lunedì 8 novembre 2010

HANS HAACKE - Fondazione Ratti, Como

da "Segno", anno XXXV, n. 233, Novembre/Dicembre 2010, pp. 56-57.

Hans Haacke (Colonia, 1936, vive e lavora a New York), tra i maggiori protagonisti viventi della stagione delle neoavanguardie, presente con numerose personali e collettive in alcuni tra i contesti più ambiti dell’Europa e del Nordamerica, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1993, tiene solo ora, ad oltre settant’anni, la sua prima personale in Italia, culmine del suo lungo soggiorno a Como, ove ha svolto il ruolo di Visiting Professor della XVI edizione del Corso Superiore di Arti Visive della Fondazione Antonio Ratti. Da ormai quarant’anni l’artista è impegnato a decostruire la presunta neutralità ideologica delle istituzioni di cui si compone il sistema dell’arte ed a sottolineare come quest’ultimo non costituisca che un tassello della megamacchina del capitalismo, denunciando le logiche di sfruttamento sul quale essa si fonda.
In mostra nella ex Chiesa di San Francesco a Como sono presentati tre lavori: Wide White Flow (1967), testimonianza della sua indagine giovanile sui sistemi in tempo reale, il ciclo fotografico documentante il progetto Der Bevölkerung, partito nel 2000 e tutt’ora in atto, ovvero una sorta di immensa aiuola posta nel cortile del Reichstag la cui cura è demandata ai suoi membri, e Once Upon a Time (2010), l’unico inedito, nel quale trasmissioni andate in onda nei giorni precedenti sui canali mediaset e fluttuazioni dei titoli finanziari sono proiettate sui lacerti degli affreschi secenteschi dell’abside.
Stefano Taccone, autore di un saggio di recentissima pubblicazione che, avvalendosi di un’ampia documentazione, mette a fuoco, per la prima volta in Italia, la figura e l’opera di Haacke ( Hans Haacke. Il contesto politico come materiale, prefazione di Stefania Zuliani, Plectica, Salerno, 2010) ha colto l’occasione per porgergli alcune domande su questioni più e meno recenti legate al suo percorso ed al contesto storico e politico in cui si inquadra.

Stefano Taccone: In Italia hai lavorato molto meno rispetto a quanto hai fatto in altri paesi europei (la Germania, naturalmente, ma anche l’Austria, la Francia, l’Inghilterra, la Spagna…). Quali sono le tue impressioni di questo tuo soggiorno italiano? Cosa pensi del contesto italiano (sia sul piano artistico che sul piano politico)? Vuoi raccontare la genesi della nuova opera che esponi in questa occasione?
Hans Haacke: La mia conoscenza della cultura e della politica italiane attuali è limitata. È basata su ciò che colgo dalla stampa internazionale e sulle conversazioni con la gente a Como e, l’anno scorso, durante la mia visita alla Biennale di Venezia. Mi appare molto inquietante la continua erosione della separazione dei poteri (il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario) che è fondamentale per una società democratica. Gran parte della televisione italiana è al servizio degli interessi di Berlusconi. Ora sento di nuovi tentativi di imbavagliare la stampa. Giudicando dai risultati delle recenti elezioni, gli elettori italiani non sembrano preoccuparsi della privazione dei diritti civili che stanno subendo.



ST: Passiamo a qualche domanda di maggior respiro storico. Il passaggio dalle indagini sui sistemi in tempo reale alle opere che denunciano la strumentalizzazione della cultura da parte dei poteri dell’economia e della politica è correlata alla tua perdita di fiducia nell’effettiva possibilità della ricerca scientifica (la cibernetica in particolare), in un contesto capitalista, di produrre benessere per l’umanità intera, come si può dedurre da opere come All System Go? Ciò mi fa venire in mente quanto scrive Guy Debord nei Commentari alla Società dello Spettacolo: «La società moderna, che fino al 1968 passava da un successo all’altro e si era convinta di essere amata, ha dovuto rinunciare allora a questi sogni; preferisce essere temuta. Sa bene che “la sua aria innocente non tornerà mai più”»
HH: Non ricordo di aver mai riposto una fiducia illimitata nella capacità della scienza di condurre ad una società più umana. Né ho mai rifiutato la scienza di per sé. Come molti della mia generazione, alla fine degli anni sessanta, sono diventato consapevole dei conflitti sociali e politici. Fu poi soltanto un passo logico aggiungere i “sistemi sociali” a quelli “fisici” e biologici”. Non uso più la terminologia dei sistemi. Retrospettivamente, mi sembra presuntuoso e, a seconda del contesto, può assumere connotazioni sinistre. Mi attraeva il fatto che implicassero l’interazione e l’interdipendenza di molteplici elementi in un campo dinamico dato. Stando alla relazione annuale della Saatchi & Saatchi, Lenin una volta disse: «Tutto è collegato a tutto il resto». È un altro modo di descrivere tale situazione.



ST: Nel 1994, la vittoria dell’ANC nelle prime elezioni libere e la vittoria di Nelson Mandela mettono ufficialmente fine al regime formale d’apartheid. Tuttavia, come, tra gli altri, Naomi Klein mostra eloquentemente in Shock Economy (2007), il potere economico rimane saldamente nelle mani dei bianchi e dal momento che i condizionamenti internazionali non permettono al nuovo governo di avviare le riforme necessarie per stabilire una maggiore giustizia sociale, le condizioni della popolazione nera non solo non subiscono sostanziali mutamenti, ma, secondo alcuni e per certi versi, peggiorano. Perché dopo Un jour les lions de Dulcie September jailliront de l'eau en jubilation non appaiono più riferimenti al Sudafrica nel tuo lavoro? Ti pongo questa domanda anche se penso che, attaccando la corporation culture, tu abbia implicitamente continuato a parlare del Sudafrica.
HH: L’impeto con il quale le mie opere che attaccano le multinazionali che collaborarono con il Sudafrica dell’apartheid e trassero profitto da essa affonda le sue radici nel mio essere nato in Germania, il paese che nel XX secolo ha perpetuato più crimini razzisti di qualunque altro. Sono molto lieto che, in questo caso, mi è capitato di essere stato dalla parte dei vincitori. Nel 1989, la data dell’opera di cui parli, non era prevedibile che cinque anni dopo il regime dell’apartheid sarebbe diventato qualcosa del passato. So poco del Sudafrica di oggi. Quando mi recai lì per poche settimane nel 1997, mi fu chiaro che il cambiamento di questa società potrà impiegare tantissimo ed essere un lungo processo. Sappiamo quanto è difficile da sconvolgimenti sociali recenti e relativamente minori in Europa e in Nord America.


ST: Nel sollevare questioni politiche attraverso un linguaggio concettuale tu sei stato senz’altro un pioniere. Quanto e come pensi di aver influenzato le generazioni più giovani? Quali sono, secondo te, le principali affinità e le principali differenze (di linguaggio e di contesto) tra le tue modalità di sollevare questioni politiche e quelle che adoperano gli artisti più giovani?
HH: Le giovani generazioni stanno crescendo in circostanze molto differenti e le comprenderanno ed affronteranno inevitabilmente in modalità differenti. Non sono in grado di analizzare le differenze e fare raccomandazioni.



ST: Fino a che punto pensi che l’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca ha cambiato o cambierà le cose rispetto al periodo di Bush? E con Obama la ricerca artistica gode di una maggiore libertà ed autonomia?
HH: Benché le guerre di cultura non siano cessate (gli americani fondamentalisti stanno ancora tentando di manomettere i diritti costituzionali) l’amministrazione Obama è fermamente dalla parte della libertà di parola e della separazione tra chiesa e stato. La sua vittoria alle elezioni statunitensi del 2008 ha prodotto grandi e felici effetti in molti campi. Dobbiamo tuttavia riconoscere che una parte considerevole degli elettori non appoggia la sua politica. Pertanto, pur avendo i democratici la maggioranza al Congresso, non sono uniti sull’agenda di Obama. Altrettanto preoccupante è il fatto che affinché una legge arrivi al voto in Senato è necessario che il 60% dei senatori pongano fine al dibattito, cosa che richiede che almeno alcuni senatori repubblicani rientrino nei ranghi. Non importa che sarebbe un bene per il paese e per i loro elettori, i repubblicani nel Congresso sono su di una linea di ostruzionismo, nella speranza di conquistare voti da elettori disaffezionati che sono incapaci di decifrare e ricordare come siamo arrivati nel punto in cui siamo e ciò che potrebbe prendere per uscire dai guai. Troppo spesso i sostenitori originari di Obama non riconoscono questi vincoli. I giovani ed altre persone che hanno votato nel 2008 per la prima volta in quantità senza precedenti sono impazienti e disillusi. C’è il rischio che non andranno alle urne a novembre. È ciò su cui repubblicani stanno scommettendo.