perdita di
potenza, ma appaiono, viceversa, in contrapposizione e causa della messa sotto
scacco delle immagini statiche. Si pensi alla dicotomia da lui sollevata,
parlando delle masse, circa «un rapporto estremamente retrivo, per esempio nei
confronti di un Picasso» che «si rovescia in un rapporto estremamente
progressivo, per esempio nei confronti di un Chaplin» (29: W. Benjamin, Das
Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936, trad.
it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica,
Einaudi, Torino 1966, p. 38).
D’altra
parte, in Benjamin l’ambiguità tra la nostalgia per la perdita dell’aura e
l’ottimismo per il dischiudersi di nuove potenzialità, tra l’estetizzazione
della politica e la politicizzazione dell’estetica non permette nemmeno di
descrivere univocamente la sua posizione come asserzione della svalutazione di
tutte le immagini statiche, ché la fotografia, benché meno potente del cinema,
pure è al fianco di esso quando si tratta di indebolire l’antico impatto delle
opere prodotte con tecniche pre-industriali.
Benjamin
è insomma univoco nell’affermare che si è entrati in un nuovo regime del
visibile, ma non è altrettanto netto quando si tratta di preconizzare il
destino positivo o negativo, dal punto di vista di un marxista, di tale regime,
senza però per questo cadere naturalmente nell’errore di considerare la tecnica
neutra, posizione ancora oggi assai diffusa nel senso comune malgrado gli
sforzi critici di personaggi come Günther Anders (30: Cfr. in particolare G.
Anders, Die Antiquiertheit des Menschen I, 1956 trad. it L'uomo è
antiquato I. Considerazioni sull'anima nell'epoca della seconda rivoluzione industriale, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino
2003; G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen II. Sulla distruzione della
vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale, trad. it.
Bollati Boringhieri, Torino 2003) o Jacques Ellul (31: Cfr. in particolare J. Ellul, La technique ou l'enjeu du siècle,
1954 trad. it. La tecnica. Rischio del secolo, Giuffré, Milano, 1969; J.
Ellul, Le Système technicien, 1977 trad. it. Il sistema tecnico,
Editoriale Jaca Book, Milano 2009),
per non parlare di Martin Heidegger (32: M. Heidegger, Die
Frage nach der Technik, 1953 trad. it. La questione della tecnica,
goWare, Firenze 2017).
E
così che l’ormai quasi ex marxista Mario Costa, fin dalla fine degli anni
Settanta, può scrivere:
Benjamin è abbastanza
consapevole delle trasformazioni antropologiche indotte, tra l’altro, dalle
nuove tecnologie della visione e il fatto che egli ne abbia tenuto scarsamente
conto nelle sue formulazioni politiche è, credo, imputabile all’urgenza della
storia in atto che dovette impedirgli di vedere fino in fondo le sue linee di
tendenza; e per questo stesso motivo egli non comprese di fatto che la
trasformazione degli “apparati”, da lui richiesta agli intellettuali, non
serviva affatto ad adattarli “agli scopi della rivoluzione proletaria”, ma
semplicemente a modernizzarli preventivamente per renderli meglio rispondenti
alle incombenti esigenze della società di massa (33: M. Costa, L’anima e le
immagini, 1979, in Id., Le immagini, la folla e il resto. Il dominio
dell’immagine nella società contemporanea, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli, 1982, p. 17).
Costa rovescia
quindi la scala di valori del marxismo stesso auspicando che l’uomo
contemporaneo si liberi di ogni, peraltro tossica, tentazione di «sopravvivenza
del passato», ché nulla gli vieta di «comodamente abitare nella sua
alienazione, ed in essa realizzare, al limite, una forma paradisiaca di
esistenza» (34:
Ivi, p.
21). Conclusione cui giunge non senza risparmiarsi un attacco ai «francofortesi
con la loro disperata nostalgia della morale» e allo stesso «millenarismo
apocalittico di Baudrillard», (35: Ibidem). malgrado il merito
riconosciuto a quest’ultimo nel dimostrare «fino a che punto questo
pseudo-ambiente di simulacri costituisca ormai l’unico ambiente effettivo nel
quale attualmente si svolge la vita umana» (36: Ivi, p.
20).
Proprio il celebre teorico della
derealizzazione è un passaggio pressoché obbligato per comprendere come la
riproducibilità tecnica, tranne che in iniziali, pionieristici momenti, conduca
più alla esautorazione radicale del potere delle masse che al loro
protagonismo, giacché tale riproducibilità giunge presto a saturare in maniera
così ingente l’ambiente di immagini che esse perdono ogni potenziale scioccante
che ancora è centrale ai tempi di Benjamin e si riducono così a meri
significanti scevri di significato, simulacri è, appunto, il termine più
celebre che il filosofo francese adopera per delineare tale condizione. Quanto
all’arte ormai non è più questione di perdita dell’aura, ma della sua
sparizione stessa come esito inevitabile del sovvertimento dell’estetizzazione
generalizzata:
[…] la grande utopia dell’arte,
la grande illusione, la grande trascendenza dell’arte si è manifestata ovunque.
L’arte è passata ovunque nella realtà. Si dice che l’arte si smaterializzi. È
esattamente il contrario: l’arte oggi è passata ovunque nella realtà. È nei
musei, nelle gallerie, ma altrettanto è nei detriti sui muri, nelle strade,
nella banalità di ogni cosa oggi sacralizzata senza altra forma di procedimento
(37: J. Baudrillard, La sparizione dell’arte, 1988, nuova ed. a cura di
E. Grazioli, Abscondita, Milano 2012, pp. 27-28).
All’invito alla politicizzazione dell’estetica
pronunciato da Benjamin corrisponde una prassi che lo precede e lo segue
cronologicamente, come ci accorgiamo se passiamo in rassegna tutta una serie di
esperienze dell’ultimo secolo almeno. Dal Dada berlinese, specie quello
rappresentato da John Heartfield, alla cinematografia indipendente di cui ti sei
occupata, da tutta la costellazione dell’arte di azione politica o, usando una
espressione di più recente conio, di arte attivista tra Americhe ed Europa –
dal Guerrilla Art Action Group (GAAG) ai collettivi legati a Piero Gilardi, da
Group Material a Tommaso Tozzi e Strano Network – alla stessa critica
istituzionale – che è altro rispetto all’arte attivista! – fino alla memorabile
esperienza di Indymedia, fondamentale anche per il movimento no global e per i
giorni di Genova.
Naturalmente sul piano storico nessun processo
comincia in un giorno preciso, ma resto convinto, confortato anche dall’età che
ho, che mi permette di ricordare un bel po’ di mondo prima che la connessione
telematica diventi una faccenda h24, che la vittoria, viceversa,
dell’estetizzazione della politica, per muoverci ancora sulla falsa riga
dell’alternativa benjaminiana, e quindi la radicalizzazione di ciò di cui
Baudrillard parla da decenni prima e per decenni - quasi come un soggetto in
preda alla sindrome del burnout – coincida, per motivi abbastanza evidenti, con
l’affermazione dei social network e tanto più con la connessione internet a
portata di taschino. Certo anche l’11 settembre è una data cruciale in tal
senso, perché il problema non è solo la sovrapproduzione di immagini in sé, ma
anche la restrizione delle maglie del controllo della rete, che, trovando nella
minaccia terroristica un pretesto ideale per legittimarsi, tanto più si
esercita attraverso i social network o piattaforme come Youtube.
L’oligopolizzazione di internet rappresenta una
sirena cui pochi, pochissimi soggetti critici preferiscono non cedere, in
quanto rende tutto più semplice, ma anche erode, piano piano, ogni spazio
virtuale alternativo. Il problema è che, malgrado le impressioni, ciò non può
che rappresentare uno scacco matto per un discorso di alternativa, perché esso
viene completamente integrato – come mai sarebbe possibile nello spazio non
virtuale – in un mega-servizio “ana-monopolistico” che ti fa esistere ma delimita
anche i tuoi spazi, quando – ma in casi relativamente marginali – non ti
censura. Oltretutto questo mega-servizio lucra sulla nostra attività e, nella
stragrande maggioranza dei casi, assai più di quanto possiamo trarne vantaggio
noi, che pure ci beiamo della sua apparente gratuità. Ce ne accorgiamo o no che
siamo lavoratori senza stipendio, lavoratori volontari in una ottica assai più
perniciosa e terrificante del “pesce piccolo”, come direbbe Kelley, del sistema
dell’arte che pure si fonda sul lavoro non pagato? (Per
un quadro a mio parere molto dettagliato e credibile di come si sviluppano e si
conservano gli attuali assetti di potere della rete, su come questo oligopolio
si appropri dell'esperienza umana adoperandola come materia prima da
trasformare in dati sui comportamenti, alcuni dei quali servono poi per
migliorare prodotti e servizi, cfr. S. Zuboff, The Age of Surveillance
Capitalism. The
Fight for the Future at the New Frontier of Power, 2019,
trad. it. Il
capitalism della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi
poteri, Luiss University Press, Roma 2019).
C’è, infine, tutto il problema dei complottismi,
delle fake news etc. Come distinguere la controinformazione attraverso il video
ed altri media dalle folli teorie del complotto che girano in rete e che
conquistano anche tanti cuori e cervelli in buona fede? Questo tipo di
informazione pseudo-alternativa – siamo sicuri che in parte queste teorie del
complotto non siano una invenzione sotterranea degli stessi poteri costituiti?
Certo i media mainsteam ci mettono del loro facendo da cassa di risonanza, se
si pensa a quanto spazio in questi ultimi anni dedicano, ad esempio, ai
terrapiattisti – da una parte mette fuori gioco la controinformazione, rendendo
i confini tra quella vera e quella farlocca troppo porosi ad occhi sempre meno
avveduti, dall’altra non fa che rilegittimare in tal modo, indirettamente, i
grandi colossi dell’informazione, ma pure gli “esperti”, i capi di stato,
l’FMI, la BM, la BCE e così via dicendo… (39: Tanto sulla piaga del
complottismo, quanto sulla crisi della controinformazione anche in rapporto al
capitalismo delle piattaforme cfr. almeno Wu Ming 1, La Q di Qomplotto QAnon
e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Edizioni
Alegre, Roma 2021).