domenica 30 ottobre 2011

SOLO LIMONI – A dieci anni dai fatti del G8 di Genova, ad una settimana dalla giornata mondiale dell’indignazione

(Intervento introduttivo al video Solo limoni di Giacomo Verde, presentato nell’ambito di Luci della città – Bologna, Genova, Napoli, a cura di Stefania Zuliani, evento tenutosi la sera dell’8 ottobre 2011 presso la Fondazione Filiberto Menna – Centro Studi d’Arte Contemporanea di Salerno, in occasione della VII Giornata del Contemporaneo).

Tra i motivi che mi hanno spinto a selezionare questo video di Giacomo Verde, Solo limoni, in quanto analisi delle pratiche di rappresentazione del dissenso come linguaggio urbano – pratiche che, d’altra parte, proprio dopo i fatti del luglio 2001 divennero sempre meno urbane, visto che gli “otto grandi” da allora cominciarono a scegliere i luoghi più fuori mano possibili, allo scopo evidente di ostacolare i cortei di protesta e si rammenti, a tal proposito, lo stesso caso di L’Aquila, che ospitò il G8 del 2009 a pochi mesi dal terremoto, allorché noi manifestanti ci trovammo praticamente a sfilare in un sentiero di campagna scarsamente abitato – vi è senz’altro la ricorrenza del decennale della grande dimostrazione antigiottina di Genova, circostanza che è stata anche fonte di ispirazione per una vera e propria mostra collettiva, Un altro mondo è ancora possibile?, a cura di Francesca Guerisoli e del sottoscritto, inaugurata al Palazzo Ducale di Genova non più tardi di tre mesi fa. Ma il mio riferimento a quelle tanto discusse quanto affascinati vicende non possiede alcuna dimensione unilateralmente retrospettiva, né tanto meno nostalgica: esso si accompagna piuttosto alla constatazione, suffragata da numerosi avvenimenti in questi ultimi anni e, soprattutto, in questi ultimi mesi - a partire dalla primavera araba, continuando con l’epifania degli indiñados spagnoli con l’occupazione della Puerta del Sol del 15 maggio scorso e del recentissimo movimento newyorkese Occupy Wall Street, fino alla giornata mondiale dell’indignazione che si terrà sabato 15 ottobre prossimo, un evento che si preannuncia destinato a non trascorrere inosservato e senza conseguenze - che l’altermondismo sta tornando - o meglio come un fiume carsico o come la “vecchia talpa” marxiana sta tornando alla luce zenitale, senza che il filo rosso che lo lega al decennio scorso si sia mai realmente spezzato - sia pure in modalità e contesti per certi versi anche molto differenti.
Ma come si interfaccia il discorso dell’altermondismo con l’arte e con l’estetico in genere? Perché, in altre parole, acquisisce una non trascurabile importanza anche per le vicende della produzione artistica – ne sono fermamente convinto - tutto il discorso che ho appena sviluppato? Probabilmente innanzi tutto perché non c’è stato altro movimento che al pari di quello emerso a Seattle nel novembre del 1999 - ma i suoi prodromi risalgono addirittura al capodanno del 1994, allorché l’ Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (ELNZ) si impose per la prima volta all’attenzione del mondo - abbia fornito così tante sollecitazioni di carattere estetico nel proprio rappresentarsi, facendo sì che la tesi di Jaques Ranciere, secondo il quale la politica è “partizione del sensibile”, e dunque con l’estetico ha molto a che vedere (Cfr. J. Ranciere, Il disagio dell’estetica, a cura di Paolo Godani, ETS, Pisa, 2009), trovasse una formidabile esemplificazione. Si pensi, tra l’altro, alle pratiche tipiche delle “Tute bianche”, fenomeno tutto italiano, nonché nevralgico per la storia dell’evoluzione dei movimenti della seconda metà degli anni novanta, che proprio a Genova trovò la sua estrema apparizione, o agli stessi zapatisti, con i loro passamontagna che servivano paradossalmente per farsi notare prima ancora che per celare la propria identità.
Ulteriore elemento a vantaggio della tesi dell’esteticità senza precedenti del Movimento antiglobalizzazione è l’acuta analisi sviluppata da Marco Scotini, secondo il quale «istanze attiviste e pratiche artistiche» - qui risiederebbe peraltro lo scarto tra il vecchio paradigma dell’arte engagè ed il più aggiornato paradigma dell’arte attivista – non sono accomunate da una sorta di “patto comune in vista di obiettivi comuni”, bensì derivano da «uno sfondo comune (…) uno spazio indistinto che impedisce di tracciare chiaramente i confini tra forze e segni, tra linguaggio e lavoro, tra produzione intellettuale ed azione politica» (M. Scotini, Il dissenso: Modi di esposizione. Il caso dell’archivio Disobedience, in M. Baravalle (a cura di), L’arte della sovversione, manifestolibri, Roma, 2009, p. 94). Ed ecco comparire la principale ragione della rilevanza delle parabole dei movimenti in rapporto all’arte: il sorgere da un medesimo alveo tanto di questi ultimi quanto dell’arte attivista o, meglio ancora, parafrasando ed un po’ ribaltando Ranciere, ma riformulando una tesi di Scotini, la connotazione dell’arte attivista come partizione della più vasta costellazione delle pratiche attiviste in genere - purché quest’ultima definizione non vada intesa quale ratifica dell’esistenza di un confine netto che separi l’ “attivismo artistico” da quello “non artistico”, confine che viceversa, se pure esiste, possiede una consistenza assolutamente porosa, tanto che lo stesso Scotini ama parlare di “zona grigia”. Una origine condivisa che implica dunque una inevitabile, benché non meccanicistica, connessione, tra stato di salute del movimento altermondista e dell’arte attivista, una certo grado di coincidenza tra l’emergere e/o il declinare dell’uno e dell’altro: è così che in quegli anni in cui la spinta propulsiva partita da quel novembre del 1999 fu maggiormente operante anche gli artisti “politici” – e le mostre “politiche” – parvero progressivamente moltiplicarsi, mentre si prendeva a parlare di una specifica arte attivista del Post-Seattle.
Il profilo di Giacomo Verde si configura come assolutamente emblematico ed insieme singolarissimo non solo rispetto a quest’ultima stagione, ma prima ancora rispetto a quel lungo e denso percorso, i cui inizi vanno fatti risalire almeno agli anni settanta, che solo col senno di poi etichettiamo come “di incubazione” della fase successiva. Una fitta ed interessantissima, quanto spesso non adeguatamente considerata e studiata, se non in settori di nicchia, vicenda che possedette nella riflessione sulle tecnologia in quanto depositaria di enormi potenzialità di democratizzazione – da qui l’approccio “low tech” che ne consenta «un uso accessibile a tutti» e che ne smitizzi «le valenze feticistiche» e la correlata proposta di «usi alternativi, al di fuori delle logiche del mercato» dei mezzi di comunicazione di massa (S. Vassallo, Pratiche di condivisione tra arte, tecnologia e attivismo. Il cerchio relazionale. Arte come esperienza est-etica partecipativa, in S. Vassallo, F. Maccarone (a cura di) Giacomo Verde. Tra arte e attivismo – istruzioni per l’uso 1.0, catalogo della mostra, Studio Gennai, Pisa, 15 gennaio – 5 febbraio 2011, p. 6; http://www.verdegiac.org/CatalogoTraArteAttivismo-d.pdf) - uno dei suoi tratti caratterizzanti, nonché un discorso in grado di connotare repentinamente in senso politico le pratiche creative. Anni ed anni di strenua sperimentazione intorno al binomio tecnologie avanzate-orizzontalità partecipativa senza la quale, circostanza che non sarà mai superfluo sottolineare, Seattle e tutto ciò che venne in seguito sarebbe stato impensabile - ed eredità senz’altro fortemente operante anche nei movimenti odierni, benché questi ultimi paiano ormai essere inevitabilmente legati ad un maggiore coefficiente di mainstream, il quale però prospera dopo aver probabilmente sussunto anche tante ricerche compiute dal basso.
Nell’ambito della estremamente prolifica quanto versatile attività di Giacomo Verde Solo limoni va ascritto al novero di quelli che Marco Maria Gazzano definisce i suoi “documentari creativi” in quanto fondati sulla dialettica tra illustrazione di realtà spesso scottanti – oltre alla cadenzata narrazione delle vicende del corteo di Genova, è il caso di ricordare almeno la lunga riflessione sulla memoria martoriata di un paese come la Serbia (Gente ugualmente, 1999/2000) e la corale ricostruzione della morte violenta, avvenuta la mattina del 7 maggio 1972 nel carcere di Pisa, del giovane anarchico Franco Serantini e dell’aria che tirava in quegli anni (S’era tutti sovversivi, 2002), che peraltro sono i documentari che si situano rispettivamente subito prima e subito dopo quello genovese – e licenze rispetto ai canoni del genere – trattamento dei colori in chiave espressiva, montaggi asincroni audio-visivi, sovrimpressioni, scarti temporali, inquadrature spurie, ricerca di plasticità dell’immagine, accentuata matericità e a volte “coproreità” dell’immagine - in grado di connotare il proprio punto di vista sia etico-politico sia estetico, ché l’oggettività dei fatti è sempre una opinione (M. Gazzano, TeleArti. L’opera di Giacomo Verde “artivista tecnologico”, in S. Vassallo, F. Maccarone (a cura di) Giacomo Verde. Tra arte e attivismo – istruzioni per l’uso 1.0, cit., p. 24).
La trascendenza del dato documentaristico – dal clima di entusiasmo e determinazione delle prime battute alle agghiaccianti scene di guerriglia urbana fino al loro culmine, l’uccisione di Carlo Giuliani e la disperazione e la rabbia intorno al suo corpo senza vita -, la cui funzione, peraltro, è anche quella di colmare il vuoto prodotto da una informazione più stimolata dallo scoop, quando non impegnata a criminalizzare il movimento – e dopo Genova si assistette ad una sorta di escalation in questo senso, facendo sì che la natura iniziale del dibattito pubblico su di esso, comprendente la questione dei danni prodotti dalla globalizzazione neoliberista, fosse sempre più ridotta ad un mero affare di ordine pubblico - che dalla complessità dei risvolti.

Stefano Taccone

mercoledì 5 ottobre 2011

LIUBA – La performance come apertura alla trascendibilità dell’ordinario

La lefebvreiana critica della vita quotidiana, la resistenza alla horkeimeriana ragione strumentale, al marcusiano monodimensionalismo cui il capitalismo avanzato costringe l’uomo, nonché tutti i movimenti che da Dada a Fluxus ed al Situazionismo hanno fatto della confutazione e del sabotaggio delle strutture canoniche di convivenza sociale la loro impellente necessità, costituiscono senza dubbio il patrimonio di tradizioni – benché si provi sempre un certo imbarazzo, quasi una terrore di generare un ossimoro troppo marcato, nell’utilizzare questa parola per tali esperienze – che più immediatamente la performatività più behavior che body di Liuba presuppone. Che infatti cammini per strada e compia ogni azione a ritmi lentissimi, tanto da rischiare di provocare incidenti automobilistici e, in ogni caso, da lasciare di stucco i passanti - come avviene nel ciclo The Slowly Project (2002-2011), sorta di tentativo di allungare la vita per mezzo dell’arte (L'Arte è lunga, la Vita breve è appunto il titolo di una delle performance del ciclo) in una società in cui una “performance” è tanto migliore quanto più produce in un tempo minore – o affigga i bollini rossi, contrassegni delle vendite già avvenute nelle fiere d’arte, su di ogni opera esposta, tra lo scompiglio dei galleristi – come avviene in Virus (2004), il cui titolo suggerisce una sorta di sinistra trasmutazione di quegli stessi contrassegni, così simili ad i sintomi visivi di qualche morbo contagioso e, proprio come un morbo, in grado di propagarsi in maniera incontrollata –; che si aggiri con un vestito da suora “detournato”, in quanto appositamente disegnato con sottili riferimenti multireligiosi nei dettagli, per la Biennale di Venezia o addirittura per la Città del Vaticano recitando preghiere appartenenti a fedi diverse da quella cristiana cattolica – come avviene in The Finger and the Moon - ll dito e la luna (2007-2010) – o irrompa nel rarefatto ambiente di un vernissage di una mostra in galleria con quello che potremmo definire un autentico inno comportamentale alla contaminazione gioiosa, passionale, persino dionisiaca tra le differenze, se non tra gli opposti – come avviene in Les Amantes (2006) -, il suo sforzo appare generalmente definibile in quanto volto a far deragliare il treno dai binari, a far incantare il disco evitando che vada in loop, a determinare, in altre parole, uno slittamento nell’ordine plausibilmente consueto degli eventi. Una circostanza che si verifica regolarmente, ma in forme sempre rinnovate, in quanto risultanti della diversità della propria declinazione attitudinaria, ma anche della differente predisposizione alla risposta dei vari contesti a “parità” di comportamento, in un’ottica in cui le performance, spiega eloquentemente la stessa Liuba, si configurano dunque quali «cartine di tornasole attraverso cui investigare una data società o gruppo umano».



The Slowly Project. Take your time - Modena, 2007-2008.

Sappiamo bene, tuttavia, quanto le strategie dello straniamento attitudinario, che pure sono state centrali per tanta parte delle avanguardie artistiche – e forse non solo artistiche – del XX secolo, siano alla fine incorse in una impasse, benché il dibattito sulle cause e la natura di essa siano molto più complesse di quanto solitamente si sia disposti a credere e sia ben lungi dal potersi chiudere e benché l’eredità di tali pratiche continui ad essere assolutamente operante anche negli ultimi decenni – e lo stesso caso di Luiba ne è una buona dimostrazione. Tuttavia può dirsi con una sufficiente sicurezza di non essere smentiti che il loro fallimento si è manifestato nella debolezza della loro stessa azione, contrapposta al grado di ambizione dichiarato, nella eccessiva facilità con la quale il corso normale della vita e della società, dopo essere stato forse talvolta pure non superficialmente intaccato, ha ripreso con grande sicurezza il verso del suo cammino, consolidando persino ulteriormente la bontà della sua “tenuta di strada”. Anche in questi ultimi tempi, allorché pure il pensiero unico dominante sembra impelagato in grossi problemi, essi sembrano possedere una natura più endogena che esogena: derivano cioè più da una deficienza immanente alle sue stesse promesse che da una cosciente riluttanza a lasciarsi ridurre alle logiche concatenate del suo megaingranaggio, in nome magari di un rovesciamento di queste logiche stesse o di un affrancamento da esse.



Virus, 2004.

Ma il punto, tornando a Liuba, è proprio questo: che la prospettiva delle sue destabilizzazioni non sta in un momentaneamente impossibile – e forse non necessariamente sempre e comunque auspicabile – rivolgimento permanente del consueto flusso dell’esistente, posizione che, peraltro, non sfuggirebbe a contraddizioni, in quanto sempre esposta al rischio, per così dire, di spogliare un altare per vestirne un altro, quanto nella, sia pur breve ed effimera, determinazione di uno scenario in cui la soppressione di certe norme comunemente vigenti permetta allo spettatore più o meno volontario di allargare gli orizzonti della sua mente, di prendere coscienza del fatto che certe situazioni sono sì strutturate in una determinata modalità, ma, se lo si vuole, presto o tardi potrebbero volgersi anche differentemente – un invito ad una sospensione possibile del flusso vitale in vista di un più agevole esercizio di ripiegamento-raccoglimento psico-emotivo su quello che è il suo senso profondo, dunque, che trova peraltro nel video che fa da pendant ad ognuna delle performance, la cui regia ed il cui montaggio sono a cura dell’artista stessa, ulteriore supporto. Sta allo spettatore, in ultima istanza, scegliere i caratteri dei suoi mondi possibili e desiderabili ed adoperarsi eventualmente affinché si traducano in realtà, mentre alla performer-scultrice di situazioni non spetta che dare il là, innescare quel meccanismo che metta in moto le facoltà umane e le conduca a generare nuovi pensieri ed azioni che siano specchio di un retroterra innanzi tutto individuale ma anche collettivo, risvegliare nel singolo e nella moltitudine la consapevolezza della sua potenza costituente.

Stefano Taccone