martedì 26 aprile 2011

"INSIEME" DI PEPPE PAPPA - L'Italia allo specchio

Dalla brochure di Insieme, Installazione di Peppe Pappa (Vernissage: Fonderie Righetti – Villa Bruno, San Giorgio a Cremano, 6 aprile 2011).

Qualche settimana fa un esuberante e combattivo “intellettuale padano”, intervenendo in un talk show dedicato all’imminente centocinquantenario dell’Unità d’Italia, osservava come fino a qualche mese fa nessuno sapesse che cos’è il 17 marzo, mentre ora tutti quanti sembrano riscoprire improvvisamente il sentimento verso il tricolore ed emozionarsi alle note dell’inno di Mameli, atteggiamenti che, intendeva probabilmente insinuare, sono esclusivamente dettati dalla necessità di opporre nuovi espedienti propagandistici contro la Lega ed il suo popolo. Tale discorso, per quanto colui che lo ha pronunciato possa apparire detestabile e per quanto si possa essere lontani anni luce dalle ragioni della fazione cui egli appartiene, mi sembra illuminante sulle dinamiche dell’odierno dibattito pubblico che accompagna la ricorrenza.
Sorvolando sulle controversie tragicomiche (in quanto risibili per il loro bassissimo profilo, ma condotte da coloro che dovrebbero occuparsi della guida del paese e dunque rappresentare la quintessenza del suo valore intellettuale e morale) del tipo “festeggiare l’Italia unita restando a casa o lavorando”; “festeggiare l’Italia unita prima o dopo aver approvato il federalismo; “chi è per l’Italia unita è anche per l’Italia federalista o meno” etc., la realtà è che il campo della visibilità mediatica (ché il paese reale è un’altra cosa) risulta sostanzialmente diviso tra chi, come da almeno due decenni a questa parte, si mostra freddino, quando non ostile al concetto di italianità, poiché, agitando in sottofondo lo spettro del “sacco del nord” (Cfr. L. Ricolfi, Il sacco del nord. Saggio sulla giustizia territoriale, Guerini e associati, Milano, 2010), promette alla sua gente un futuro di prosperità in virtù della definitiva liberazione da “Roma ladrona” e chi, come quella che potremmo a buon diritto chiamare “postsinistra”, in quanto erede diretta di una identità un tempo effettiva, ma oggi, come sostengono Marino Badiale e Massimo Bontempelli nel loro amarissimo saggio La sinistra rivelata, assolutamente «priva di un contenuto preciso e quindi vuota» (M. Badiale, M. Bontempelli, La sinistra rivelata. Il Buon Elettore di Sinistra nell’epoca del capitalismo assoluto, Massari editore, Bolsena, 2007, p. 180), è pronto ad appropriarsi di qualsiasi argomento “politicamente corretto” pur di arginare la sua totale mancanza di reale motivazione, esclusa naturalmente quella di conquistare e/o rimanere al potere.
Nel mezzo del frastuono prodotto da tale antitetico ma infondo assai simmetricamente orientato dualismo (dal momento che se le contrapposizioni si manifestano in modalità anche molto accese e violente, il fine ultimo degli uni e degli altri è in definitiva il medesimo) ciò che viene posto tra parentesi non sono soltanto i reali, e certo più articolati, pensieri ed aspirazioni dei cittadini, e neanche i loro, e sempre più urgenti, bisogni materiali, bensì anche ogni seria e documentata riflessione di carattere storico volta alla comprensione dei fatti, nella loro ambivalenza e complessità, più che alla messa a punto di nuove ed immediate armi dialettiche (che peraltro di dialettico hanno davvero ben poco). Più che un tabù, infine, bensì un qualcosa di paleolitico verrebbe considerato un discorso che facesse appello alla preminenza di quello che un tempo si chiamava “internazionalismo proletario”, ma tanto il “pericolo” che qualcuno tiri fuori un rottame di tale risma è praticamente prossimo allo zero. Resta sempre da spiegare tuttavia per quale motivo la moltitudine dei giovani precari e sottopagati italiani ed europei debba sentirsi più vicina alla casta che guadagna in un giorno quanto loro non guadagneranno per un’intera vita ma appartiene, come loro, alla “nobile stirpe italica”, piuttosto che, ad esempio, alla coetanea moltitudine che in questi mesi sconvolge l’area magrebina.



A fronte di tale confuso quanto scarno dibattito Peppe Pappa recupera i modi e le ragioni del suo percorso recente e meno recente, compresi quelli esplicati in alcuni di quei frangenti in cui, come avviene da circa un anno e mezzo a questa parte, indossa le vesti del curatore, ruolo che peraltro ha ancora intenzione di ricoprire in futuro, oltre e piuttosto che come artista. Eludendo tanto l’acritica celebrazione quanto la becera svalutazione, nonché forte, per un verso, dell’ineludibile tensione morale che oggi come ieri non può risiedere al di fuori dell’orizzonte di colui che, per quanto sia titolare di un potere d’impatto assai limitato rispetto alla megamacchina del consenso plutocratico, si cimenta nella produzione autonoma di linguaggio (sono questi alcuni dei principi ispiratori della mostra curata da Pappa nel giugno del 2010, Moralità per il mondo), e conscio, per un altro verso, della condizione di particolare criticità che attraversa il nostro paese da tempo, ma che negli ultimissimi anni pare aver conosciuto una ulteriore radicalizzazione (uno scenario tale da indurlo ad intitolare la mostra da lui curata il mese immediatamente successivo Impeachment, l’Italia fatta a pezzi), il suo discorso intende porre l’oggetto della contesa su di un piano di problematicità.
Il motivo del frammento, della lesione, del parziale, dell’incompiuto è probabilmente, peraltro, la cifra stilistica maggiormente in grado di connotare la produzione visiva di Pappa in questi ultimi anni, come si può evincere, ad esempio, dalla grande installazione dedicata allo tsunami asiatico (2005), alla quale un critico di grande rigore come Mario Costa, sempre pronto a chiederci di “dimenticare l’arte” (Cfr. M. Costa, Dimenticare l’arte. Nuovi orientamenti nella teoria e nella sperimentazione estetica, Franco Angeli, Milano, 2005), rivendica un carattere di piena contemporaneità in ragione della “sterilizzazione” e del “surgelamento” cui l’artista sottoporrebbe i frammenti di rotocalchi in netta discontinuità con l’immaginario surriscaldato che prospererebbe nell’arte dell’era della non più vigente “società dello spettacolo” (M. Costa, Peppe Pappa o dell’immagine nel freezer, in Peppe Pappa - Tsunami: architettura di un'onda anomala, catalogo della mostra, Centro d’arte e comunicazione Riflessi, Villa Avellino, Pozzuoli, 2005). Eppure, come ci insegna il Socrate protagonista del Fedone di Platone, ogni cosa ha origine dal proprio contrario (Cfr. Platone, Fedone, a cura di A. Tagliapietra, Feltrinelli, Milano, 1994) e, nel nostro caso, se è vero che l’operazione di Pappa, attraverso una molteplicità di accorgimenti (Costa chiama in causa l’uso della “tela di plastica antivento”, il “lavorio del plotter”, i “gelidi, patinati e incongruenti pezzi di immagini prelevate da qualunque magazin”, la “disposizione dei pezzi” intervallati da “silenzi circostanti”…) (M. Costa, Peppe Pappa o dell’immagine nel freezer, in Peppe Pappa - Tsunami: architettura di un'onda anomala, cit.), persegue il raffreddamento delle immagini, queste ultime, essendo comunque rappresentazioni di membra vive, entrano in collisione con il trattamento al quale sono sottoposte, sprigionando così una sorta di tepore derivante dal repentino “contrasto di temperatura”, come quando un recipiente surriscaldato, essendo immesso nell’acqua fredda, comincia ad emanare fumo.
In Insieme, ove un frammento di volto umano, allegoria di un qualsiasi comune cittadino italiano, emerge squarciando parzialmente uno sfondo costituito da un tricolore rovesciato di 90º e di estrema piattezza cromatica, quella tipica della grafica digitale, può essere riscontrato un analogo “cortocircuito termico”, al quale si sovrappone lo iato esistente tra il significato del titolo, che, riportato nella parte inferiore, fa appello alla qualità di ciò che è unito, e quanto risulta effettivamente visibile, la lacerazione prodottasi all’interno della superficie stessa della bandiera e ricadente sul volto che si scorge attraverso i suoi lacerti. Il congelamento della visione si tramuta così in congelamento dello spazio-tempo al fine di permettere una più ariosa riflessione. Tale processo di solidificazione coinvolge innanzi tutto i “mal accesi ardori” della propaganda di regime, affinché i suoi clamori lascino il campo alla reale condizione di enigmatica sospensione in cui siamo immersi, alla contemplazione di un panorama, quello del presente del nostro paese, che non riusciamo a percepire con maggiore chiarezza di quanto il personaggio che ci sta di fronte, se fosse vivo, potrebbe percepire noi che lo osserviamo (anzi forse noi percepiamo ancor meno). La contemplazione di quest’opera prende così a funzionare per lo spettatore in maniera prossima ad uno specchio.

Stefano Taccone

mercoledì 6 aprile 2011

GIULIANA RACCO – Socializzare gli anni invisibili

Stefano Taccone: Cara Giuliana, la prima considerazione che mi viene da formulare sul tuo lavoro ormai in progress è che esso costituisce una visualizzazione particolarmente compiuta del principio di identificazione tra personale e politico. Partendo infatti da un oggetto di carattere burocratico, eppure inscindibile dalla nozione di individuo, ed integrandone opportunamente i dati, ci fornisci delle indicazioni che riguardano pienamente la tua singola persona, ma sono anche in grado di trascenderla per rimandare ad una condizione più generale e dunque di carattere assolutamente politico. Sia con I miei anni invisibili che con la sua futura versione socializzata porti alla luce (è proprio il caso di dirlo) la contraddittorietà strutturale del sistema capitalista, infrangi quel delicato equilibrio tra detto e non detto sul quale esso da sempre si regge. Il binomio legalità-illegalità, oggi tanto in voga, possiede proprio tale funzione: occultare la sostanza effettiva dei conflitti. La dimensione della legalità infatti non è realmente in opposizione a quella dell’illegalità, ma la prima trova piuttosto nutrimento nella seconda, così come, secondo Rosa Luxemurg, il capitalismo non è in grado di prosperare facendo a meno di aree in cui le sue logiche non vigono. Esso ha un bisogno continuo di terre vergini da depredare. La sua natura infatti, parafrasando un recente saggio di Zygmunt Bauman che proprio sulla scorta della Luxemburg si muove, è indiscutibilmente parassitaria.

Giuliana Racco: Sì, sono pienamente d’accordo che l’illegalità faccia comodo al sistema della legalità e che il secondo, appunto, si nutra dal primo. Parto dalla mia esperienza individuale per giungere a una situazione che ipotizzo generale. È una mia modalità di lavoro, perché ritengo che l’esperienza è fondamentale, vivere le cose aiuta a percepirle, e per me il personale è assolutamente il politico. Sono da molto tempo interessata ai linguaggi scritti (e non solo), per me sono uno strumento utile all’osservazione. Nel mio lavoro sono alla base di buona parte della ricerca. Per esempio, in questo caso, trovo che il linguaggio burocratico sia una zona fertile per comprendere il funzionamento di una società, perché, appunto, tocca sia il singolo che la collettività.



Stefano Taccone: A proposito di linguaggio burocratico mi viene in mente un passaggio della prefazione dell’ultimo saggio di Michael Hardt e Toni Negri, Comune (2009), tradotto in italiano solo da pochi mesi, che chiude la trilogia iniziata con Impero (2000) e proseguita con Moltitudine (2004): «il nucleo della produzione biopolitica non è tanto la produzione di oggetti per il consumo dei soggetti, come la produzione di merci, ma la produzione della stessa soggettività». Se la produzione della soggettività informata alle logiche di dominio imperiale, per riflettere adoperando categorie tipiche dei due autori di cui sopra, ha non poco a che vedere con la produzione di linguaggi, l’arte, in quanto territorio di una peculiare intersezione tra linguaggio e realtà, può costituire un dispositivo di resistenza particolarmente opportuno.

Giuliana Racco: Credo dipenda da ciò che intendi per “resistenza” e per “dispositivo”. Anche se cerco di lavorare il più frequentemente possibile fuori dai canali tradizionali dell’arte, sono pienamente consapevole che ciò che realizzo raggiunge solo un certo pubblico. Ma senz’altro creare spazi di riflessione attraverso modalità che non sono possibili in altre forme è ciò che l’arte può e deve fare. Non vi è alcuna resistenza senza riflessione, consapevolezza o problematicità. Ciò che mi interessa più di ogni altra cosa è mettere in luce come i linguaggi che adoperiamo incidono sulle nostre realtà e le riflettono. Per esempio, nel progetto delle cartoline, ho analizzato i termini che erano entrati in uso nel corso del periodo del razionamento durante il delirante sogno autarchico di Mussolini, al fine di rintracciare come questi stessi termini in seguito caddero in disuso o furono alterati di significato. Pur affrontando un particolare momento storico, non credo che sia così lontano da quello che viviamo oggi. Pensa soltanto al modo in cui i termini sono attualmente manipolati dai media. In Survival English, attraverso un manuale che sembra insegnare la lingua dominante contemporanea mondiale (l’inglese), ho creato dei problemi/esercizi, a volte cinici a volte ludici, dal finale aperto e relativi a cinque principale moduli/soggetti. In Buongiorno (il fotoromanzo che ho realizzato in collaborazione con Matteo Guidi), entrando in una fabbrica “x” in Veneto (su commissione) e intervistando i vari lavoratori sulla questione del tempo, sono venute fuori molte cose interessanti circa la modalità in cui i lavoratori si sono espressi.
In quest’opera, il progetto CV, mi interessa ciò che scriviamo/raccontiamo noi stessi, come cambiamo in base ai differenti scopi. Vedo i CV come ritratti scritti, naturalmente ciò che essi mostrano è solo una parte di una persona – la sua vita lavorativa – ma questa è una parte importante della vita di molte persone, forse per alcuni la più importante. Basti pensare che, quando veniamo presentati a qualcuno, quest’ultimo ci chiede che lavoro facciamo. Ci viene costantemente chiesto di definirci in base alla nostra professione. Sto chiedendo alla gente di scrivere TUTTO su di un foglio di carta A4, di non tagliarlo ed adattarlo per soddisfare una qualche idea che un potenziale datore di lavoro può desiderare di vedere – tutto, per quello che uno può ricordarsi, su di un pezzo di carta, senza abbellimenti ed indicando realmente se era legale o meno, se si trattava di uno stage o anche di qualcosa di difficile da definire. Dunque si tratta di un dispositivo di resistenza? La gente ha reagito in maniera molto diversa a questa “chiamata ai CV”. Alcune persone dicono che le fa male pensare a tutto quello che hanno fatto e preferirebbero non guardare all’indietro e ricordare. Altri, invece, trovano l’esperienza utile, una sorta di riaccendersi della consapevolezza di quanto hanno fatto, come l’hanno fatto e le condizioni in cui essi hanno lavorato e vissuto. Così, in questo senso, lavorando sulla consapevolezza, in particolare attraverso l’esperienza personale, mettendo in discussione e minando il linguaggio tecnico-burocratico che adoperiamo per definire noi stessi, viene prodotta, credo, una certa resistenza, ma è una resistenza in forma libera ed astratta ed è molto differente da un’azione diretta organizzata e finalizzata.



CERCO CURRICULUM VITAE

Il 31 maggio si concluderà la raccolta del primo libro di ritratti in Curriculum Vitae.

Chiedo, a chiunque possa essere interessato a partecipare al compimento di questa opera,
di INVIARMI un CV con tutte le proprie esperienze lavorative (svolte in qualsiasi settore) esprimendo sia quelle in REGOLA che quelle in NERO.

Ogni CV sarà pubblicato ANONIMO (come anche i nomi dei datori di lavoro).

PER ULTERIORI INFORMAZIONI SCRIVETE A:
anni.invisibili@gmail.com